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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I

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Oltre alle cause esteriori, che si soglion di solito allegare, vi furono altre cause e maggiori, che una trasformazione nata subitamente, subitamente dovean soffocare. E queste cause van trovate non come si fa d'ordinario nella pochezza dei capi, nelle colpe dei generali, nelle incertezze del Parlamento, nei tradimenti della famiglia regale. Perchè il popolo non lottò? perchè l'esercito si sbandò? Non mai forze prodigiose nell'arte della guerra, genti dell'istessa razza e delle istesse contrade avean pochi anni prima, anche fuori della patria, dato prova di grande coraggio.

I moti del '20 furon promossi da due giovani idealisti: seguìti da genti che non avevan gli stessi intenti, nè gli stessi scopi. Il sostrato della carboneria, come noi abbiam visto, era di spostati, desiderosi di occupazioni civili, di militari desiderosi di avanzamento, di forensi desiderosi di fortuna. Non era possibile contentar tutti: anzi il numero enorme non permise che di contentar pochi. Le promozioni militari, fatte in base alla volontà della setta, demoralizzarono un esercito già inglorioso e privo di tradizioni; gli scontenti di tutte le classi erano il lievito della putrefazione in un regime non stabile. L'aristocrazia fondiaria, potente in Sicilia, si oppose come potè: a Napoli e nelle province, ove se non la forza economica, possedeva almeno il prestigio, screditò con l'astensione e l'avversione. Rimasero sul teatro dell'azione sopra tutto gli avvocati, audacissimi in tempo di pace. La massa dei lavoratori delle campagne non avea coscienza del suo stato: ma per istinto era più dalla parte del Re, che da quella dei suoi avversari, da cui sentiva o credeva di non dover nulla sperare. Chi sapeva la costituzione di Spagna? e che valeva per essa lottare, per essa morire? I carbonari non erano più morali dei loro avversari: ricorrevano anzi, potendo, agli stessi mezzi.

La rivoluzione di Napoli dovea cadere: le fu colpa cader vilmente.

Ferdinando introdusse la frusta, riempì le carceri, esiliò moltissimi; ma nella persecuzione, già vecchio e stanco, non ebbe la crudeltà che avea avuta nel 1799. I suoi ministri Medici, Canosa eran peggiori di lui; avventurieri e ribaldi, che governavano con male arti, che mentivano con il loro sovrano e non avean fede se non nell'arte dello inganno.

E in tante cattive passioni le due figure che rimasero al di sopra e che anche adesso rimangono, furon quelle dei due sottotenenti Morelli e Silvati, che disertori da Nola, aveano più per viltà altrui, che per virtù propria, mutato le basi del reame. Il Re che fu indulgente con altri, temendo forse la riprovazione dei paesi civili, non fu nè volle essere con essi.

Nè l'uno, nè l'altro, durante l'imperversare della carboneria, benchè carbonari essi medesimi e rivestiti di alto grado vollero far cosa che suonasse violenza o abuso. All'avvicinarsi delle truppe austriache a Napoli, fugato l'esercito, fuggirono anch'essi, cercando scampo, dopo aver tentato invano sollevare di nuovo la provincia di Avellino. Imbarcati su piccola nave volean raggiungere la Grecia, ma una tempesta li spinse sulle coste di Abbruzzo, ove riconosciuti furon, dopo molte vicende, mandati a Napoli e processati.

E furon processati come molti altri in forma crudele e trista. Nel giorno del dibattimento quattro degli accusati erano infermi con febbre, uno soffriva di emottisi, un altro, per riaperte ferite di guerra, dava sangue dal collo e dalla gola. Furon messi tutti insieme: e mentre due eran quasi morenti e altri balbutivano dalla febbre, furono interrogati e condannati, non ostante le proteste dei difensori e del pubblico. A quasi tutti fu fatta grazia della vita: due soli, Morelli e Silvati, come i promotori e i responsabili dei fatti di luglio dell'anno precedente furono giustiziati. E, nel momento supremo, non smentirono sè stessi.

