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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I

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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I
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Invece di Prefazione

Queste Letture Fiorentine su la Vita italiana nei vari secoli, iniziate ott'anni sono, a cura d'una Società di gentiluomini1, hanno fin qui ottenuto una grande e non immeritata fortuna. Per sei anni consecutivi ebbero la signorile ospitalità d'uno di quei nostri palazzi, in cui la gentilezza e il buon gusto son domestica gloria, e presero nome di «Conferenze del Palazzo Ginori»; poi quando il cresciuto favore crebbe altresì il numero delle ascoltatrici e degli uditori devoti, convenne alla Società mutar sede. E la fortuna le fu novamente propizia nell'ottenere ospitalità in un altro palazzo, quasi di fronte a quello Ginori, in una sala già famosa per antiche letterarie adunanze, adornata dal pennello di un geniale pittore. Il Palazzo Riccardi e la Sala di Luca Giordano, offerta con premurosa cortesia dalla Deputazione Provinciale, sempre amica agli studii, videro crescer nell'inverno e nella primavera del 1896 e del 1897 il numero dei fedeli a queste letture, per le due ultime serie, quella sulla vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero, e l'altra che or vede la luce sui primi quindici anni del Risorgimento italiano. Soggetti attraentissimi, trattati con l'usata maestria da' lettori più noti e pregiati, ormai familiari al nostro uditorio, e ai quali si aggiunsero nuovi e valorosi oratori anche per riempire i vuoti che nell'eletta schiera ha pur troppo fatto la morte, togliendoci due cari e indimenticabili amici: Enrico Nencioni e Diego Martelli. E di questi l'opera e l'ingegno commemorava con caldezza d'affetto e felice eloquenza, Enrico Panzacchi preludendo al corso di quest'anno con la conferenza sul Romanticismo che sarà pubblicata nel terzo volume.

Il periodo assegnato alle ultime conferenze che toccano di eventi a noi più vicini, è senza dubbio il più curioso e importante; anche perchè questa recentissima storia, che abbiam visto quasi svolgersi sotto gli occhi nostri, è ne' suoi particolari, nelle sue ragioni politiche, ne' suoi documenti men nota. La Società di pubbliche letture, cui da prima convenne affrettarsi nel suo cammino per non indugiarsi ne' secoli più tetri della vita italiana, poi che vide di aver in gran parte colorito il vagheggiato disegno, pensò di svolgere con maggiore larghezza questo periodo del Risorgimento dividendolo nei suoi momenti storici principali, di cui piantò i contrassegni Giosuè Carducci; negli anni di contrasto, di confusione, di aspettazione che arrivano fino al 1830, e in quelli di ravviamento, di svolgimento, di risolvimento che vanno dal 1831 al 1870.

Anche le piacque tentare un'altra novità, e chiamare letterati stranieri che avessero a parlare di certi argomenti una particolare competenza, procurando così quello scambio di opinioni e di idee che giova nella storia a serbare la serenità dei giudizi, affinchè l'opera, che esce da queste conferenze, viva e feconda, e si perpetua nel libro letto e cercato nei salotti, nelle scuole, da' giovani, dalle gentildonne, in Italia e fuori, non sia panegirico di vuota rettorica, ma offra de' tempi, de' casi, degli uomini, un quadro animato e veritiero. Perchè il segreto del favore onde le Conferenze fiorentine sono accolte, quando si pubblicano per le stampe, e quello dell'efficacia che ormai hanno e possono avere sulla cultura nazionale, in due cose consiste: nel nesso ideale che le congiunge, e nell'aver reso piacevole la storia, invitando a trattarne quanti sanno renderne più facile l'intelligenza, e più attraente la narrazione.

Ricordo un desiderio del Giusti: quello d'esser delle più difficili questioni addottrinato da persone competenti, che le cose più astruse spiegassero senza sussiego, con quella semplicità onde si discorre tra amici a fin di tavola. Allora, quando il Giusti scriveva, le «conferenze» non erano state inventate, per soddisfare appunto cotesto desiderio d'imparare senza fatica e senza perdita di tempo. Imparare? E perchè no, se gli uomini più illustri non disdegnano, anzi ricercano, di farsi ascoltare dalle uditrici della Sala di Luca Giordano, e se gl'immortels dell'Académie Française tengono ad onore sedere su quella poltrona di damasco rosso, che ha ormai sentito il peso di tutta la scienza e la letteratura italiana?

