Il Dono Del Reietto

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Il Dono Del Reietto
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I Registri dell'Arena

Il Dono del Reietto

Romanzo Fantasy

di Mario Micolucci

Progetto e immagine di copertina di Mario Micolucci

Copyright © 2016 Mario Micolucci

Tutti i diritti riservati.

ISBN: 978-1532837241

Visita il blog: lalunaclessidra.blogspot.com

Alla famiglia in cui sono nato e

alla famiglia che ho creato.

Trattasi di un'opera di fantasia. Pertanto, nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell'autore. Ogni somiglianza con fatti, luoghi o persone è del tutto casuale.

Qualsiasi riproduzione, totale o parziale e qualsiasi diffusione in formato digitale dell'opera, non espressamente autorizzata, è da considerarsi violazione del diritto d'autore.


Indice generale

Prologo.

Il vivaio.

Il bastone magico.

Nuovi arrivi.

Il Santuario di Corrupto.

Senilità.

La capanna della strega.

Forte di Legno.

Fiducia.

Il pellegrino di Givedon.

La Leggenda Vivente.

La Dama del Buon Passo.

La volta celeste.

A chi ti odia porgi un fiore... con petali di pietra.

Jimbalahue il Verde.

Il Poema dei Magnifici.

La resa dei conti.

Con i piedi di piombo.

La Legione.

Artefice del proprio destino.

Il posto giusto.

La Via della Prudenza.

Lo Stagno delle Melodie.

I doni del Pellegrino.

La simbiosi.

La Squadra dell'Arcobaleno.

La pozione concentra vita.

Pazienza, perseveranza e costanza.

Serva di Ovathan.

Epilogo.

Note dell'autore.

Ringraziamenti.

Appendice.

Da: “Misathon”, Dharta di ottava generazione. Osservatore del settore “Bocca del Verme -Grande Palude-”. Competenze “accadimenti convenzionali di priorità minima”.

A: “Arthadon”, Dharta di quinta generazione. Osservatore del settore “Grande Palude”. Specifiche “soggetti non convenzionali itineranti di priorità media”.

Oggetto: richiesta ricollocazione procedure di registrazione.

Il sottoscritto Dartha Misathon, relativamente al processo id.191.FF0.F1E.8, chiede la ricollocazione delle procedure di registrazione inerenti al soggetto 191.123C23BD3501E in quanto non più pertinente alle specifiche FF di competenza. Si suggerisce per lo stesso, l'assegnazione a un processo con maggiore densità di osservazione e la modifica dell'indicatore di priorità da minima a media.

In ottemperanza con il protocollo, ivi, si provvede a motivare la richiesta allegando la trasposizione in forma analogica dei flussi dati inerenti il soggetto di cui sopra. Nel dossier risultano allegati, inoltre, numero dieci estratti di registrazioni tratte da altra fonte opportunamente identificata, utili a completare il quadro descrittivo.

Si attendono comunicazioni riguardanti la riconfigurazione del processo in esame.

Dharta Misathon

Estratto dai registri dell'Osservatore Amarthon, Dharta di quarta generazione. (Santuario di Petra -Monte Behemoth-. Soggetti in missione con priorità medio-alta. Settimo giorno del mese quarto nell'anno 11522 dall'inizio delle registrazioni)

Prologo.

Riatu Mihaki era allo stremo. L'umidità sembrava penetrargli fin dentro l'anima e il fetore della Grande Palude era insopportabile. Da ore, arrancava tra melma, fango e piante acquatiche deformi; tuttavia questo era il prezzo da pagare per sperare di far perdere le tracce agli inseguitori. Le esalazioni di quel luogo putrido si facevano sempre più tossiche e i suoi occhi a mandorla erano iniettati di sangue. Le vesti che, in origine avrebbero potuto essere eleganti, erano pregne e piene di strappi procurati tra i rovi. La melma mista ad alghe lo imbrattava dalle gambe fino ai lunghi e lisci capelli corvini. Con la mano destra si appoggiava al suo bastone d'onice, mentre, attraverso ripetuti movimenti istintivi, con la sinistra, si assicurava che un piccolo borsello per preziosi fosse ancora legato alla cintura.