Morelli avea tentato di avvelenarsi per morire liberamente: Silvati, cristiano e cattolico convintissimo, non avea voluto. Salendo le scale della forca il 12 di settembre del 1822, Morelli vide silenziosa e avversa la stessa folla, che due anni prima lo avea acclamato insieme al suo compagno, mentre entravano a Napoli a capo delle ribelli truppe di Monteforte. Non però un solo grido in suo favore. Nel tragico momento egli non volle smentirsi. E a folla ostile parlò dei martiri del 99 e disse di esser lieto di morire per la libertà.

E accanto a Morelli e Silvati, che furon la poesia di una rivoluzione che poesia quasi non ebbe, mirabile fu la condotta di altri accusati, che imputavan sè per discolpare altri: nobile contrasto al maggior numero, che sè discolpava, altri accusando.

Lord Giorgio Byron, dopo la caduta della causa liberale a Napoli, imprecava spietatamente contro i Napoletani: «Vivere liberi o morire, essi gridavano: morire ripetea l'eco delle montagne. Vani trasporti! entusiasmo effimero e fallace! quale derisione sanguinosa cade ora sulle loro teste. Infelici! Eccoli inevitabilmente in preda ai fiotti amari del ridicolo e della infamia. Morire! No, voi non morrete più; la severa e terribile libertà, di cui avete compromessa l'augusta causa, il tradimento dei popoli di cui la vostra risolutezza avea usurpata la stima e di cui il vostro delitto ha tradito la speranza, vi rifiutano egualmente l'asilo della morte e dell'oblio.»

Parole crudeli e non eque: le quali trovan forse la loro giustificazione nel fatto che prorompean da un'anima assetata di libertà, che non sapea perdonare di vederne compromessa la causa.

Entrati gli Austriaci a Napoli assai furon quelli però che non seppero rassegnarsi alla servitù. Migliaia fuggirono in lontane terre e andarono per il mondo, a lottare, a cospirare, a preparare le rivoluzioni future. E tra essi erano Rossaroll, che avea tentato, anche dopo la catastrofe, di ribellarsi in Messina; Pietro Colletta che nella sua grande storia forse molto s'illuse sul suo popolo, ma fece il più terribile atto di accusa della monarchia borbonica, sì che fu detto a ragione che nessun libro ebbe tanta efficacia sulle sorti del popolo napoletano; e Guglielmo Pepe, che dopo aver molto errato seppe almeno molto amare e molto lottare.

La rivoluzione del '20 non fu bella, sopra tutto perchè non ebbe il sacro battesimo del sangue; e perchè seguendo le rivolte di Spagna, n'ebbe tutto il carattere: non fu opera di popolo, ma di cospiratori e di forensi, battaglieri in pace, pacifici in guerra.

Ma ad onore delle genti meridionali bisogna dire che per settant'anni la causa della libertà trovò in esse i principali sostenitori. Mentre altre genti d'Italia, più tenaci forse nel pericolo, ma meno insofferenti, chinavano il capo alla servitù, dal lembo estremo della penisola venivan le voci e i tentativi della riscossa. E fu l'esercito napoletano che, nel 1813, tentò, per la prima volta forse l'unità d'Italia, che popolo più fortunato dovea compiere: unità che anche con i suoi svantaggi, è la nostra fortuna e la nostra salvezza, e che noi dobbiamo mantenere oggi sopra tutto che le vecchie e perfide tradizioni separatiste, causa di ogni nostra sventura, risorgono malefiche negli animi italici. E furono i Napoletani che diedero maggior numero di morti e di esuli per causa di pubblica libertà e di amore d'Italia. E se l'opera dei meridionali fu un po', come la loro natura, vivace, tumultuosa, disordinata, fu anche negli anni della servitù, la scintilla che mai non si spense e che determinò altrove più grande e più poderoso incendio.

