Il Dono Del Reietto

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Registri di Dharta Misathon (ottavo giorno del mese quarto nell'anno 11522).

Il bastone magico.

Djeek prese il bastone fra le mani, non sembrava né di legno né di ossa né di metallo, probabilmente era di pietra, di una strana pietra nera, levigata e lucida: infatti, era più pesante di quanto la sua forma esile facesse intuire. Aveva un disegno lineare e privo decorazioni tranne che per una grossa gemma incastonata sulla testa attraverso quattro piccoli fermi dalla forma che il goblin associava ai denti del Verme Primordiale.

La gemma era nera, ma Djeek ricordava di averla vista brillare di una luce verde. Questo era avvenuto quando l'umano che aveva ucciso il mostro della palude si era immobilizzato assomigliando a una statua. Si era imbattuto altre volte negli uomini: spesso tra il bottino delle razzie, venivano riportati alcuni di essi. Arrivavano nudi e legati con robuste corde alle cavalcature ferine degli incursori. Erano tutti più alti e poderosi di qualsiasi goblin, però non erano molto resistenti. Venivano messi a lavorare, ma morivano subito o di fame o di malattia o, addirittura, di fatica: non a caso era un insulto diffuso dire "sei fragile come un umano". La loro carne non era un granché, Djeek la trovava pessima: essa veniva data ai groppalupi cavalcati dai razziatori oppure ai piccoli goblin; gli adulti si guardavano dal mangiarla, perché temevano di assimilarne la vulnerabilità. L'uomo a cui apparteneva il bastone, però, era strano. Un goblin qualsiasi non avrebbe notato alcuna differenza con gli altri, ma Djeek, acuto osservatore, aveva scorto delle anomalie: gli strani occhi, come fessure, il colorito più giallognolo e la statura piuttosto minuta.

Ricordava quanto fosse potente il bastone, ma aveva constatato che non lo fosse abbastanza per sopraffare i mostri per antonomasia, i mostri che bastava nominare per raggelare il cuore anche dei più temerari: gli elfi. Ne aveva sentito parlare nei racconti del terrore che si scambiavano al vivaio: erano i più grandi tra loro a raccontarli ai più piccoli per vederli tremare di paura. Ora, lui li aveva visti e, miracolosamente, era ancora vivo: avrebbe voluto raccontarlo agli altri, ma chi gli avrebbe creduto?

Erano terrificanti: alti almeno quanto un umano, dai lineamenti delicati, esili eppure così agili ed energici; avevano la carnagione pallida e grigiastra e i capelli del ripugnante colore dell'argento. Longilinei, affilati e lucenti, gli elfi sembravano delle spade micidiali. La cosa peggiore fu la tempesta che, nel vederli, si era scatenata dentro di lui: aveva sentito un odio ancestrale pervaderlo, un odio che bruciava dentro e che faceva più male dei pugni di Hork. Gli si erano drizzati tutti peli sulla testa e sulla schiena; non riusciva a fare a meno di mostrare le zanne e, a ogni pesante respiro, la bava gli colava copiosamente dalla bocca, mentre il cuore tamburava furiosamente. Aveva dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo per domare l'orrore e rimanere fermo; il suo corpo avrebbe voluto muoversi d'istinto, non sapeva se per scagliarsi contro di loro o per fuggire.

Stentava a credere che loro, i goblin, potessero in qualche modo discendere dagli elfi. Guardò la sua immagine riflessa sull'acquitrino. Era piuttosto esile, proprio come loro, sì, ma per il resto non c'era nulla di più differente: a partire dalla pelle verdognola e butterata, i lineamenti marcati, i peli radi e ispidi, le zanne, le gambe arcuate, i palmi delle mani e le piante dei piedi forniti di cuscinetti e le unghie come artigli smussati. Gli elfi grigi erano completamente inodori, i goblin, invece, avevano il fiero odore dei lupi.

