Читать книгу: «Oltre Il Limite Della Legalità»

Alessandro Ziliotto
Шрифт:

Publisher: Tektime - www.traduzionelibri.it

Table of contents

  oltre il limite della legalità

  CAPITOLO UNO – Il baratro –

  CAPITOLO DUE – La risalita –

  CAPITOLO TRE – Prime prove –

  CAPITOLO QUATTRO – Una poesia spontanea –

  CAPITOLO CINQUE – Incontri inaspettati –

  CAPITOLO SEI – Fumo negli occhi –

  CAPITOLO SETTE – Lotta per una vita migliore –

  CAPITOLO OTTO – Quello che non ti aspetti –

  CAPITOLO NOVE

  CAPITOLO DIECI – Ritorno a casa –

  CAPITOLO UNDICI – La coppia –

  CAPITOLO DODICI – Casa dolce casa –

  CAPITOLO TREDICI – La consegna –

  CAPITOLO QUATTORDICI – la nuova famiglia –

  CAPITOLO QUINDICI – Il giudizio –

  CAPITOLO SEDICI – j’adore –

  CAPITOLO DICIASSETTE – solo per pochi –

  CAPITOLO DICIOTTO – la fuga –

  CAPITOLO DICIANNOVE – er Jabalì –

  CAPITOLO VENTI – l’ultima consegna –

  CAPITOLO VENTUNO – Rock N’Roll –

  CAPITOLO VENTIDUE – Epilogo –

oltre il limite della legalità

OLTRE IL LIMITE DELLA LEGALITA’

Creato da: Alessandro

2015

Introduzione:

Resto del Carlino

MELA MARCIA NELLA POLIZIA DI STATO.

ARRESTATO UN AGENTE.

(Titolo di prima pagina a caratteri cubitali).

Accade ancora a Bologna.

Arrestato Agente di Pubblica sicurezza per Rapina e Lesioni ai danni di tre cittadini extracomunitari.

Sono scattate stamane le manette per un sovrintendente della polizia di stato, che lavorava alla Squadra Mobile nella sezione narcotici. L’accusa per Enrico Del Nero, come si è potuto apprendere dalle voci trapelate dai corridoi della Questura, è per Rapina e Lesioni ai danni di tre cittadini extracomunitari di origine nord-africana. Il primo fatto risalirebbe a qualche mese fa, mentre l’ultimo si sarebbe consumato proprio una settimana fa. Dalla ricostruzione degli investigatori E. D. si sarebbe appropriato di una cifra intorno ai 1.000 Euro e avrebbe procurato ai poveri malcapitati delle lesioni permanenti. Ancora una volta la città di Bologna si trova a scoprire misfatti compiuti da parte di persone che dovrebbero salvaguardare e garantire la sicurezza dei cittadini e invece abusano del loro ruolo per compiere e coprire le proprie malefatte.

Riportiamo qui sotto alcune parole dell’avvocato Bruno Esposito, difensore dei poveri malcapitati: “Credo che questa sia solo la punta dell’iceberg, entro pochi giorni porterò altre accuse a carico del sovrintendente. Tengo a precisare che chiunque fosse a conoscenza di qualche fatto o che abbia subito anch’esso qualche sopruso, non esiti a farmi visita nel mio studio, anche se sprovvisti di permesso di soggiorno.”

Come sempre l’avvocato Esposito si pone in prima linea nella salvaguardia dei diritti dei cittadini extracomunitari.

Speriamo che la legge faccia il suo corso e il tutto non venga insabbiato, come molte volte accade.