Attraverso la nebbia, scorse la sagoma di un isolotto: si affrettò a raggiungerlo e trovò molto sollievo nel sentire del suolo un po' più consistente sotto i piedi. La striscia di terra era lunga una quindicina di passi, ma non era più larga di quattro. Su di essa resisteva un tetro albero senza foglie dalla corteccia scura e marcescente: le sue radici impedivano al terreno che lo circondava di sbriciolarsi e di sciogliersi nel fango. Gli innumerevoli lombrichi che vi brulicavano attiravano alcuni uccellacci neri simili a cornacchie, ma più grandi.

Riatu stabilì che, ormai, poteva ragionevolmente considerarsi al sicuro dagli inseguitori e che fosse giunto il momento di riposare un po'. Ancora qualche ora e sarebbe uscito dalla Grande Palude, quindi, volgendo lo sguardo verso Sud, avrebbe già potuto intravedere il Massiccio del Tuluk sede dell'antico Regno nanico di Roccadrim. Alle sue pendici, in una caverna naturale posta nelle viscere del Monte Behemoth, avrebbe raggiunto quella che era stata la sua casa negli ultimi ventisette anni, l'Accademia del Santuario di Petra.

Stava per riportare al Santuario la Reliquia che si riteneva perduta sin dai tempi della Guerra dei Quattro avvenuta diverse migliaia di cicli prima. Lo avrebbero sicuramente acclamato Professore nonostante la sua età di “soli” quarantuno anni e, ben presto, avrebbe potuto ambire alla carica di Rettore.

Gli elfi grigi erano stati abilissimi a nascondere la Lacrima di Petra per tutte quelle ere. Essa era usata come cristallo focalizzatore del Grande Astroscopio posto sulla cima della Torre di Cenere. Ivi, protetti dai maghi runici, alcuni tra i più influenti sacerdoti di Energon osservavano la volta celeste e formulavano previsioni affidabili sul succedersi delle epoche.

Riatu si sedette poggiando la schiena all'albero e, come faceva sempre per rilassarsi, prese uno dei suoi baffi lunghi e sottili tra le mani. Erano il suo tratto distintivo: tutti i gentiluomini della sua terra d'origine li sfoggiavano. Osservarli lo aiutava a ricordare i primi anni di vita. Suo padre era un'ombra silente, uno dei più abili ninja dell'Impero Sajamura: egli avrebbe voluto che ne seguisse le orme e gli aveva insegnato i primi fondamenti della sua Arte. Riatu, però, era stato assegnato a un altro destino: egli sentiva un forte legame con gli elementi, così l'occhio di Petra, Dea della Concretezza, si era posato su di lui. Seguendo la sua vocazione, aveva appreso a manipolare le energie della terra affidandosi agli insegnamenti di Miano Norita, un anziano e mediocre elementalista del suo Paese. Il maestro, vedendosi ben presto superato dall'allievo adolescente, aveva deciso di scrivere una referenza con la quale il ragazzo avrebbe potuto presentarsi all'Accademia. Il giovane sapeva per certo che il padre non glielo avrebbe concesso. Così, era fuggito di casa per intraprendere un lungo e avventuroso viaggio verso il lontano occidente.

Chi lo avrebbe mai detto che proprio le sue origini sarebbero state determinanti nell'indirizzare la scelta del Collegio Accademico? L'epico compito di recuperare la Lacrima era spettato a lui e riuscire in una tale impresa gli avrebbe fruttato più di una menzione nei libri di storia.

 

Il piano era stato sviluppato nei minimi dettagli: l'Accademia gli aveva fornito falsi documenti con i quali si sarebbe presentato alla Torre di Cenere in qualità di ambasciatore del lontano Impero Sajamura e, recando con sé preziosi doni, avrebbe richiesto i servigi a corte di un arcimago runico. Una volta alloggiato, usando le sue abilità di ombra silente, avrebbe dovuto raggiungere il cuore dell'Astroscopio e prelevare il Cristallo. Tale missione sarebbe stata più facile per uno specialista di sotterfugi quale un adepto di Ovathan, Dea della Discrezione, ma la Reliquia era di valore inestimabile e non era saggio affidare qualcosa di così prezioso a un operatore del crimine.

Riatu non avrebbe dovuto, in alcun modo, rivelare la sua natura di geomastro. Quindi, nella sua missione, non poteva fare affidamento sulla magia elementale.

Non era stato facile, tuttavia ora intravedeva la meta: la Lacrima era con lui, nel suo borsello, e gli inseguitori erano stati seminati. Per la prima volta dopo diversi giorni, si sentiva più rilassato… si addormentò.