La Società di letture, fatta certa del favore onde fu accolto il suo disegno, non pensa di disertare il campo, fra tre o quattr'anni, quando il programma della prima serie sulla Vita Italiana sembri compiuto. Essa si propone di continuare nel suo assunto, poichè il pensiero che lo inspirava ha superato una difficile prova: quella di pigliar la forma d'un libro che si fa leggere.

Guido Biagi.

LA GENESI STORICA DELL'UNITÀ ITALIANA

CONFERENZA
DI
ISIDORO DEL LUNGO

I

Altezze Reali 2,

Signore, Signori.

Sul cader dell'autunno del 1852, un italiano ritirato a Parigi moriva nottetempo, solo, in un modesto quartierino da studente. Era il triste decennio che successe alla caduta delle speranze italiane; e sei anni ancora dovevano passare, sei anni d'indecoroso servaggio, di aspirazioni mal represse, di angosciose trepidazioni, prima che i patimenti della patria nostra si accogliessero, da regione a regione, in quel grido di dolore che sulle labbra del Primogenito di Carlo Alberto fu squillo di guerra, della guerra trionfale per la giustizia e per la libertà. Sopra il letto di quel glorioso solitario, da ambasciatore del suo Piemonte fattosi esule e restituitosi banditore dei nazionali destini, due libri si trovarono aperti, i due ultimi a cui fossero consacrate le veglie di quella gran mente: i Promessi Sposi, l'Imitazione di Cristo. Il filosofo che le ragioni del diritto italico congiungeva con le funzioni provvidenziali dei popoli nella cristiana civiltà; lo scrittore che nella parola italica cercava il suggello indelebile della nazione; ebbe da que' due libri immortali le visioni alla mente, le ispirazioni al cuore, supreme; ebbe l'affidamento delle magnanime speranze per la patria terrena, delle speranze cristiane nella divina finalità. Su quella «deserta coltrice» scendevano dall'alto alla morte di Vincenzo Gioberti consolazioni degne.

La vita di quell'uomo fu tutta una contemplazione in ispirito, e un apostolato in azione, della potenziale e attuale grandezza della patria italiana. Di vocazione sacerdote e filosofo; per abito d'ingegno e vigoria di spiriti, divulgatore d'idee; integratore e innovatore negli ordini morali e civili, con larga e razionale comprensione storica dai loro ideali principii all'auspicato avvenire; il Gioberti segna nella storia del pensiero italiano il compiuto svegliarsi della coscienza nazionale, che, dal Parini evocata, si era con l'Alfieri, quasi sobbalzando, riscossa. E come questo riscuotersi fu violento e convulso, così quello svegliamento veniva a diffondersi in una specie di estasi, i cui fantasmi, le idealità del Primato, erano sovrapposizioni luminose a quel «vero» che, secondo il concetto dantesco, si sogna «presso al mattino.» Ma il mattino era l'età nuova d'Italia; e il vero, la realtà destinata, di quei sogni augurali era il rinnovamento civile d'Italia, sotto l'egemonia politica del Piemonte guerriero e dinastico, e ne' santi auspicii dell'unità della Patria.

Il Gioberti, che aveva veduto svanirsi dinanzi agli occhi, nel vorticoso turbine delle contingenze mondane, le splendide fantasie del Primato, non sopravvisse alla profezia di quel Rinnovamento, del quale designò, con la lucidità d'un veggente biblico, in Vittorio Emanuele e in Cammillo Cavour gli eroici iniziatori. Ma il nome di lui è con que' due nomi indissolubilmente congiunto; mentre poi, nella storia dei nostri fatti e del nostro pensiero, egli è quello che, mediante il largo avvolgimento delle sue sintesi, conserta i tempi nuovi dell'Italia che tra il 1815 e il 1870 ha compiuta la sua laboriosa evoluzione, con le età precedenti, durante le quali l'evo barbarico e medio, i Comuni e le libertà, i Principati e le domestiche o straniere servitù, contengono di quella Italia e trattengono i germi.