Levico 19. 35

<< Non commettete ingiustizia nei giudizi, a proposito di misure di lunghezza, di peso o di capacità, (36) usate bilance giuste, pesi giusti e misure giuste. […]>>

Ho la testa che scoppia, la vorrei sbattere contro la parete con tutta la forza che ho in corpo, ma a esser sincero non ho le energie nemmeno per aprire gli occhi. Ma dove mi trovo? In quale posto sono? Che diavolo ho fatto ieri sera per ridurmi in queste condizioni. Pur con gli occhi chiusi capisco che il materasso dove sono sdraiato è a un’altezza tutt’altro che impegnativa, visto che riesco ad appoggiare a terra la bottiglia di rum che stringo tra le mani; ecco una cosa che mi ricordo, il rum, è già un passo avanti verso la lucidità che vorrei riacquistare, prima o poi. Magari bevendone un sorso riesco a ricordare meglio dove sono e come ci sono arrivato.

Mantengo le palpebre ben serrate, cercando di alzare leggermente la schiena per avvicinare alla bocca il collo della bottiglia. Una volta raggiunto il contatto, alzo quest’ultima senza trovare però quel bruciore che tanto adoro dell’alcool, non più una goccia rimasta, ma solo un freddo vetro dove appoggiare le labbra. L’avvicino allora al naso odorandone l’acre profumo. Ne effettuo un bel respiro, tossendo convulsivamente, e successivamente, racimolando un po’ d’energie, e con uno slancio accennato, scaravento la bottiglia nel vuoto. L’unica cosa che conosco è la direzione in cui l’ho lanciata. Appena mi scivola dalla mano, a causa di quel gesto, rovino nuovamente sul materasso. Sento il rumore del vetro che s’infrange al suolo trasformandosi in mille pezzettini. Dopo pochi istanti, le vibrazioni del mio lancio, giungono fino alla mia testa che contrariata maledice ciò che aveva appena compiuto, causandone così l’aumentare del dolore che l’attanagliava.

Ebbene, eccomi qua a raccontare una storia, la mia storia. Mi presento, sono Enrico Del Nero, ex sovrintendente della Polizia di Stato, che sino a pochi mesi fa era un perfetto e diligente agente di polizia, dedito al lavoro e al rispetto delle regole. Ora però sono solo una persona che investe il tempo della sua giornata a pensare a come perdere tempo. A riflettere a come la vita gli abbia voltato le spalle da un giorno all’altro, buttandolo prima in galera e poi in strada come un barbone emancipato.

Un uomo che riusciva a compiere, assieme alla sua squadra di quattro, barra, cinque persone, centocinquanta arresti l’anno, uno più o uno meno, (stiamo parlando di spacciatori extracomunitari la maggior parte sprovvisti del permesso di soggiorno), sequestrando un bel quantitativo di sostanza stupefacente e soldi in contanti. Io, cittadino italiano, rappresentante della legge, della sicurezza e dell’ordine pubblico, dopo quindici anni di servizio, ero stato trattato come se il mio passato non esistesse e come se la mia parola non fosse più vera.

Quando un Amore finisce, credo che ci sia una fase transitoria prima che si trasformi in indifferenza, cioè l’odio. Così facendo sono convinto che una persona riesca a dimenticare, a sopravvivere e ad andare avanti. E così lo è stato anche per me. Tradito dallo Stato che avevo sempre servito, e del quale avevo condiviso misteri e ingiustizie, ora non provavo che odio e repulsione, per le sue leggi e per suoi rappresentanti.

Ci sono tre tipi di sbirri.

Il primo.

Il classico rompicoglioni, super preciso, al quale non gli si può dire nulla per fargli cambiare idea, dedito al lavoro e che al di là di quello non ha una vita privata, e qualora riuscisse a farsela, a causa degli orari indecenti che farebbe, la sfascerebbe con l’andare degli anni, per non dire settimane.

Il secondo.