Sognò la madre, i suoi lunghi e lisci capelli corvini che ricadevano sul kimono. Ella lo ammoniva: “Riatu, stai attento alle pozze d'acqua! Lì, potrebbero nascondersi i malvagi spiriti della palude”.

Ricordava bene le leggende sui kappa: per metà uomini e per metà bestie, catturavano e uccidevano affogandoli gli ignari pellegrini che, malauguratamente, si addormentavano nei pressi delle acque della Palude Gialla. Ebbe la cognizione di non essere più nell'Impero Sajamura: “Madre sta tranquilla, qui a occidente i kappa non esistono.” Nonostante quella fumosa consapevolezza, si ritrovò agli argini di un acquitrino che, per via delle alghe e dello zolfo disciolto, aveva un colore giallastro e sognò una di quelle creature pronta ad avvinghiarlo...

Si svegliò di soprassalto proprio mentre le cornacchie spiccavano freneticamente il volo e appena in tempo, per vedersi ghermire la gamba da un enorme tentacolo. Emise un urlo soffocato e tentò di alzarsi, ma la strana cosa lo trascinò con uno strattone nella melma verso una zona della palude più profonda. Non vide più nulla: l'acqua putrida lo sommergeva completamente. Raccolse le energie, stabilì il contatto elementale con il fondale, focalizzò il potere attraverso il bastone e mise in atto l'unico gesto che poteva fare per salvarsi la vita: usò la magia.

Dal fondo della pozza emerse, con un'accelerazione brutale, un enorme spuntone di roccia che trafisse il kraken: lo sollevò oltre il livello dell'acqua lasciandolo infilzato e agonizzante a diversi piedi d'altezza. Il mostro appariva simile a un enorme polipo dello stesso colore della melma ed era ricoperto di alghe gocciolanti e incrostazioni. Riatu penzolava a testa in giù avvinghiato al tentacolo ancora in movimento; fu facile reciderlo facendo schizzare dall'isolotto una pietra che in volo assunse la forma di una stella simile agli shuriken usati da suo padre, ma più grande.

Cadde con un tonfo sordo nell'acqua sottostante, si rialzò subito e prese a correre.

«Per Tron! Non dovevo usare la magia! Ora, non solo mi troveranno, ma capiranno anche chi mi ha mandato!» imprecò.

Dopo pochi passi, si fermò, poiché aveva realizzato che, anche se avesse fatto perdere di nuovo le tracce, gli inseguitori avrebbero immediatamente arguito la probabile implicazione dell'Accademia di Petra: ne sarebbe, quindi, scaturita una difficile crisi diplomatica o addirittura una guerra. Non aveva scelta. “Li dovrò affrontare entrambi, solo uccidendoli, la mia identità rimarrà segreta. Se solo non mi trovassi in questa maledetta palude: tutta quest'acqua che ricopre il suolo rende ogni incantesimo più difficile!” pensò nel prepararsi allo scontro.

Decise di non perdere tempo e cominciò ad accumulare potere elementale da ogni frammento di roccia e di terra che lo circondava: il vicino isolotto si sgretolò lasciando crollare l'albero. Aveva acquisito moltissima energia, tuttavia ne necessitava altra, se voleva sperare di sopraffare i due elfi che lo braccavano: un mago runico e un sacerdote di Energon. Il bastone diventava sempre più pesante e anche lui: se ne accorse perché i suoi piedi sprofondarono un po' nel fondale dell'acquitrino. Quando avvertì lo strato più esterno della sua pelle seccarsi e sbriciolarsi come polvere di pietra, capì di aver raggiunto il suo limite massimo. Se avesse continuato ad accumulare, avrebbe collassato tramutandosi in una statua di gesso che presto l'umidità avrebbe disciolto nella palude.

Rimanendo immobile, usò tutta la sua concentrazione per mantenere stabile quanto accumulato. Il piano era semplice: non appena gli inseguitori sarebbero emersi dalla nebbia, avrebbe scaricato il suo incantesimo offensivo più potente. Si sentiva come un calderone pieno di vapore pronto a esplodere. L'attacco sarebbe stato immediato e letale. Sapeva che la magia runica del suo avversario era molto veloce, comunque questi aveva bisogno di alcuni attimi per pronunciare l'incantesimo, degli attimi che sperava si sarebbero rivelati fatali.