POLITICA E BEL MONDO

CRONACHE FIORENTINE DAL 1815 AL 1831
CONFERENZA
DI
GUIDO BIAGI

Signore e Signori,

Il 17 settembre 1814 non fu a Firenze un sabato come tutti gli altri. Sin dall'aurora la gente era tutta in moto, e così dalle povere impannate delle casupole, come di dietro alle vetrate co' piombi delle case civili e dei palazzi, le fiorentine sempre curiose allungavano gli occhi per guardar giù nelle strade formicolanti di popolo: di contadini in calzon corti, di villane infioccate, di birri, di preti con gli abiti di tutti i colori consentiti dalla licenza francese, e di soldati delle milizie toscane e tedesche, i quali, al suono dei pifferi e dei tamburi, movevano dalla gran guardia di Palazzo Vecchio e dalle caserme verso il Duomo e Porta a S. Gallo. Molta la gente a cavallo, moltissime le carrozze padronali con i lacchè a cassetta e in piedi sul predellino di dietro; e procedevano a stento fra il pigia pigia della folla, gravi, pesanti, massiccie come cariaggi, portando quasi in pompa dame e cavalieri, sgargianti negli abiti di gala che alla Restaurazione aveva legato l'Impero.

Alle ore sette, le milizie erano già schierate lungo le vie e nell'interno del Duomo: la calca cresceva, e il mareggiare delle teste refluiva verso Porta a S. Gallo; e, più oltre, attraverso all'Arco trionfale e su per il Ponte Rosso, si stendeva a perdita d'occhio lungo la via Bolognese. In mezzo alle file dei soldati, passavano staffieri a cavallo, battistrada, carrozzoni di gala con cerimonieri, ciambellani, magistrati, ufficiali. Alle otto, col primo colpo di cannone sparato da Belvedere, le campane di tutte le chiese cominciarono a suonare, annunziando ai fedeli toscani che S. A. I. e R. l'Arciduca Granduca di Toscana Ferdinando III, movendo dalla villa Capponi alla Pietra, dove aveva fatto breve sosta per riposarsi e cambiarsi gli abiti da viaggio, stava per arrivare a Firenze. Ricevuto dal suo nuovo gran Ciambellano, cav. Amerigo Antinori, e dai due ciambellani di servizio di settimana, Tommaso Corsi e Silvestro Aldobrandini, il Granduca, il cui viaggio da Firenzuola in poi era stato un continuo trionfo, dopo aver vestito il suo grande uniforme, prese posto nella sua muta a sei cavalli infioccata a gala, in compagnia del maggiordomo maggiore don Giuseppe Rospigliosi e del gran Ciambellano cav. Amerigo Antinori.

 

A questa seguiva un'altra muta a sei cavalli, in cui erano i due ciambellani di servizio Corsi e Aldobrandini, insieme con i due ciambellani Bodech e Reinack, che il Granduca avea condotto seco da Wisbourg. Intorno all'equipaggio del sovrano galoppavano, superbi delle monture rosse e delle lucerne piumate, dodici uffiziali del nuovo corpo dei dragoni, e alla portiera il Maggiore che li comandava. Lungo la strada, tra il fragor delle campane e il rombo de' cannoni, tra il vocío e gli evviva della folla, udivi i comandi degli ufiziali che ordinavano di presentare le armi; e giù dalla scesa del Pellegrino si avanzava entro un nuvolo di polvere, scortata dai dragoni e tutta splendente e luccicante al sole, la carrozza del Principe. Gli evviva, i battimani, le grida scomposte ma fervide, aumentarono coll'ingrossar della folla.

Giunto il Sovrano alla Porta a S. Gallo, il già senatore Girolamo Bartolommei, gonfaloniere del Comune di Firenze, i Priori e il Magistrato civico, fattisi incontro al Granduca, gli presentarono le chiavi della città. Voleva il Gonfaloniere in quel punto pronunziare il discorso già preparato; ma la commozione che provò il valent'uomo come quella onde fu preso il Sovrano, troncò ad ambedue la voce, e le sole lacrime del Gonfaloniere e dei Priori furon l'omaggio ch'essi seppero rendere in nome della città all'amatissimo Principe.

La scena può parer comica, poichè risveglia il ricordo di tanti altri ingressi burleschi, di tanti discorsi di gonfalonieri e di sindaci che non furon troncati dalle lagrime, bensì dagli sbadigli e dalle risa. Ma possiamo esser certi che quelle lagrime de' magistrati fiorentini eran vere, sgorganti dal cuore, e che le accoglienze ch'ebbe Ferdinando III in Firenze e in tutta Toscana, quando vi rimise il piede dopo quindici anni di esilio, erano spontanee e sincere.