Come tutti i cuccioli, Djeek, non aveva mai assistito ufficialmente al Rito della Nascita, tuttavia la curiosità e l'interesse lo avevano portato, nell'occasione, a nascondersi in un angolo del vivaio lontano dallo schiamazzo dei suoi compagni. Da lì, aveva potuto udire in maniera fievole, ma piuttosto comprensibile il rullare tamburi, le urla tribali e soprattutto le parole. Durante il Rito, gli sciamani rievocavano l'origine della loro razza, esso prevedeva il sacrificio di un elfo. Purtroppo, negli ultimi anni il confinamento nella Grande Palude li poneva in territori distanti da quelli in cui questi vivevano. Pertanto, veniva usato un fantoccio con addosso qualche accessorio elfico rimediato nei saccheggi. Djeek aveva persino memorizzato le parole del Rituale: esse formulavano una cantilena antitetica a qualsiasi forma di poesia. Cominciò a recitarlo, mentre ripuliva il bastone dalla melma e dalle alghe:

La Guerra dei Quattro volgeva al termine

Tutti avevano perso

I Primi Nati dormivano da tempo

E il Mondo moriva

Idron il Placido, Idron dell'Acqua

Idron l'Inarrestabile piangeva per la sorte degli elfi degli abissi

e grandi tsunami affogavano i viventi in gorghi profondi

Petra l'Affidabile, Petra della Terra

Petra l'Inamovibile tremava per la sorte degli elfi delle profondità

e terribili terremoti inghiottivano i viventi in crepacci bui

Tempèra l'Algida, Tempèra del Gelo e del Fuoco

Tempèra il Furente ruggiva per la sorte degli elfi di brina e di fiamma

e spaventose eruzioni incenerivano i viventi e conseguenti glaciazioni assideravano i superstiti

Spiral il Libero, Spiral dell'Aria

Spiral l'Inafferrabile si straziava per la sorte degli elfi delle nuvole

e inarrestabili uragani risucchiavano i viventi in cieli tempestosi

La Guerra dei Quattro volgeva al termine

Tutti avevano perso

I Primi Nati dormivano da tempo

E Xantis moriva

Energon l'Arbitro, Energon del Magicka, dall'alto della Luna Clessidra taceva e osservava

I Quattro si servivano dell'energia del suo Mondo per plasmare gli elementi

tuttavia Egli la centellinava e scandiva lo scorrere del tempo di cui era padrone

si dichiarava neutrale ma la sua Arena li aveva incanalati verso la condanna

I Quattro erano prossimi ad abbandonare la Tenzone

Energon del Tempo avrebbe regnato anche sulle loro opere

I Dharta suoi figli erano al sicuro nella Clessidra Celeste

non combattevano ma scrivevano e ogni cosa annotavano

La Guerra dei Quattro volgeva al termine

Tutti avevano perso

I Primi Nati dormivano da tempo

E l'Arena degli Dei moriva

Tron il Supremo non era appagato

Egli voleva dichiarare un vincitore

Nessuno dei Quattro aveva prevalso

Tutti avevano perso

Un cambiamento e una perturbazione dell'equilibrio necessitavano

E Tron inviò Corrupto dell'Evoluzione

"Va e fa che la Guerra continui e che ci sia un vincitore

tuttavia dei Quattro nessuno devi avvantaggiare"

La Guerra dei Quattro volgeva al termine

Tutti avevano perso

I Primi Nati dormivano da tempo

E il tutto stava per appartenere a Energon

La Nebulosa Marcia brillò fiera sulla Volta Celeste

Corrupto aprì un varco e da esso emerse il suo Emissario

Il Verme Primordiale era potente quanto un Primo Nato ma presto si sarebbe assopito

Corrupto voleva disporre di servitori indigeni e l'Emissario lo ascoltò

Cercò il magicka nell'impenetrabile Torre di Cenere ne trovò la fonte

Segui le tracce e alcuni Elfi Grigi fuori da essa stanò

in una caverna di lupi si rifugiarono ma con tutta la grotta li divorò

La Guerra degli Quattro volgeva al termine

Tutti avevano perso

I Primi Nati dormivano da tempo

E Corrupto preparava il suo intervento

Nel ventre del Verme per decenni gli elfi furono deturpati

Soffrivano, si dimenavano, cercavano la morte ma non la trovavano

Sprizzavano lampi bluastri di magicka ma il Verme lo assorbiva e lo plasmava

Decomponevano tra spasmi, urla disperate e loro energia in odio mutava

Per decenni furono digeriti e con essi i lupi della grotta, la terra, il fango

Alla fine l'Emissario terminò il suo compito e dal suo ventre noi goblin fummo generati