Non attese a lungo: prima udì da lontano una nenia nell'antica lingua dei Dharta, che doveva essere una preghiera al dio Energon, elevata dal sacerdote e, subito dopo, sentì più vicino a sé la voce del mago. L'elfo si era reso invisibile, ma doveva pronunciare i comandi runici per lanciare l'incantesimo. Riatu espulse istantaneamente tutta l'energia accumulata e una moltitudine di piccoli shuriken di pietra schizzarono fuori dall'acquitrino per dirigersi a velocità ipersonica verso la fonte della voce che ancora stava proferendo la prima runa.

Proprio in quel momento, però, vide tutto ciò che lo circondava rallentare: i suoni circostanti divennero lunghissimi e gravi e i suoi proiettili… i suoi proiettili volavano lenti come farfalle! Ebbe persino il tempo di riflettere sulle cause della sua rovina, pensò alla nenia e ricordò di come Energon operasse, attraverso i suoi adepti più ferventi, il miracolo di manipolare lo scorrere del tempo. Vide il mago runico tornare visibile e scartare a destra per allontanarsi dalla traiettoria dei proiettili, con un balzo a velocità naturale. Senza poter fare nulla, lo sentì finire di pronunciare l'incantesimo. UXXA GRETTA MACKA furono le ultime parole che Riatu sentì: una potente scarica di magicka, simile a un fulmine, lo colpì con una distruttività amplificata dal fatto che fosse immerso nell'acqua fin sotto le ginocchia. Fu sbalzato di diversi piedi e il bastone volò via da qualche parte nella palude. Folgorato, esalò l'ultimo respiro prima ancora di ripiombare in acqua sulla schiena.

«Ero sicuro che Energon avrebbe ascoltato le mie preghiere: negli ultimi tempi ho compiuto diverse gesta per compiacerlo e ora mi ha ricambiato.» Un elfo dai capelli argentati emerse dalla coltre nebbiosa avvicinandosi a passi lunghi e rapidi verso il luogo del combattimento. Era vestito con saio grigio aderente e privo di decorazioni.

«Vi ringrazio Paradharta Kimethon, se non aveste rallentato lo scorrere del tempo non avrei mai terminato di pronunciare l'incantesimo del fulmine maggiore: la magia elementale per certi aspetti è molto più lenta di quella runica a causa della fase di accumulo, tuttavia se un elementalista si è preparato in anticipo ed è già in contatto con la natura, la situazione si ribalta.» Il mago si chinò sul corpo di Riatu per rovistarlo: nel farlo, la melma gli imbrattava le vesti risplendenti di fili argentati che si intrecciavano in ricami di simboli arcani.

«Ah! Ecco la Pietra Focalizzatrice» disse.

« ...o anche Lacrima di Petra. A quanto pare all'Accademia della Terra hanno appurato che il nostro astroscopio funziona grazie a essa. Sarà necessario potenziare la sicurezza, sono sicuro che torneranno a "farsi vivi" molto presto» continuò il gran sacerdote.

«Bene, ora direi di uscire celermente da questo posto putrido, non vorrei che i goblin si accorgessero di noi. Preferirei che non fossimo invitati a un loro barbaro rituale!» osservò il mago con una vena sarcasmo.

«Dovremmo ritrovare il bastone per risalire all'identità dell'elementalista» puntualizzò l'altro.

«Paradharta, in qualità di Vostra guardia del corpo, permettetemi di dissuadervi da tale proposito. Rovistare tra la melma richiederà del tempo. Considerando la segretezza dell'operazione in cui l'uomo era coinvolto, non penso che abbia portato con sé il suo bastone personale per, poi, lasciarlo incustodito da qualche parte fuori dalla Torre di Cenere. Molto più plausibilmente, gliene sarà stato fornito uno anonimo e di scarso valore, sicuramente non direttamente riconducibile a un qualsiasi Adepto dell'Accademia. Ritengo che sia sufficiente sapere che l'umano dell'Est fosse un elementalista della terra dalle competenze verosimilmente cattedratiche. Inoltre, siamo prossimi al crepuscolo. I goblin ci odiano e qui siamo nel loro territorio. Se ci attaccheranno numerosi, potrebbero persino sopraffarci: l'intruglio che usano per infettare le loro armi è direttamente attinto dalla Fonte del Santuario di Corrupto e, a differenza di molti altri veleni, esso risulta letale anche per la nostra razza!» arringò il mago.