La classica sanguisuga, che aspetta il 21 del mese per recepire lo stipendio. Conosce tutte le agevolazioni che la sua categoria può avere, dalle più semplici alle più ingarbugliate e nascoste. Percepisce lo stesso stipendio di chi è in strada a rischiare per qualsiasi tipo di stupidaggine, perché diciamocelo, oramai è più salvaguardato il criminale che lo sbirro; se è fortunato fa il sindacalista, fregandosene altamente di quello che quel ruolo comporta, assecondando così i problemi reali dei colleghi, che spaziano dal campo lavorativo a quello personale, riuscendo a salvaguardare e preservare la sua piccola sfera, insediandosi sempre più, e se fortunato, con gli anni diventare più potente e in vista.

Il terzo.

Colui che credeva nella polizia di stato e nelle istituzioni, ma che poi lavorandoci all’interno e con il passare degli anni, e l’aumentare dell’esperienza, capisce che non val la pena rischiare soldi e vita per qualcuno che non ti stima e che ti disprezza ad ogni occasione utile. Capisce che il primo sbirro è uno sfigato, praticamente era lui stesso prima dell’evoluzione, ma sa anche che non riuscirebbe mai a diventare il secondo sbirro. Non riuscirebbe a stare dietro a una scrivania, dentro quattro mura aspettando non si sa cosa, assecondando i veri problemi dei colleghi, le ingiustizie che ci sono all’interno dell’amministrazione in cui lavora, così si limita a fare il suo, senza andare contro nessuno, svolgendo la propria mansione, rispettando se possibile l’orario di servizio senza fare straordinari. Non crede più nelle istituzioni perché loro stesse non tutelano e non garantiscono il tranquillo e sereno lavoro di una forza pubblica di sicurezza, anzi, se possibile, mettono a quelli che veramente lavorano, i bastoni tra le ruote non appena ne hanno la possibilità, non ammettendo replica. E poi si sa che l’arresto di uno sbirro in prima pagina fa sempre più notizia di uno spacciatore o di rapinatore, non importa quale sia l’accusa, l’importante è scrivere: ARRESTATO UN POLIZIOTTO.

Che sbirro ero stato io? Lo scoprirete leggendo la mia storia.

CAPITOLO UNO – Il baratro –

A svegliarmi non era stata la fine del sonno, ma i raggi solari che entravano da qualche dannato spiraglio, e avevano cominciato a bruciarmi le palpebre. Se c’era una cosa che non sopportavo, era essere svegliato in quel modo, d’altronde cosa potevo aspettarmi visto che non avevo più un tetto dove rincasare e un letto dove sprofondare. Gli occhi si aprirono formando due piccoli spicchi di luna. Non riuscivo a vedere quasi nulla, avevo il sole in faccia che mi bruciava e l’ambiente intorno a me, era offuscato da una strana nebbiolina. Posai la mano a terra cercando di rialzarmi, ma appena provai a usarla come perno mi ritrovai con la faccia spiaccicata al suolo. Cominciai a ridere come un deficiente. Ero al tappeto e non riuscivo a rialzarmi, mi girai leggermente e rimasi steso ancora un po’ sperando di riprendermi con il passare dei minuti. Dentro la testa sembrava avessi la cavalleria del Re dei Re lanciata alla carica, che con il suo ardore e orgoglio era intenta a contrastare il più possente degli eserciti.

Che caldo faceva. Sudavo e non ne capivo il motivo, e dire che la temperatura non era così alta. Non riuscivo a vedere granché, ma controllai ciò che indossavo. Una camicia a quadrettoni rossi neri e bianchi completamente aperta, con una t-shirt, un tempo bianca, leggermente alzata da far si che la pancetta prendesse un po’ d’aria, mentre dall’ombelico in giù avevo calzati un paio di jeans Diesel e un paio di Nike dei tempi migliori, oramai arrivati anche loro alla frutta.