Destinati a degenerare nella vecchiaia come i lupi mortali vivevamo

Feroci, astuti, letali e prolifici come i lupi ci diffondevamo

La Guerra dei Quattro volgeva al termine

Tutti avevano perso

I Primi Nati dormivano da tempo

E Corrupto si apprestava a regnare su Xantis

Noi goblin ci moltiplicammo a milioni

Tutti i popoli stremati sottomettemmo

Sacrifici a Corrupto in tutta Xantis elevammo

Ciò non piacque a Energon della Razionalità

Egli arrestò lo scorrere del tempo e a Tron rivolse la sua protesta

“Ho accolto i Quattro in Magicka, il mio Mondo, per farne l'Arena

Per ere Ti sei appagato del loro scontro, tutto i miei servi hanno registrato

Nessuno dei Quattro ha ancora vinto e Corrupto non è della Contesa”

La Guerra degli Quattro volgeva al termine

Tutti avevano perso

I Primi Nati dormivano da tempo

Ma Limpa giunse a perseguitarci

Tron divertito dai nuovi risvolti decise di allargare la Contesa

In antitesi a Corrupto inviò Limpa della Conservazione

E il Diamante risplendette nella Volta Celeste

Ella aprì un varco da cui scaturì il suo Emissario

Il Cigno di Cristallo solcò i cieli con una scia di polvere splendente

Tutti gli elfi da essa investiti provarono sollievo e gioia: il loro aspetto mutò

 

Crebbero in statura e in purezza, i capelli divennero rilucenti come i diamanti

Gli Elfi di Cristallo ci mossero guerra e cruenti furono gli scontri

La Guerra i Quattro era finita

Nessuno aveva prevalso

Ma una nuova Contesa si era aperta

Tanti Nuovi Dei giunsero e vi presero parte

Nuove razze furono generate e tante altre guerre furono combattute

Fiumi di sangue furono versati e molto magicka fu dissipato

Il rito originale continuava, ma da tempo immemore, la parte finale era stata omessa dalla tribù, forse perché contemplava il graduale declino della loro razza e soprattutto perché, ormai, tutti ritenevano falsa e fastidiosa l'ultima strofa. Non era possibile che i deboli umani, giunti in epoche più recenti, fossero stati generati direttamente da Tron in persona.

Djeek amava recitare il Rito, perché lo portava a fantasticare, ma fantasticare poteva essere letale per un goblin... Infatti, se prima era tardi, dopo le sue elucubrazioni, lo era molto di più. Dove avrebbe trovato il coraggio di presentarsi a Hork con il sacco vuoto? Il tempo che gli restava non sarebbe bastato neanche se i ratti della Grantana fossero usciti, come per magia, tutti allo scoperto. Fu esattamente allora che proprio la fantasia gli fece balenare un'idea bizzarra.

Registri di Dharta Misathon (ottavo giorno del mese quarto nell'anno 11522).

Nuovi arrivi.

Djeek impugnò il bastone che lo superava in altezza di almeno mezzo piede e, sollevando schizzi, si mise a correre rumorosamente verso la grande tana delle nutrie. Era buio e c'era la nebbia, ma nessuna delle due cose infastidiva più di tanto la sua vista da goblin. Arrivò a una montagnola di argilla con alcuni fori a cui facevano capo profondi cunicoli nei quali centinaia di roditori trovavano rifugio. Djeek l'aveva ribattezzata Grantana ed era una specie di scatola dei desideri. Purtroppo, ogni tentativo di penetrarvi era risultato vano. Diverse volte, aveva provato a scavare, ma l'operazione era lenta e le creature facevano in tempo a spostarsi in zone sicure della complessa rete di tunnel. Aveva provato a versare dell'acqua, ma questa defluiva per poi essere assorbita nel terreno in profondità. Nemmeno appiccare il fuoco in prossimità delle buche era servito.