Il gran sacerdote annuì flemmaticamente e sentenziò: «Tetairadon, la tua è una speculazione inattaccabile, perché permeata di pura razionalità: le tue parole sono benedette da Energon. Effettivamente i presunti benefici non controbilanciano i rischi. E sia: abbandoniamo questo luogo immondo!»

Nascosta dalla nebbia, in un canneto vicino, una piccola sagoma scura con occhi gialli luminescenti osservava le due slanciate figure grigie allontanarsi con passo svelto e niente affatto impacciato dall'acquitrino. Quando esse furono sufficientemente lontane, si mosse.

Dai registri dell'Osservatore Misathon, Dharta di ottava generazione. (Bocca del Verme -Grande Palude-. Accadimenti standard di priorità minima. Ottavo giorno del mese quarto nell'anno 11522 dall'inizio delle registrazioni)

Il vivaio.

«Questo qui è morto stanotte» disse una figura ricurva e dalla carnagione verdognola mentre caricava un corpicino smunto su una carriola di legno marcio e ossa.

«Ah, questo!» rispose Hork sputando. «Era proprio un mollaccione! Gli altri cuccioli gli sottraevano sempre il pasto e non ha neanche provato a ucciderli nel sonno... Imbecille!»

«Almeno, adesso sarà più utile: ne ricaveremo cibo per i lupi, ossa per gli utensili e pellame per gli indumenti.»

«Il teschietto, però, lascialo a me. Sai che li colleziono.»

«Fai come vuoi addestratore, ma se continui a prendere tutti i teschi dei piccoli che muoiono, al prossimo ciclo ne avrai la capanna piena.»

Djeek aveva visto scene simili decine di volte, ma quella volta ascoltava la conversazione con un senso di disagio, come se in ciò che vedeva, per la prima volta, vi scorgesse qualcosa di sbagliato. Sarà, forse, perché stavolta a morire era stato Yuk che era il più cordiale nei suoi riguardi tra tutti gli altri del vivaio, lì, nel villaggio di Bocca del Verme. Poi, però, quasi sentendosi in colpa per il suo sentimento, ricacciò indietro ogni altro dubbio catechizzandosi: “Smettila di delirare! Lo sanno tutti che coloro che cedono a debolezze quali gentilezza, onestà e mansuetudine meritano di morire. Solo i più validi elementi, solo coloro che si distinguono per malvagità, furbizia o ferocia meritano di diventare adulti e di essere accolti tra i figli di Corrupto. Solo i più subdoli merit... ouch!” Il dolore lancinante di una palata sulla schiena gli ricordò quanto dura fosse la realtà. Fu scaraventato a terra di faccia e, mentre tramortito rialzava la testa dal fango, ricevette un calcione sotto il mento che lo sollevò in aria fino a farlo ricadere di schiena sul terreno melmoso.

«Muoviti, babbeo! Che fai lì impalato! Vai a fare l'unica cosa che ti riesce bene! Ecco il sacco, riportalo pieno prima di mezzanotte!» urlò Hork, mentre se ne andava camminandogli intenzionalmente sullo stomaco.

Il vivaio era un recinto dove Djeek e altre decine di piccoli goblin venivano allevati, in esso vi era una baracca fradicia che faceva ben poco per riparare dalle piogge e dal freddo, ma era meglio di niente. La capanna era grande, tuttavia non abbastanza ampia per contenerli tutti. Così, quelli che non erano sufficientemente forti o astuti per accaparrarsi i posti erano costretti a riposare all'addiaccio patendo il gelo umido invernale o l'odiatissimo sole estivo. Djeek, purtroppo, era tra quelli che dormivano quasi sempre fuori e, normalmente, questi ultimi erano sempre i primi a morire. Sapeva di avere un fisico normale, anche abbastanza resistente, ma era relegato agli ultimi posti tra i suoi simili. Tutto questo perché mancava di furbizia, non importava che fosse piuttosto intelligente, erano l'astuzia, la prontezza e l'opportunismo che facevano la differenza e in ciò, era assai carente. Una parte di sé era consapevole che quelli come lui non erano destinati a diventare adulti, a meno che, in compenso, non fossero estremamente forti o feroci. Egli, purtroppo, non era nessuna delle due cose. Il giorno prima, però, la fortuna lo aveva baciato: si era imbattuto in qualcosa che, forse, avrebbe determinato il suo riscatto. L'aveva nascosto sotto la radice di un vecchio albero nella Grande Palude e non vedeva l'ora di riaverlo tra le mani. Prima, però, doveva riempire il sacco.