Dopo non pochi sforzi mi ritrovai gattoni, a guardare senza motivo il pavimento. Ma che diavolo stavo facendo? Ricominciai a ridere. La risata venne subito interrotta da dei colpi di tosse, e la tosse venne interrotta da degli sforzi provenienti dal basso addome, e come se fosse cosa di tutti i giorni, mi ritrovai a vomitare come un cretino. Per quel poco che potevo vedere era solamente acqua, ricca di succhi gastrici, e a quanto sembrava, l’ultimo pasto non era stato così abbondante, visto che in mezzo a quella gelatina non c’era nulla di solido e che apparentemente assomigliasse a qualcosa di commestibile. Finita quella patetica commedia, mi spinsi leggermente verso destra, con le poche energie che ero riuscito a racimolare, finendo nuovamente sul materasso poggiato a terra. Cercavo di pensare, ma tutto ciò che mi veniva in mente era quell’assodante frastuono che mi rimbombava nella capoccia.

Da sdraiato aprii gli occhi fissando il soffitto, e il primo pensiero che mi si era materializzato nella testa fu: ma come cazzo ho fatto a ridurmi in questo stato? Porca miseria sono Enrico Del Nero, devo reagire, non posso ridurmi in queste condizioni tutti i santi giorni, devo trovare una soluzione per uscire da questo baratro in cui sto sprofondando giorno dopo giorno. Forte di queste convinzioni, e senza non pochi sforzi, riuscii a sedermi e successivamente ad alzarmi in piedi. Cominciai a guardarmi un po’ intorno per capire dove mi trovavo, ma oltre a barcollare un po’ a destra e a sinistra, non riuscivo a dare una collocazione al posto nel quale avevo passato la notte. Decine di colonne bianche si alzavano andando a sostenere quell’ampio spazio che si manifestava di fronte ai miei occhi. Cercando di mantenere l’equilibrio, girandomi lentamente su me stesso, mi accorsi che proprio nel punto ove erano rivolte le mie spalle sino a qualche secondo prima, c’era la spiegazione alla mia prematura sveglia. Un’ampia vetrata svettava dietro di me, lasciando trapassare miliardi di raggi solari che perforavano quel dannato minerale del quale era composta, rovinando la giornata a un poveraccio che desiderava solamente riposare in pace cullato dal suo mal di testa e dalla sbornia non ancora smaltita. Visto che oramai mi trovavo in piedi e molti metodi per coprire quella dannata finestra non c’erano, se non spegnere il sole, mi avvicinai al vetro per capire almeno se riuscivo a comprendere dove mi trovavo. Ai miei primi passi risposero delle monete che caddero a terra, procurando un fastidioso rumore metallico che tanto odiavo, anche perché: che diavolo me ne facevo di pochi spiccioli? Arrivato nei pressi di una colonna, mi appoggiai per avere un po’ di sostegno, considerato che la testa continuava a girarmi alla velocità di una trottola. Con l’avambraccio posato al supporto e la fronte spiaccicataci sopra, cercavo di rimanere in piedi. La situazione era alquanto difficile. Per un attimo avevo chiuso gli occhi, quando lì riaprii per non scivolare a terra, mi trovai a tu per tu con il musetto di un topo, il quale sbucava da un foro presente sulla colonna. A risposta del suo simpatico squittio, gli vomitai addosso. Non avevo avuto nemmeno il tempo di pensare o focalizzare che cosa stava accadendo, che quello stimolo mi venne naturale, imbrattando lui e la sua povera tana. Non curante di quella sporca creatura, proseguii il mio duro cammino sino alla destinazione prefissata, sebbene con non poche difficoltà. Arrivato al balcone della finestra, mi c’ero appoggiato di peso, quasi avessi fatto una maratona e quello era l’arrivo; avevo sete, una dannata sete. Forse non avevo bevuto abbastanza la sera precedente, pensai. Accennai nuovamente un sorriso, che venne subito placato da un’altra colata di vomito. Una fitta mi prese alla pancia e come un ventaglio mi piegai in due dal dolore, quasi fossi un adolescente alla sua prima sbornia; ma che diavolo avevo mai bevuto per ridurmi in quelle condizioni? Non me lo ricordavo proprio, anche se oramai sarebbe stato alquanto superfluo scoprirlo. Grazie a Dio le fitte erano terminate, cercai quindi di riprendere il controllo del mio corpo, sebbene ero consapevole che fosse impossibile. Mi riaffacciai comunque alla finestra e cercando di guardare fuori, involontariamente andai a sbattere con il viso contro la lastra di vetro. Quest’ultima aveva una patina d’unto mista polvere; una schifezza che mi si era spiaccicata addosso. Cercai di esercitare una leggera forza sulla maniglia, ma di primo acchito, oltre a vederla leggermente arrugginita, compresi che con le energie che possedevo in quel momento non sarei mai riuscito ad aprirla. Mi guardai un po’ intorno cercando di capire dove mi trovavo; inizialmente quel luogo ampio e vuoto, sembrava l’interno di una fabbrica abbandonata, non mi era molto famigliare, e le decine di colonne portanti, non m’aiutavano a capire di che posto si trattasse, sebbene fossero ricoperte quasi completamente da dei graffiti grossolani, come del resto, lo erano anche parti delle pareti perimetrali. Il suo inutilizzo per mia fortuna, era palese, sebbene la ditta che aveva abbandonato quella struttura aveva accantonato diversi macchinari, in attesa di una nuova apertura, ipotizzai. Idea alquanto remota considerata la presenza di numerose bottiglie di vetro rotte, immondizia, un paio di materassi e pezzi di cartoni sistemati qua e là, con delle coperte lacerate posate sopra. Coinquilini pensai, sebbene la presenza di tutta quell’immondizia avrebbe facilitato l’arrivo dei parenti di quel roditore. Non ne comprendevo il motivo ma mi stava simpatico, tanto da battezzarlo topo Gigio vomitino. Una riflessione mi sfiorò la mente, per poi scivolare subito via: tutta quella situazione che stavo vivendo, la perdita del lavoro, il ritrovarmi a dormire in un edificio abbandonato, non era di certo il massimo della vita, però ero libero, senza alcun pensiero o preoccupazione, e nessun orario da rispettare o impegno al quale mi sarei dovuto presentare, libertà allo stato puro.