Stavolta, però, disponeva di un nuovo strumento. “Se grazie a questo bastone, quell'umano ha stanato e messo allo spiedo il Grande Mostro della Palude, io potrei riuscire a stanare almeno qualche roditore” pensò Djeek senza troppa convinzione.

Strinse forte l'impugnatura, imitando goffamente la posizione dell'elementalista, socchiuse gli occhi e si sforzò cercando di scuotere la montagnola con il pensiero. Purtroppo, non accadde nulla. Provò altre volte sbarrando gli occhi o serrando i denti: niente, niente di niente!

Alla fine, stremato e rassegnato, si genuflesse reggendosi al bastone. Attraverso di esso, sentiva flebili e lontane le vibrazioni che si trasmettevano sul terreno: erano i ratti che si muovevano e scavano sotto la superficie. Già altre volte, poggiando l'orecchio a terra, aveva potuto sentirli: così vicini eppure, così irraggiungibili. Gli sembrò quasi di vederli lì sotto, immaginò di poter penetrare nel cunicolo e seguirli nei loro nascondigli. Sentì i loro passi furtivi quasi come se gli passassero sul ventre e, come in un sogno, immaginò di schiacciarseli addosso con le braccia: avvertì il loro sgomento nel vedere le loro tane tremare e crollargli addosso. Sentì il calore del loro sangue scorrergli sul petto e l'inebriante odore dell'adrenalina che trasudava dalla loro pelle.

Come risvegliandosi da una visione, Djeek aprì gli occhi e vide una valanga di ratti evacuare terrorizzati dalla montagnola semi-crollata. Si lanciò alla caccia e, nel giro di un minuto, aveva già riempito il sacco.

Era salvo: ciò lo rendeva felice e, per la prima volta, fiero di sé. Poco dopo, un altro pensiero, ancora più divertente, gli stampò sul volto butterato un ghigno ferino, cioè l'equivalente goblin del sorriso. «Non vedo l'ora di vedere la faccia di Kitzo: il sacco è più pieno di prima!» pensò ad alta voce.

Raggiunse il luogo del nascondiglio e, mentre con fare reverenziale riponeva nella fessura il bastone, pensò di conferirgli un nome. «Lo chiamerò Grande Verme.» Cioè il modo gergale usato per riferirsi all'emissario di Corrupto. Come il Verme Primordiale aveva stanato gli elfi grigi dalla caverna, così il suo aveva stanato i ratti dai loro cunicoli.

Arrivò nei pressi dell'abitato a notte fonda, proprio mentre Hork stava provvedendo a reclutare nuovi piccoli. Era suo compito, al termine dello svezzamento, sottrarre i cuccioli alla madre per portarli al vivaio che, volutamente, era posto nella zona proibita alle femmine. Bisognava recidere immediatamente i legami di nascita: la famiglia era un vezzo che la società goblin non poteva permettersi. Nessuno conosceva i propri genitori e nulla escludeva che un figlio un giorno potesse inconsapevolmente uccidere il padre, oppure che potesse ingravidare la madre o una sorella. Ciò era in perfetta coerenza con il fatto che i vincenti avessero diritto di vita e di morte sui più deboli e che a loro spettasse di trasmettere il proprio seme senza limitazione alcuna: solo così il branco sarebbe diventato sempre più forte.