 

Si addentrò in un canneto, fiutò l'aria e percepì l'odore di ciò che cercava. Caricò la cerbottana e si sdraiò a terra. Procedette con il corpo immerso nell’acquitrino in modo da lasciare fuori solo la testa, si avvicinò alla preda e, quando questa fu a tiro, soffiò: il piccolo ago andò segno. La grossa nutria si dimenò per qualche istante per poi galleggiare morta nell'acqua salmastra.

Il Dono di Corrupto era un veleno potentissimo: ne bastava una goccia per uccidere qualsiasi essere vivente. Le prede marcivano rapidamente, ma in maniera diversa, senza decomporsi. La loro carne risultava tossica e quindi, non commestibile per chiunque non fosse un goblin. Il Dono, infatti, era innocuo per loro ed essi lo usavano anche per curare le infezioni e le malattie: il veleno uccideva all'istante anche i vermi o qualsiasi altro essere microscopico procurasse il malanno.

I goblin erano stati rigettati da tutti i territori di Xantis, ma lì, nella Grande Palude, erano forti e numerosi proprio in virtù del Dono. Lo attingevano dalla Fonte di Corrupto e, grazie a esso, erano più pericolosi, oltre che immuni alle malattie.

Djeek raccolse la nutria e la infilò nel sacco resistendo alla tentazione di darle un morso: sapeva bene che Hork, l'addestratore, non tollerava che lo facesse. Si toccò la guancia, passandosi la mano su una cicatrice rugosa e ricordò con dolore l'episodio che per miracolo non gli costò la vita: fare ciò gli serviva per evitare che l'istinto prevalesse. Il suo compito era di catturare topi, rettili o altri animali commestibili... senza mangiarli: poi, se il risultato della caccia soddisfaceva Hork, allora gli erano concessi un paio di morsi, altrimenti digiuno. Come spesso gli capitava, si assentò dal presente, e si ritrovò, con il pensiero, a rivivere ciò che gli era accaduto tre cicli prima: erano due giorni che, come ricompensa per i suoi mediocri risultati, otteneva un pugno nello stomaco. Così, quando allo stremo catturò un appetitosissimo ratto, lo divorò immediatamente sperando di farla franca. Questo gli diede nuove energie e riportò il sacco pieno. A Hork, bastò annusargli l'alito per capire ciò che aveva compiuto. Così, prima lo malmenò rompendogli un paio di costole, poi lo colpì allo stomaco con lo scopo di fargli risputare il ratto, ma visto che quello era bello e digerito, pensò bene di riavere indietro quella piccola razione di carne strappandogliela con un morso direttamente dalla guancia.

Fu buttato nella latrina della vergogna dove sopravvisse per diversi giorni mangiando i vermi che brulicavano tra gli escrementi. Poi, forse apprezzando il suo attaccamento alla vita e il suo istinto di sopravvivenza, Hork lo tirò fuori dal pozzo fetido e gli concesse un'altra possibilità. Un piccolo scroscio lo trasse via dal flusso dei ricordi e lo riportò alla realtà: le prede lo attendevano, non era il caso di starsene imbambolato a rivangare il passato. Scaricò il disagio indotto da quei pensieri gravosi con un peto sonoro e tornò alle sue mansioni.

Nelle ore successive si diede parecchio da fare e la caccia andò piuttosto bene. Ormai, era diventato bravo, anche se questo non gli rendeva onore, poiché cacciare, pescare, conciare, costruire capanne o fare qualsiasi altro lavoro era umiliante per un maschio, lavorare era roba da cuccioli o da femmine. Un goblin rispettabile doveva dedicarsi solo a gesta onorevoli quali tendere imboscate, rubare, depredare, violentare e saccheggiare. Djeek sapeva di avere un'indole poco aggressiva: alcuni altri piccoli già si prodigavano in atti che prefiguravano azioni simili a quelle degli eroici razziatori adulti, ma lui mancava di quel talento. Ogni volta che provava a pianificare qualcosa di meschino, era goffo e prevedibile: l'istinto non lo assisteva. Mentre si rammaricava del suo handicap, fiutò l'odore che meno avrebbe voluto sentire: quell'odore significava guai ed era senza dubbio dell'odiosissimo Kitzo. Questi non era forte, lo era anche meno di lui, ma era talmente astuto e contorto da meritarsi il rispetto di tutti gli altri giovani del vivaio. Aveva persino ottenuto l'attenzione di alcuni adulti: metteva i compagni l'uno contro l'altro e, a ogni scontro, chissà come, il vincitore era sempre dalla parte sua... o viceversa. Djeek sperò che Kitzo non fosse da quelle parti per lui, ma la speranza durò poco, perché, prima che potesse localizzare l'odore, fu colpito in testa da una pietra che lo tramortì giusto il tempo per vedersi sfilare il sacco. Non appena si riebbe, si lanciò all'inseguimento: finalmente, quel bastardo non era circondato da suoi seguaci. Se lo avesse raggiunto, adirato com'era, avrebbe anche potuto infliggergli una lezione.