Che se verso quel fortunoso passato un altro nobilissimo e vigoroso pensatore subalpino, Cesare Balbo, spinse più addentro, con pazienti e sagaci analisi, l'acume della ricerca storica, e si studiò di rannodare le memorie d'Italia con le speranze, il termine ultimo a cui queste per impulsione provvidenziale si spingevano; fu tuttavia il Gioberti che di grado in grado lo attinse, e lo determinò, e lo additò con sicuro intuito alla generazione che sorgeva quand'egli, adempiuti in breve spazio gli uffici di una lunga vita, scendeva nel sepolcro. Tale testimonianza è doveroso rendergli oggi noi, che posseditori di fatto della unità della patria, ci accorgiamo aver già bisogno di ravvivarne le generose idealità, e che i giovani abbiano presente da quali vicende preparata e disposta, a quale susseguita irrequieto alternarsi di condizioni di fatto deficienti d'un diritto supremo e reale, da quali contrasti emersa, l'unità di nazione abbia finalmente coronata di legittima corona la storia d'Italia.

 

Fra le letture di quest'anno sul Risorgimento italiano, non Vi dispaccia che una, ed è questa mia, rimonti pe' tempi, e rannodi e rattesti con l'antica storia della patria italiana l'ordine nuovo di cose, che ha trasformate le relazioni nostre con le altre nazioni, integrando il diritto, iniquamente impeditoci, d'essere una di esse. La genesi storica dell'unità italiana, che io mi studierò di tracciar sommariamente nella breve ora concessami, dimostra che l'unità nella quale l'Italia oggi si afferma ed è, non ce l'hanno data gl'impeti della rivoluzione, nè i maneggi delle sètte, nè le espansioni d'un'ambizione dinastica; ma che ad essa per lento e involuto procedimento hanno dovuto far capo, col non fermarsi mai in nessun'altra forma organica e sospinti sempre dalla coscienza del pensiero italiano, gli elementi costitutivi della nostra nazionalità.

Il tema, come vedete, esce alquanto, da capo e da piedi, fuor de' limiti cronologici delle Conferenze di quest'anno, proponendomi io, fra la Vita italiana dei passati secoli e il Risorgimento italiano, dal quale avrà nella storia titolo d'onore il secolo nostro, disegnarvi come una linea di congiunzione, i cui estremi risalgono e discendono, fuori di quei confini, necessariamente. A ogni modo, se riuscirò a cattivarmi, come altre volte, la vostra attenzione benevola, meglio avere sconfinato non dispiacendovi, che se vi avessi, dentro i confini dal 15 al 31, fatta parer lunga o vuota quest'ora del 97 che mi fate l'onore di passare con me.

II

La tesi della tradizione unitaria (com'è stata chiamata in lodati studi di questi ultimi decennii), della tradizione unitaria nella storia d'Italia, è una di quelle che richiedono, ad essere tenute ne' loro veri termini, la maggiore indipendenza di spirito da ogni, sia pur generoso, preconcetto ideale, come la maggior cautela contro o le gretterie d'una critica troppo materiale e letterale ai fatti, o le negazioni passionate e partigiane. Che innanzi al decennio dal 1861 al 1870 la unità non soltanto politica, ma anche la storica, o etica che voglia dirsi, sia mancata, la prima sempre, la seconda quasi sempre, nella vita reale ed effettiva di quella che per l'idioma è pur da dieci secoli la nazione italiana, apparisce innegabile. Che, d'altro lato, la figura della unità nazionale abbia balenato; sia dai fatti, nel loro atteggiarsi e connettersi; sia in idea, o a menti elette di pensatori, o alla ispirata fantasia di poeti, o al sentimento magnanimo di cittadini operanti; si comprova positivamente senza sussidio di interpretazioni. Ma accettata l'una cosa e l'altra, rimane a vedersi come questo disgregato procedimento di quasi altrettante storie; quante le regioni che il dialetto e la geografia fisica ha differenziate, e quante altresì le energie di Comune vivacissime e contrastanti nel seno stesso di ciascuna regione; abbia, questo procedimento, pur fatto capo all'unità: e non per violenze di conquista, nè per isforzamento settario contro la volontà e l'acquiescenza dei più, ma vi abbia fatto capo siccome ad una suprema necessità di diritto e di fatto, ed inoltre siccome ad una giustizia dinanzi alla quale debba inchinarsi chi voglia conservar fede in una Provvidenza che prepara e indirizza a destinati termini le cose umane.