Hork faticò non poco per sopraffare le feroci resistenze della femmina: dopo aver ricevuto un morso sul braccio e un profondo graffio sulla guancia, era riuscito a torcerle il polso dietro alla schiena e a piantarla contro il muro esterno della capanna. Fu in quel momento che l'addestratore annusò che ella era di nuovo pronta all'accoppiamento. Così, decise di approfittarne prima che gli altri se ne accorgessero. Non fece in tempo a strapparle il vestito, che venne preso per la collottola e sbalzato indietro di diversi piedi da Ghuk, un goblin esploratore. Questi acciuffò per il peli della testa la femmina che tentava la fuga e si preparò a inseminarla. Nel frattempo, Hork si stava rialzando tramortito. Però, un altro maschio, Rok, rifilandogli con noncuranza un calcio violentissimo, lo rimandò a terra dolorante. Quest'ultimo si lanciò per interrompere Ghuk che nel frattempo si stava già accoppiando e ne scaturì una rissa brutale. La femmina ne approfittò per darsi alla fuga. Tuttavia, mentre passava vicino a Hork che giaceva a terra, questi ebbe il riflesso di afferrarle la caviglia facendola cadere. L'addestratore si alzò sulle gambe malferme per lo stordimento e stava per lanciarsi sulla goblin, quando vide arrivare Hutzo, uno dei razziatori più feroci. Si immobilizzò e balbettò qualcosa come: «Signore, stavo giusto venendo a chiamarti! Quei due indegni volevano... ouch!» Ricevette un pugno nello stomaco, che lo sollevò di tre piedi, seguito da una ginocchiata in faccia mentre ricadeva.

«Vai a prendere i cuccioli, e torna a fare la mammina al vivaio! Verme!» gli intimò il bruto. Poi, emise un ringhio che raggelò gli altri due contendenti i quali si dileguarono all'istante. Con una mano, afferrò per il collo la povera femmina facendole entrare le unghie nella pelle e la sollevò per accoppiarsi. Quando ebbe finito, la getto via come uno straccio e se ne andò.

“Questa volta, è andata in maniera piuttosto tranquilla” pensò Djeek mentre si affrettava ad allontanarsi dal luogo della scena. Spesso, gli scontri per la riproduzione erano molto più violenti, con morti e mutilati tra i pretendenti. Succedeva sempre così: la malcapitata di turno, nel marasma, si ritrovava a essere presa con la forza da molti maschi e alla fine, era impossibile conoscere esattamente il padre della figliata. Però, questo era un bene per il branco.

Mestamente, Hork raccolse i sei cuccioli che dall'inizio non avevano smesso un attimo di urlare e dimenarsi terrorizzati, lì colpì alla testa in modo da farli svenire, li caricò sulla carriola insieme allo sterco che gli serviva per riparare una falla della sua capanna e si avviò verso il vivaio. Era dolorante e ferito nell'orgoglio, ma già assaporava la sua rivalsa. Poco prima, il giovane Kitzo, seguito dai suoi scagnozzi, gli aveva spifferato che quell'idiota di Djeek aveva passato tutto il tempo a divertirsi anziché cacciare. Era chiaro che quanto riferitogli era tutto falso, sia perché quel babbeo svolgeva alla lettera tutti i compiti assegnatigli e sia perché l'alito dei furbacchioni odorava di topo a passi di distanza. Hork, però, sapeva riconoscere i talenti. Mentre era certo che il teschio dell'inetto Djeek sarebbe presto entrato a far parte della sua collezione, era altrettanto sicuro che Kitzo sarebbe presto diventato uno sciamano, un sacerdote di Corrupto da cui aveva ricevuto lautamente i doni della mutabilità e dell'astuzia. Era quindi sua intenzione entrare nelle grazie del suo prediletto, sperando che un giorno si ricordasse di lui sollevandolo dalla sua misera condizione di lavoratore. Quindi, doveva stare al gioco e malmenare il babbeo. Inoltre, la cosa lo divertiva, lo faceva sentire forte.

Djeek aveva preparato la sua vendetta: nascosto il sacco in un cassone, si era seduto lì a fianco ad attendere con fare affranto. Nel frattempo, era arrivato Kitzo che lo punzecchiava con frasi del tipo: «Cosa è successo ai tuoi ratti? Non te li avranno presi dei tipi cattivi?», «Povero Djeek, quando Hork ci si mette fa veramente male, vero?», «Che sapore hanno i vermi della latrina? Dicono che tu li abbia degustati...» e avanti così. Il giovane goblin taceva e pregustava la rivalsa.

L'addestratore arrivò e, come da copione, disse: «Fammi vedere cos'hai preso, buono a nulla! Dov'è il sacco?»