Il dolore alla testa continuava ad aumentare e il momento d’affrontare il mondo esterno, per oggi, dal mio punto di vista, non era ancora arrivato. Barcollando ritornai al punto di partenza crollando a terra, non prima però d’aver racimolato un foglio di giornale da posare sopra il viso, riprendendo così a dormire, con la speranza che al risveglio le mie condizioni sarebbero state migliori.

Non so per quanto tempo assecondai i miei sensi, anche se ipotizzavo per diverse ore, visto che scostando il foglio di giornale, la luce del giorno non filtrava più dalle finestre. Aprii gli occhi e a stento riuscii a vedere l’ambiente che mi circondava. Questa volta non era a causa della vista appannata, bensì del buio dal quale ero stato invaso nel sonno. Ad aiutarmi c’erano i fari delle autovetture che transitavano per le strade adiacenti al fabbricato, le quali con il loro riflesso, mi permettevano, sebbene a intermittenza, di conoscere il terreno sul quale avrei posato i piedi.

Decisi quindi di rialzarmi e uscire da lì. Ora che guardavo intorno però un interrogativo mi giungeva naturale, ma dov’era l’uscita? Rimasi immobile a osservare, ma non riuscivo a individuarla. Il mal di testa andava lentamente scemando. La mente si era messa in moto ma il mondo leggermente sbiadito che mi circondava non m’aiutava per niente. Era come se stessi guardando un film degli anni settanta alla tv, e in tutto questo, nessun elemento riusciva a farmi individuare ciò che cercavo. M’avvicinai a quella che sembrava una porta, ma non appena provai ad azionarne la maniglia e a tirare verso di me, m’accorsi che era bloccata con una spessa catena aggrovigliata alle maniglie antipanico, ed un lucchetto a bloccarla. Provai con un’altra porta, ma la storia era sempre uguale. Mi ritrovai così a girovagare per la fabbrica in cerca di un’uscita. Passai vicino a quello che un tempo doveva essere stato un ufficio, o qualcosa predisposto per esserlo. Sembrava la classica stanza ricava all’interno di quell’immensa struttura per avere un po’ di tranquillità e conservare le scartoffie dell’azienda, senza ritrovarsele sparse per tutta la ditta. Passando accanto alla porta, i cui infissi erano stati divelti, mi accorsi che una tenue luce arancione illuminava il suo interno. Non si vedeva gran che, ma tanto bastava ai miei occhi per scovare un’apertura, magari la stessa dalla quale ero entrato. Una volta all’interno, cominciai a guardarmi un po’ intorno per scovare la fonte del chiarore. Le pareti laterali erano completamente intatte, prive di qualsiasi finestra. Trovandomi senza alternativa, alzai la testa, constatando che sul soffitto c’era un foro. Era stato fatto grossolanamente con un martello, considerati i margini tutt’altro che simmetrici e levigati. Da quel foro, che prendeva forma vicino alla parete laterale, vi era una scala di ferro, la quale permetteva l’accesso al piano superiore. Visto che i miei impegni per le prossime ore non erano così alettanti all’interno di quello stabile, illuminando il display del mio Casio nero anni ’90, comperato da un cinese a poco meno di dieci euro, controllai l’ora, 22.30, dopo di che mi avventurai su per quella scala, accedendo così al soffitto della stanza. Una volta raggiunto il tetto, mi trovai di fronte ad una finestra aperta, o meglio, i vetri erano stati rimossi dall’intelaiatura dell’infisso, e si poteva utilizzare questo difetto come accesso, visto che dava direttamente alla scala antincendio.