III

Conquistata, più faticosamente che tutto il resto del mondo, dalla predestinata fra le città sue ad essere, di civiltà in civiltà, l'urbe mondiale; l'Italia, che da questa sua figlia superba, Roma, non aveva potuto avere una unità latina, vi si trovò (strano a dirsi) più prossima, dopo che il giardino peninsulare, dalle valli gallo-padane alla costiera greco-italica, venne a mano dei Barbari, che vi eseguivano ferocemente le vendette della umanità conculcata. Da Teodorico a Carlo Magno, la storia di cotesti Barbari, che con Odoacre avean rovesciato il simulacro d'Impero rimasto a Roma disfatta, è pure, ciò che non era mai stata la storia dell'Impero, una storia d'Italia; e la gesta Gotica, e la rivendicazione Bizantina, e il poderoso regno Longobardico, hanno sempre per obietto e subietto, sia regno, sia esarcato, siano ducati in vincolo di regia signoria, hanno, dico, per loro base, uno stato e dominio italiano. È quindi fatalmente logico, che col restaurarsi dell'Impero d'Occidente, tale condizione di cose, nata dalle rovine di quello, si muti: sotto il quale rispetto, la caduta dei Longobardi, quando anche si giungesse a provare che le loro relazioni con le plebi latine furono assolutamente di tiranni verso schiavi, riman tuttavia la caduta d'una forza, assimilatrice, fosse pur violenta, di elementi italiani a costituire nazione italiana. Catastrofe degna, invero, che il più grande Poeta nostro di questa età ripensatrice del passato, il Manzoni, vi abbia esercitate sopra le mirabili facoltà dell'acume suo critico, per circondarla poi di tanta pietà, quanta emana dalla virtù guerriera di Adelchi, dalle cocenti lacrime del vecchio re tradito e consegnato, dalla perdonatrice agonia della ripudiata Ermengarda.

Carlo Magno restaura nominalmente l'Impero, e instaura effettivamente il Papato politico: e condanna l'Italia a neanche pensare l'unità sua di nazione: subordinare il concetto della libertà ai diritti supremi di cotesto Impero ideale; di cui addiviene «il giardino», ma non la casa; e la propria indipendenza tollerare mescolata alle vicende di esso e alle relazioni di esso coi Pontefici, diventati per donazione, questa volta non fittizia pur troppo (sebbene mal definita e sin da principio litigiosa), sovrani in Italia, senza ch'e' possano mai, perchè obbligati al loro universal magistero affermarsi ed operare da sovrani italiani. E da Carlo Magno, attraverso a quella sua fantasmagoria di Regno Italico associato alla dignità Imperiale, e poi per gli Ottoni, gli Svevi, gli Asburgo, i Lussemburgo, gli Austriaci, sino a Carlo V, l'Impero e il Papato politico sovrastanno alla vita italiana di ben sette secoli; lungo i quali la evoluzione del Comune, feconda di operosità sociale, splendida di rinnovata civiltà, si compie energicamente, e si dissolve nei Principati, senza che nessuna delle maggiori Repubbliche, nessuna di quelle ambizioni comitali o durali, nessuna di quelle avventure di regia conquista dopo che sul cadere del secolo XV l'Alpe è dischiusa novamente alle armi straniere, raccolga intorno a sè in un concetto o in un proposito, foss'anche solamente d'una lega nazionale, l'Italia. Vengono sì a questa Italia i Cesari tedeschi a cingervi la corona di Roma: ma una corona storica: poichè l'«alma Roma» è diventata in realtà «il loco santo» dove il Papa incoronatore pontefica e, non senza contrasti anche sanguinosi, signoreggia e regna: e Cesare e Papa, sovrani e signorie regionali comunali, ciascuno procacciante per sè, sono, rispetto all'italianità della penisola, altrettante forze negative, il cui positivo resultato è che una Italia non sia. Non sia: mentre fra i contrasti di coteste forze, nell'esercizio delle quali è trasferita e dispersa la legittima virtù dell'esser suo di nazione, tuttavia si contesse l'istoria d'Italia: atteggiandosi spesso il Papato politico a propugnatore di diritti italici, e talvolta l'Impero accennando a voler essere, non una nominalità, bensì una cosa, italiana: ma in effetto ambedue le istituzioni subordinando ciascuna all'immanente interesse proprio queste mutabili contingenze della loro politica. Così nella rivendicazione che le città della gloriosa Lega lombarda fanno dei loro diritti contro l'Impero ferocemente invasore, Alessandro III benedice le loro armi contro il comune nemico: ma appena riconciliato col Barbarossa, abbandona i vincitori di Legnano, che la pace di Costanza restituirà fedeli al Cesare inutilmente vinto. Così Innocenzo III seconderà l'impresa italica di Ottone IV, favorirà altresì fino ad un certo segno le libertà dei Comuni; ma l'una cosa e l'altra sottoponendo a quel preconcetto di teocrazia, che iniziato vigorosamente dall'austero e virtuoso Gregorio VII, non sarà da Innocenzo sospinto alla massima altezza, che per finire, non ancor passati cent'anni, nelle mondane macchinazioni di Bonifazio VIII tanto ignobilmente, quanta è la distanza morale che disgiunge il trionfo di Canossa dallo sfregio d'Anagni. Che se guardiamo agli imperatori, e propriamente ai tre che soli, forse, ebbero ed accettarono dai fatti occasione ed impulso a favorire in Italia un assetto politico nazionale, Ottone IV, Federigo II, Arrigo VII, l'opera loro, ove ben si consideri, non assunse mai il carattere d'una obiettiva costituzione delle cose italiane, qualunque dovesse poi o potesse essere la forma del reggimento; ma fu piuttosto un destreggiarsi tra la fazione loro imperiale e quella chiesastica, con intenzioni più o men generose verso la libertà popolare. Le quali buone intenzioni certo non mancarono nemmeno ad alcuni Pontefici; però fatalmente negli uni e negli altri, pontefici o imperatori, vincolate a ciò: che quel doppio diritto pontificio e cesareo si sovrapponesse al fatto, di per sè non giuridico, dell'esserci questa Italia, le cui cittadinanze, mal compaginate di elementi latini e barbarici, travagliate fra impossenti grandigie feudalesche e irrequiete democrazie, gran mercè se avessero balìa d'insanguinare con le loro discordie le bandiere, neanch'esse italiane, anzi mancipate esse pure o all'Impero o alla Chiesa, le bandiere malaugurate di Ghibellino e di Guelfo.