Djeek attese un po' senza rispondere per gustarsi il più possibile il momento e, quando l'adulto stava per scattare verso di lui, sollevando il coperchio del cassone, disse: «Eccolo, Signore. Spero siano abbastanza.»

Kitzo cadde nello sconcerto e già si guardava intorno per trovare eventuali vie di fuga da Hork, ma fu egli stesso ad aiutarlo. Questi, infatti, colpì violentemente l'incredulo Djeek allo stomaco con un pugno, per poi rifilargli una ginocchiata in faccia. «Chi credi di fregare! Kitzo e suoi amici mi hanno riferito che ti hanno visto mentre danneggiavi la mia capanna e hai dato loro delle prede per comprarti il silenzio!» E poi, ammiccando al giovane furbastro, rincarò: «Farai tre giorni nella latrina, verme!».

Djeek aveva di nuovo perso, tuttavia la sua permanenza nel pozzo fu, sì, dura, però, non così terribile. Questo, perché poteva anche essere un debole, ma ora possedeva il Grande Verme e ciò lo rendeva pieno di orgoglio e di speranze.

Registri di Dharta Misathon (undicesimo giorno del mese quarto nell'anno 11522).

Il Santuario di Corrupto.

Quando ebbe finito di scontare la punizione, Djeek tornò alle sue mansioni. Nei giorni successivi, con l'aiuto del bastone, la caccia era diventata una passeggiata. Così, ebbe più tempo per esercitarsi a usarlo.

Aveva capito che per attivarlo, bisognava acuire i sensi, ma allo stesso lasciarsi andare quasi come per addormentarsi. Era importante, però, tenere a mente cosa si volesse ottenere: un po' come cercare di prendere sonno con lo scopo di sognare qualcosa o qualcuno di preciso. Poi, per qualche istante, aveva come l'impressione di essere il suolo stesso e, a quel punto, avveniva il controllo su di esso. Questa era la parte più difficile, si rendeva conto di poter modificare il terreno come se fosse il suo corpo, tuttavia si sentiva come un neonato che deve ancora prendere confidenza con le proprie membra e con i movimenti. Il risultato era che riuscisse a far accadere qualcosa, ma non era mai esattamente ciò che voleva ottenere. Una volta, volendo imitare l'umano, provò a evocare uno spuntone con lo scopo di infilzare una grossa tartaruga di palude. Ci riuscì parzialmente. Infatti, lo spuntone, che per fortuna non era né troppo grande né troppo duro e affilato, emerse, ma tra le sue gambe, lasciandolo senza respiro per diversi minuti.

Quello che, invece, proprio non riusciva a fare, era scagliare le pietre come se fossero proiettili: aveva persino plasmato dei sassi fino a farli assomigliare ai dardi della sua cerbottana, ma rimanevano lì, ancorati al terreno.

In quei giorni, venne nuovamente importunato da Kitzo e i suoi, ma vista l'esperienza precedente, attendeva sempre gli ultimi minuti per andare a caccia, in modo che lo trovassero sempre senza alcun ratto da sottrargli.

Girk e Gork, non ottenendo nulla da mangiare, persero presto interesse per quel passatempo e Kitzo si guardò dall'affrontarlo da solo: così, per qualche tempo, Djeek fu lasciato in pace.

 

Il bastone si era rivelato un ottimo strumento, non solo per far uscire i ratti allo scoperto, ma anche per scovarli: infatti, entrando in simbiosi con il suolo circostante, poteva sentire i loro passi come se si muovessero su di lui. Un giorno, proprio mentre si stava concentrando in tale operazione, avvertì dei movimenti striscianti, ma molto più pesanti. Ciò lo fece sobbalzare sul più bello e il terreno circostante si scosse insieme a lui provocando il crollo di un piccolo sperone di argilla. Nel fracasso delle zolle che impattavano l'acqua, si udì un urlo soffocato seguito da un tonfo. Che guaio! Forse, aveva inconsapevolmente fatto del male a qualcuno. Corse nella direzione del crollo. Era chino per sondare con le mani nell'acquitrino, quando sentì un dolore acuto al polpaccio che lo fece accasciare. Un istante dopo, Kitzo, emergendo dalla palude, era su di lui pronto a finirlo con un pugnale ottenuto affilando una pietra di selce. Djeek ruotò su se stesso e, mentre con la mano destra teneva ben saldo il bastone, con l'altra fece appena in tempo ad afferrare il braccio dell'avversario che stava per piantargli la rudimentale lama nella gola. Nella convulsione della lotta, guardò con repulsione quel pezzo di selce che gli aveva lacerato le carni del polpaccio e che ora era prossimo a recidergli la giugulare. Lo rigettò da sé come se fosse un boccone inappetibile. Fu in quel momento che questo schizzò frantumandosi verso il goblin che lo brandiva ferendogli la mano e colpendolo all'occhio.