Senza guardarmi molto intorno e senza pensarci più del dovuto, mi ritrovai in strada. E ora? Pensai. Dove vado? Cosa faccio? Non ho più una meta, uno scopo, non sono più nessuno. Tutto quello che ero, non lo sono più. Tutta la mia vita sino ad ora era come se non l’avessi vissuta, come se fosse stata spazzata via da un uragano, senza preavviso e ringraziamento, ero solo, quasi fossi stato partorito da ventiquattro ore e buttato in mezzo alla strada senza nessuna guida o persona che si prendeva cura di me. Alcune macchine mi sfrecciavano accanto incuranti della mia presenza, presi dalla loro vita così all’apparenza perfetta e priva di pensieri, o almeno degni di essere chiamati tali. Ora che stavo meglio, mi era tornata la voglia di bere, di ridurmi uno straccio per far passare un’altra notte e un altro giorno. Lo avevo fatto per un mese e avevo voglia di rifarlo sino allo sfinimento, per ritrovarmi ogni mattina in quella dannata fabbrica e chiedermi come cazzo ero arrivato lì e cosa diavolo mi era accaduto. Alzai lo sguardo e un negozio di pakistani era lì a un centinaio di metri con le sue luci accese e i suoi alcolici. Cominciai a incamminarmi pregustando il bruciore dell’alcool nella bocca e nello stomaco. Infilai le mani nelle tasche per controllare quanti soldi avessi, ma ciò che trovai fu solo un fazzoletto di carta usato: nemmeno al tempo del baratto ci avrei ricavato qualche cosa. Come diavolo avrei fatto ora? Con cosa l’avrei pagato il rum? Non c’erano molte macchine parcheggiate per strada, sempre meglio che nessuna, pensai. Le controllai una a una, per verificare se qualcuna avesse la porta aperta o il finestrino abbassato di qualche centimetro, ma non ebbi molta fortuna, infatti mi ritrovai di fronte alla vetrina del negozio con pochi spiccioli in mano. Che cosa avrei fatto ora? E se fossi entrato e dopo aver preso quello che m’interessava me ne fossi andato a gambe levate senza pagare? Forse quel pakistano non mi avrebbe riconosciuto, anche se qualche volta ero stato suo cliente, ma non certo conciato così. Nella migliore delle ipotesi si sarebbe limitato a inseguirmi per qualche decina di metri prima di desistere, comprendendo che una persona trasandata, come lo ero io, non sarebbe mai riuscita a pagare ciò che aveva sottratto dal suo negozio. Arrivai sulla soglia dell’ingresso, intravedendo dalle vetrine che all’interno non c’era nessuno, fatta eccezione di Hamed, il proprietario. Attesi qualche secondo sulla soglia, cercando di non essere visto, anche perché quel figlio d’Allah non ci avrebbe impiegato molto a riconoscermi, gli sarebbe solamente bastato guardarmi negli occhi. Era più scaltro di una lince e anche se ero conciato male, trasandato e puzzolente, non mi avrebbe confuso con nessun altro.