«Ridammi il sacco!» intimò con tono alterato.

«Se mi acchiappi, giuro di restituirtelo!»

Kitzo era rallentato dal bottino e Djeek lo raggiunse su un isolotto circondato da un canneto. «Ti ho preso rendimi il sac...» Si ritrovò con la faccia nel fango.

Dopodiché, fu una valanga di calci e bastonate. “Mi ha fregato di nuovo!” realizzò con amarezza. “Come ho potuto pensare che fosse solo! Ha tirato l'amo e il pesce ha abboccato.”

«Ragazzi, vi avevo detto che vi avrei portato a un banchetto! Diamoci dentro con questi bocconcini!» gongolò Kitzo.

«Grazie, Kit» risposero all'unisono due voci baritonali e ottuse.

Djeek alzò la faccia dal fango e, dall'occhio meno tumefatto, vide Gork e Girk: erano grossi e praticamente identici. I due erano estremamente possenti e per quanto riguarda l'astuzia... be', a quella ci pensava Kitzo.

Senza troppe speranze, raccolse le forze e con il fiato che gli rimaneva, intimò: «Io ti ho acciuffato, mi hai giurato di restituirmi il sacco!»

«Certo! Subito» rispose l'altro beffardo, lanciandoglielo.

«Ma che me ne faccio del sacco vuoto? Io lo rivoglio pieno!»

Poi, pensando che il maligno Kitzo avrebbe potuto riempirlo anche di melma, precisò: «Lo rivoglio pieno di prede!»

«Avete sentito ragazzi? Vuole il sacco pieno. Come vuoi, voglio essere gentile con te» disse. Quindi, rivolgendosi ai gemelli e indicando il malcapitato goblin, suggerì: «Che aspettate a colmare il sacco! Guardate quella pantegana lì, dovrebbe riempirlo bene. Mi raccomando, chiudetelo con cura non vorrete farla scappare.»

Nonostante i suoi sforzi, Girk e Gork non faticarono molto a rinchiuderlo. I tre malfattori mangiarono il più possibile selezionando solo le parti migliori delle piccole prede e gettando gli avanzi nell'acquitrino. Ogni protesta di Djeek era messa a tacere da violenti calcioni. In realtà, questi ultimi venivano generosamente elargiti, a intervalli regolari, anche se taceva. Quando ebbero finito, Kitzo spronò gli altri ad andarsene dicendo: «Forza ragazzi, dobbiamo correre ad avvertire Hork che questo sorcio da latrina, ha passato tutto il tempo a divertirsi anziché cacciare.»

Djeek sapeva che Hork, riconoscendone il talento, avesse un debole per Kitzo e che, anche quando questi compiva qualcosa di proibito, faceva sempre finta di non accorgersene.

Quando gli altri si allontanarono, dolorante, sfilò dal taschino una delle pietre taglienti a forma di stella raccolte il giorno precedente e si liberò.

La situazione era seria, per non dire disperata: mancava poco a mezzanotte e il sacco era vuoto. Pensò alla collezione di teschi di Hork e rabbrividì all'idea che la sua testa dovesse entrare a farne parte.

«Prima di morire voglio vederlo per l'ultima volta» pensò ad alta voce, mentre si avviava verso il nascondiglio del suo piccolo tesoro. «Forse, se lo riporterò al vivaio come un trofeo, mi risparmieranno... o forse, no.»

Raggiunto il luogo, spostò alcuni rovi dal ceppo di un vecchio albero e da una fessura sotto una grossa radice, sfilò lo strano bastone.

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