«Che tu sia dannato!» urlò Kitzo portandosi la mano al volto ormai sfigurato. Djeek si rialzò tremante e, ponendo dinanzi a sé il bastone, si preparò a fronteggiare un nuovo attacco, ma l'altro si dileguò maledicendolo: «Che tu possa marcire per sempre nel ventre del Grande Verme!».

Il giovane goblin rimase immobile e ansimante per alcuni istanti. Ma poi, una volta assorbita l'adrenalina, il dolore al polpaccio si ripresentò insopportabile. Tirò fuori dall'acqua la gamba e constatò che il coltello lo aveva lacerato in profondità, vide colare un rivolo copioso di denso liquido nero e capì che si stava dissanguando. Raggiunse zoppicando un grosso albero marcescente, si aggrappò a una delle liane che pendevano dai suoi rami e tirò con tutta la forza finché, con un crack il legno fradicio cedette, piombandogli in testa. Imprecando contro la sua imbranataggine, prese a legarsi la gamba con il laccio rimediato, ma l'emorragia non si arrestò. “Morirò prima di raggiungere il villaggio” pensò accasciandosi a terra esausto. Chiuse gli occhi e, ponendosi in posizione fetale, strinse il bastone attendendo la fine. Sentì la terra abbracciarlo e stringerlo a sé come una madre affettuosa, avvertiva defluire il suo sangue come l'acqua che scorre nei ruscelli; sognò di arginarne il corso costruendo una piccola diga di sassi, tronchi e argilla.

Si svegliò un paio d'ore più tardi, esaminò la ferita e vide che i suoi lembi, seppur ancora aperti, si erano induriti fino a sembrare fatti di creta essiccata; aveva problemi a deambulare, ma almeno non perdeva più sangue e il dolore si era assopito. Visto che non era nelle condizioni di digiunare, si sbrigò a completare la caccia con l'aiuto del bastone che, poi, ripose nel solito nascondiglio.

Prima di presentarsi da Hork con il sacco, ne tirò fuori tre ratti particolarmente appetitosi e li nascose sotto un rovo che confinava con un punto remoto del cortile del vivaio: era rischioso, ma ne andava della sua sopravvivenza.

Per una volta, il sotterfugio era andato a buon fine e Hork non si curò neanche del fatto che zoppicasse: sarebbe stata una premura inaspettata, se si fosse interessato di un suo infortunio.

Ottenne il suo meritato boccone, ma non andò a riposare come faceva di solito: doveva completare il pasto per rimettersi in forze e doveva farlo... in compagnia.