La mia attesa fu ricompensata. Quattro ragazzi arrivarono in macchina, fermandosi nei pressi dell’alimentari. La vettura non era proprio nuovissima, anche perché dall’età e da com’erano vestiti, potevo ipotizzare fossero degli studenti universitari, e con molta probabilità quella sera non avevano molta voglia di stare sui libri, bensì di fare festa, magari bevendo un po’, rifornendosi da Hamed anziché andare in qualche locale pre-serata spendendo un patrimonio. Sembrava di rivedermi dieci, dodici anni più giovane, quanti anni erano passi, quante cose erano accadute, quanti guai scampati, ma che ricordi incredibili. Chiunque avesse guardato quei ragazzi, avrebbe captato la loro euforia, la loro voglia di vivere e divertirsi, e avrebbe compreso che il loro unico pensiero era ingerire un po’ d’alcool per lasciarsi andare, con la speranza magari di trovare una bella ragazza per trascorrere la serata. Mi trasmettevano quella sicurezza mista fragilità, che solo una persona della loro età poteva avere. Parcheggiarono la macchina proprio di fronte all’entrata. In tre scesero dall’auto e dopo aver oltrepassato il marciapiede salirono i tre scalini che li condussero al negozio. Io rimasi lì a osservarli. Mi passarono accanto senza degnarmi di uno sguardo, anche perché non so la loro vista quanto nitida potesse essere stata. La loro camminata era tutt’altro che normale, oscillavano a destra e sinistra come dei pendoli. Sicuramente erano giunti sino a lì perché avevano finito la scorta di birra a casa e ora volevano continuare da dove si erano interrotti. La persona che apriva la fila andò a inciampare sul primo scalino e se l’amico che lo seguiva non l’avesse afferrato al volo, mi sarebbe rovinato addosso. Con tutta sincerità, come aveva fatto ad avere quella prontezza di riflessi quel ragazzo ancora me lo sto chiedendo, buon per me comunque. Non credo che avessero molto da prendere in quel mini market, ma di certo fecero una gran caciara, perdendo del tempo su ogni minima stupidaggine. Urlavano e chiamavano l’amico che era rimasto in macchina, incitandolo a raggiungerli. Inizialmente questo attese, alzando e ascoltando un po’ di musica pop orecchiabile e coinvolgente trasmessa alla radio, ma vedendo che gli amici tardavano a tornare, decise di scendere per dar loro una strigliata, e convincerli ad accelerare i tempi. Lasciò la macchina accesa con la musica ad alto volume, e con il cantante che intonava “Dangerous…Dangerous…Bad Girl…”

“Ma che cazzo state facendo, volete muovervi, altrimenti non entriamo più in disco, e poi tutta sta roba quando la beviamo?”

“Che rottura di coglioni che sei…ma preferisci Havana o Pampero?”

“Ma piglia quello che vuoi, lo sai che bevo tutto, sei te la fighetta della situazione.”

“Eh, eh, che dici, vodka o birra?”