Quando poi dai Comuni, pel gradino delle Signorie, si ascese ai Principati, l'una e l'altra delle due grandi Potestà politiche preoccupanti le funzioni vitali dell'organismo italiano, si trovarono a molto miglior agio per maneggiare e patteggiare le respettive ambizioni. E d'allora in poi l'Impero tradizionale si straniò sempre più dall'Italia, ma sanzionando e convalidando i Principati che a ventura se la spartivano, ed esso rimanendo come quasi un padrone locatore di questa sua ideale proprietà. Nei Pontefici poi fermentarono sempre più acremente i maligni umori, pei quali sullo spirituale prevalse il politico o, a dirlo con appropriata parola, la mondanità: la mondanità che rinnegava il santo vangelo di Cristo – non essere di questo mondo il suo regno – ; la mondanità, che cooperò all'annullamento di quel grande moto di civiltà cristiana, che vollero, e avrebber potuto, essere le Crociate; la mondanità, che dopo aver cagionato Avignone e lo scisma d'Occidente, segnò il ritorno della sede pontificia al legittimo centro della cattolica civiltà. Roma, lo segnò e lo disonorò con le spedizioni di sanguinarii Legati per tutta Roma-magna: in quella Romagna dove un secolo appresso il duca Valentino avrebbe, condegnamente al padre suo papa Borgia, menata la infausta gesta del poter temporale, e Giulio II avrebbe sfruttato, a solo benefizio di questo malaugurato potere, il nobilissimo sentimento della nazionale indipendenza. Infausto il poter temporale, alla Chiesa, poichè assorbiva in una signoria del tutto secolaresca le aspirazioni teocratiche, che, se non evangeliche, erano state almeno sacerdotali: infausto all'Italia, nella quale cotesto fatto suggellava la impossibilità di essere nazione una ed intera; pregiudicandosene poi immensamente la religione, in quanto si mescolavano le cose dello spirito e gl'interessi materiali, con scandalo delle anime pie e dei più nobili intelletti. E lo scandalo addivenne presto una irreparabile calamità della Chiesa, quando nello splendido pontificato mediceo di Leone X dilagata la corruzione, se ne rompeva con la Protesta nordica l'unità religiosa, che lo Scisma orientale aveva già lacerata.