Il bastone gli aveva salvato la vita nell'immediato, ma non poteva lasciare la ferita in quello stato: ci voleva qualcuno che gli scrostasse la superficie pietrificata e che ricucisse lo squarcio. Nel vivaio c'era una giovane femmina di nome Griz che, viste le sue attitudini, svolgeva la mansione di aiuto fattucchiera e si prendeva cura dei feriti. Doveva quindi convincerla a uscire dalla capanna e proporgli uno scambio. A differenza dei maschi, almeno prima di divenire fertili, le femmine creavano un gruppo solidale che permetteva a molte di loro di sopravvivere alla feroce selezione nonostante la minore forza. Esse non si aggiravano mai da sole e se qualcuno faceva del male a una di loro, avrebbe, poi, dovuto fronteggiarne l'intero gruppo inferocito. Per Djeek, sarebbe stato difficile avvicinarla e ancora di più, convincerla a seguirlo, anche perché le femmine provavano ribrezzo per i più deboli, cioè per quelli che, come lui, non avevano il posto al coperto. “Mi aggirerò intorno alla baracca e, fiutando tra le fessure, individuerò il suo odore; poi, parlandole sottovoce, proverò a corromperla offrendole un bel banchetto” pensò cercando di convincersi che il suo fallace piano potesse funzionare. I dubbi, però, emersero gettandolo nell'angoscia: “Si fiderà di me? Come farò a comunicare con lei, senza farmi sentire da chi le sta vicino?”. Mentre si arrovellava il cervello in questi pensieri, vide un goblin con una benda sul lato destro della testa sbucare fuori da un cespuglio e, con fare furtivo, rientrare nella capanna: era Kitzo. Poco dopo, un'altra sagoma esile uscì silenziosa dallo stesso anfratto portando con sé una piccola sacca di cuoio. «Griz!» la chiamò sottovoce. Questa trasalì, come se l'avessero scoperta con le mani nel sacco. «Griz, sono Djeek! Stai tranquilla, voglio farti una proposta.» Ma ella, fulminea, gli balzo vicino puntandogli un rasoio affilato. «Oltre ad essere un verme, sei pure uno spione: ora, tu sparisci e dimentichi di avermi vista! Chiaro!» sibilò perentoria mostrando le zanne.

«Ho bisogno del tuo aiuto: sono ferito!» disse il goblin con voce tremula, cercando di non guardare la lama che lo minacciava.

«Se sei ferito? Crepa! Perché dovrei aiutarti?» gli replicò caustica.

«Vieni con me, ho dei topi appetitosi da offrirti.»

Due cose aiutarono Djeek: il fatto che tutti nel vivaio soffrissero la fame come condizione necessaria per crescere bramosi, e la sua reputazione di debole e innocuo smidollato. Griz decise di accettare l'invito a cena e di seguirlo: non lo temeva, era convinta di poterlo sopraffare facilmente, se le cose avessero preso una brutta piega.

I due si infilarono in un cespuglio vicino alla recinzione. Da lì, allungando un braccio in una fessura della palizzata, il goblin estrasse tre bei roditori. Griz si lanciò ad afferrarli, ma Djeek, mandandola a vuoto, disse con fermezza: «Uno è mio. Gli altri due sono per te: prendi questo intanto, l'altro te lo darò a lavoro finito. Non ti conviene cercare di sottrarmeli: se ci azzuffassimo, ci scoprirebbero.» L'altra stava già divorando avidamente il topo. Finì il pasto, ruttò in segno di gradimento e prese a esaminargli la ferita.

«È un brutto taglio. Ma cosa ci hai messo? La carne sembra argilla: bisogna asportare la parte morta prima di ricucire.» Estrasse dei lacci di cuoio dal suo sacchetto e disse: «Ti devo legare, prima.»

«E sia!» acconsentì Djeek. «Ma se provi a fare scherzi: mi metto a gridare.»

Gli legò mani e piedi, poi, gli infilò un pezzo di legno marcio in bocca. «Mordilo se senti dolore» lo istruì e prese ad asportargli il primo strato di carne: per tagliarla, usava il rasoio con l'indifferenza con cui si scuoia un animale morto. Il dolore superava di gran lunga quello provato nel momento in cui si era procurato la ferita e Djeek lottò per rimanere vigile: se fosse svenuto, sicuramente l'avrebbe lasciato lì, portandosi via il suo pasto.

Poi, mentre la curatrice iniziava a cucire insieme i lembi con un ago d'osso e uno spago, gli disse con l'indifferenza dissimulata di chi vuole ottenere informazioni: «Prima di te, ho medicato Kitzo che ha riportato una brutta ferita all'occhio: ho accettato di aiutarlo, perché non conviene mettersi contro di lui. Dice che è stato beccato nel sonno da uno straziatore, dice di averlo catturato e divorato: mi ha mostrato una sua penna che terrà per ricordo.»

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