“T’ho detto di prendere quello che vuoi, per me è uguale. Ma voi che cazzo avete in mano? Siete proprio degli idioti.”

“…eh eh…lo sai che quando si tratta di bere siamo i numeri uno…ohhhhh…ma quello dove cazzo sta andando quello con la tua auto???”

“FERMATELO…ohhhhhhh…OHHHHH…DOVE CAZZO VAI CON LA MIA MACCHINAaaaaaaa???????”

Queste furono le ultime parole che sentii pronunciare dai quei giovani mentre lì guardavo sbracciarsi e diventare sempre più piccoli dallo specchietto retrovisore del loro mezzo di locomozione, anche perché la musica era così bella che mi sembrava maleducato abbassarla.

Appena quello sbarbatello era sceso, lo seguii all’interno del negozio come un’ombra, e una volta raggiunto lo scaffale degli alcolici, sapendone già la collazione, afferrai una bottiglia di rum qualsiasi e me ne sgattaiolai fuori come un furetto, che nemmeno Hamed se ne accorse. Era troppo indaffarato a tenere a bada quei mocciosi per accorgersi di me. Sta di fatto che ora avevo una macchina e una bottiglia di rum. Che serata meravigliosa. Potevo andarmene sui colli a godermela in santa pace. Bologna era mia. Un delinquente saggio avrebbe moderato la velocità per non farsi notare dagli “sbirri” nei paraggi, ma la cosa era più forte di me, era un richiamo corrisposto sin da bambino e tenere a tavoletta quel maledetto acceleratore era meglio che scolarsi una bottiglia d’alcool. Correre era come staccare il cervello, nessuna preoccupazione, o pensiero, solo io e la strada, e gli imbranati che la popolavano. E poi ero convinto che anche loro si divertissero un bel po’ quando gli capitava di inseguire qualcuno, o imbattersi in qualche intervento delicato nel quale il minor tempo impiegato per arrivare sul posto sarebbe stato fondamentale, per non dire vitale, almeno era quello che pensavo ora e che avevo sempre pensato; ovviamente stavo parlando degli sbirri.

Scostai per un istante l’attenzione sul compagno che avevo raccattato per la serata, niente male direi, una bella bottiglia di “Havana 7”. Mi sa che Hamed se ne sarebbe accorto, quello spilorcio. Ripensai a tutte le volte che avevo acquistato qualcosa da lui, frutta, pasta, detersivo, carta igienica, e ogni volta pretendeva sino all’ultimo centesimo, e poi di tanto in tanto cercava di arrotondare in eccesso la cifra, come se i prezzi da lui fossero così economici. Passavo da lui finito il lavoro e visto che mi capitava spesso di finire dopo le nove di sera, lui era l’unico in cui potevo trovare qualcosa di commestibile, e poi era sulla strada di casa. Non ci potevo credere, m’era andata meglio di quanto mai avessi sperato, a dire il vero mi sarei accontentato anche del rum più bevuto nei peggior bar di Caracas, ma quella sera sarei rimasto sedotto dal fascino cubano. Comunque non riuscivo ad aspettare, l’emozione di tornare al volante dopo parecchi giorni, era scomparsa non appena vidi la marca del rum che avevo rubato. Baciai sulla bocca la mia compagna di viaggio, continuando nella guida. Istintivamente avevo imboccato via Stalingrado e da lì a pochi metri sarei sbucato sui viali. Ogni metro che facevo in quella dannata città equivaleva a uno stimolo per le cellule della memoria. Alzai la radio al massimo sino a far gracchiare le casse, dopo di che mi concentrai sulla strada.

399 ₽
124,21 ₽
Возрастное ограничение:
0+
Дата выхода на Литрес:
09 апреля 2019
Объем:
360 стр. 1 иллюстрация
ISBN:
9788873042600
Правообладатель:
Tektime S.r.l.s.
Формат скачивания:

С этой книгой читают