E intanto la barbarie Musulmana, invano deprecata dall'ultimo e quasi postumo Papa Crociato, il buono e magnanimo Pio II, si era insediata minacciosa di qua dal Bosforo, calpestando le ultime realtà dell'Impero latino e cristiano: la barbarie Musulmana: questa sozza, che troppo lungamente si è poi alimentata di sangue cristiano… e di egoismo europeo. Fra la Protesta di Lutero e a pochi anni di distanza l'Assedio di Firenze: fra il papato di Leone e l'altro quasi immediato papato mediceo di Clemente VII, alle cui mani le orde imperiali rinnovano col Sacco di Roma le geste dei Goti e dei Vandali; patiscono gli estremi danni, degnamente congiunte, le due divine animatrici di tanta italiana grandezza nell'età dei Comuni, la fede e la libertà. Il rogo del Savonarola, che ha sperato di salvarle insieme, illumina sinistramente la loro rovina, e investe di sanguigni riflessi la corona dei Cesari che papa Clemente pone sul capo di Carlo V, il gran bargello d'Europa; corona consacrata da mani fatte a ciò degne pel consumato matricidio fiorentino! Oggi cotesti due pontefici, Leone e Clemente, riposano l'uno dirimpetto all'altro nella Minerva di Roma: ma l'urna che in mezzo ai due monumenti superbi custodisce alla pia ombra dell'altare le ossa verginali di Caterina senese, l'eroina dell'amore e della carità, che ben altro sperò alla fede di Cristo riconducendone da Avignone a Roma i vicarii, cotesta urna in mezzo a quelle due statue, inchiude la più acerba condanna che, in nome di tuttociò che è santo, possa aggravarsi sul papato mondano e politico.

 

Con la caduta della libertà d'Italia, e la consegna di lei schiava e mutilata nelle mani dei non aventi, dinanzi all'eterna giustizia, alcun diritto su lei, la storia de' suoi Popoli cessa per non essere più che la storia de' suoi Stati. E possiamo dire de' suoi Principi: e principi stranieri più o meno, o portati o retti dallo straniero: senza che facciamo grande torto al poco, e non bene, sopravvissuto di Stati repubblicani: sol che si rilevino (oltre quella, tutta a sè, dello Stato Ecclesiastico) due eccezioni gloriose: – una grande Repubblica, Venezia, cui l'intendimento all'Oriente alienò, ne' secoli suoi vigorosi, da qualsiasi egemonia italica; e che, rinchiusa nel suo aristocratico pomerio, fu distrutta di lenta decrepitezza anche prima che d'un colpo a tradimento finita; – e un Ducato alpigiano, domestico retaggio di valorosi, che bilanciate alcun poco le proprie aspirazioni fra il di là e il di qua de' suoi monti, si affermava risolutamente italiano, quando appunto addosso all'Italia si aggravò la servitù: e sulla fronte di quei Duchi la corona di Re era predestinata a divenire la corona popolare d'Italia.

Ma prima che ciò fosse, doveva l'Italia discendere tutta intera la via dolorosa della politica decadenza, sino all'annientamento suo in espressione geografica, terra di morti, nazione da carnevale, paese (tutt'al più) dove i poeti venissero a veder fiorire il cedro e l'arancio, il mirto e l'alloro: dovevano i suoi Stati esser ridotti alla condizione di merce quotabile e permutabile nel mercato della diplomazia europea: dovevano, non per la gloria del nome italiano, ma per la vita nostra utile di nazione, andar frustrati e dispersi il lavorio scientifico sperimentale del secolo XVII; il movimento di civili e sociali riforme del XVIII, che anticipava negli ordini ideali la rivoluzione francese; e finalmente, doveva non essere per l'Italia che una fuggitiva luminosa meteora il grande travolgimento napoleonico: nel quale però il braccio italiano si ritemprava alle armi, e il Regno italico non rinnovava soltanto una memoria od un nome che suona nazione, ma rifioriva senno e operosità di cittadinanza cosciente, e la corona di Monza cingeva, per que' pochi anni di gloria e di ebra violenza, la fronte cesarea dell'abolitore del Sacro Romano Impero.

Col secondo decennio del secolo che ora tramonta, e propriamente con l'infausto 1815, il ribadimento delle imperiali catene trisecolari, la servitù dei popoli concordata in Santa Alleanza dalle Potenze, la sanzione del Pontefice, restaurato re, a quest'altra riattiva violenza, furono i provvidenziali flagelli, sotto il cui stimolo la coscienza nazionale si svegliò finalmente, per non assopirsi più mai. Ammaestrava gl'Italiani tutto un passato d'illusioni, di sventure, di errori, di colpe, dominato fatalmente dalla bugiarda idealità dell'Impero, che subordinando l'Italia ad una sopravvivenza nominale di Roma pagana, aveva insieme e impedito la sua personalità reale di nazione moderna, e soggettata la Chiesa di Gesù alle funzioni d'un ministero essenzialmente politico. Ammaestramento che era sublimato dalle eroiche prove, confermato dalle repressioni sanguinose, consacrato dal martirio: le fosse dello Spielberg, le forche di Modena, i Bandiera fucilati a Cosenza, preparavano l'era nuova d'Italia. Il moto dei popoli sforzava la coscienza dei principi: e la prima guerra d'indipendenza, che si svolge tra la benedizione del Pontefice piamente ribelle, per breve ora, all'Impero, e il sacrifizio del Re che, devoto al patto giurato, non abbandona il campo dell'ultima battaglia che per cercare l'esilio di Oporto; quella prima guerra, in cui tutta Italia, se non ancora con le armi, ma coi cuori, combatte; alla quale Milano dà le cinque giornate, Toscana i giovanetti veterani di Curtatone e Montanara, Messina Venezia Roma gli assedii gloriosi, Palermo e Bologna i vittoriosi impeti del braccio plebeo, Brescia lo strazio de' suoi eroici insorti, Napoli le sue galere nobilitate dal fior dell'ingegno e del cuore, e il Piemonte tutto sè stesso: quella guerra, di nazione e di popolo, annunzia al mondo che l'Italia ha finalmente ritrovato il vero esser suo. La sconfitta delle armi è vittoria dell'idea: lo spergiuro dei Principi, legittimi per convenzione diplomatica, ma non nel diritto storico della nazione, toglie di mezzo il generoso equivoco di quel primo movimento: e la questione italiana, imposta ormai alla vecchia tenace Europa di Carlo V e di Metternich, la questione italiana maturata con ben altri auspicii nel decennio di preparazione alla guerra seconda, trionferà in questa e nelle sue conseguenze, e trionferanno con essa il diritto e la civiltà. Nel marzo del 1861 l'Italia, nel suo primo parlamento, proclama il suo Re e la sua capitale. E quando l'Emanuele della nazione mancherà, innanzi tempo, ai destini di lei rivendicata e costituita, non ne accoglieranno la salma lacrimata i sotterranei dell'avita Superga, ma il Pantheon d'Agrippa, il grande monumento imperiale, darà in Roma cattolica la tomba legittima all'unificatore d'Italia: legittima in Roma, e non altrove che in Roma, al cui nome politicamente abusato fu incatenata per secoli, con doppia catena, la statuale esistenza d'Italia e la sua unità di nazione.

Se l'alba d'un lieto giorno spunterà mai, che annunzi conciliate, nell'augusta serena libertà del pensiero, le energie della fede e della scienza verso il divino ignoto che, volenti o ribelli, consapevoli o ignari o dimentichi, ci predomina tutti; quel giorno incoroneranno quella tomba i fiori d'una primavera italica, che noi non siamo destinati a vedere; e la civiltà umana, novellamente attratta verso la cosmopoli eterna, segnerà forse dall'unità d'Italia un nuovo ordine di secoli, nel quale sia restituita ai popoli anche la consolatrice unità del consentire almeno in una speranza non offuscata da vapori mondani.

1I promotori furono: Guido Biagi, G. O. Corazzini, Tommaso Corsini, Francesco Gioli, Diego Martelli, Carlo Placci, Arnaldo Pozzolini, Piero Strozzi, Pasquale Villari.
2Erano presenti le LL. AA. RR. il Principe e la Principessa di Napoli.
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