L'entrata del Granduca somigliò ad un trionfo, come il suo ritorno nei dominî toltigli dall'invasione francese parve opera di giustizia riparatrice. Il buon popolo fiorentino l'avea veduto lasciare la reggia e Firenze una triste mattina del marzo 1799, e con lacrime aveva accompagnato la sua dipartita. Ferdinando avea preso la via di Vienna, rassegnato e fidente, raccomandando a' sudditi di rimanersene in calma, e di confidare nella Provvidenza. Ora, dopo tanti rivolgimenti, dopo tante scosse e così rumorose cadute, egli tornava come un padre che rientri in casa sua, con la coscienza di non aver rimproveri da farsi, con la fiducia di poter essere ancora amato dai sudditi.

L'ingresso in città fu fatto in gran pompa. Sulla Piazza di S. Marco, trasformata in anfiteatro, sorgeva un gruppo trionfale rappresentante la Vittoria, la Concordia, la Giustizia e la Pace che conducevano il carro su cui sedeva Ferdinando III. I più illustri artisti dell'Accademia avevan lavorato a cotesto gruppo e a tutte quelle simboliche architetture: il Morrocchesi, Pietro Bagnoli, Francesco Benedetti, perfino i cherici del Collegio Eugeniano, avevano cantato il ritorno dell'ottimo, del desideratissimo Principe. Dalla Porta a S. Gallo al Duomo, dov'ebbe la benedizione, dal Duomo a Pitti, e poi la sera alle Cascine e per le vie di Firenze, e il giorno appresso e in quelli in che celebraronsi le feste date dalla Comunità col palio dei Cocchi in piazza S. Maria Novella, con illuminazioni e fuochi d'artifizio, gli evviva, gli applausi e le grida gioiose non ebbero freno. L'arciduca Leopoldo principe ereditario, le arciduchesse Maria Teresa e Luisa, che arrivaron dipoi, ebbero anch'esse accoglienze festose, e plausi e acclamazioni. Il canto de' poeti rispecchiava i sentimenti del popolo:

 
Regna e tramanda nell'augusta prole
Le tue virtù; basta che a te somigli.
Tu lei volesti, e te l'Etruria vuole.
Più numerosa gente altri si pigli,
Più fida no, nè più in amor sincera:
Maggior d'ogni altro è chi sui cori impera!
 

Il ritorno di Ferdinando III chiudeva per Firenze un periodo sciagurato pieno di rivoluzioni, di rimescolii e di paure. In quei quindici anni quante scosse e quante commozioni, quanti ingressi trionfali e quante fughe paurose e precipitose! Nel 1799 il generale Gaultier dà lo sfratto al Granduca, pianta gli alberi della libertà sulle piazze di S. Maria Novella e S. Croce, arresta alla Certosa quel povero vecchio cadente del pontefice Pio VI e lo spedisce prigioniero in Francia a morirvi d'angoscia, spoglia la galleria e la reggia de' Pitti de' suoi capolavori, e pochi mesi dopo, il 5 luglio 1799, sgombra con le sue milizie Firenze. Tornano gli Austriaci e restaurano il governo di Ferdinando III, mentre le frotte dei contadini insultavano e rubavano quanti aveano al governo francese aderito. Ma seguono le vittorie sfolgoranti del Bonaparte e, dopo Marengo, gli Austriaci sloggiano alla lor volta; e Firenze vede, il 15 ottobre 1800, l'entrata del generale Dupont, e poi quella del Miollis, l'amico di Corilla Olimpica; e il 27 marzo 1801, Giovacchino Murat, che in nome del cognato Bonaparte prende il comando della Toscana.

Il 12 agosto altro ingresso trionfale! Ricordate? la Toscana, col trattato di Madrid, era stata trasformata in regno d'Etruria, e Lodovico di Borbone, già duca di Parma, veniva a prenderne possesso. Regno breve e inglorioso: il 29 maggio 1803, morto Lodovico, gli succedè l'infante Carlo Lodovico suo figlio col titolo di secondo Re d'Etruria, e questi, il 10 dicembre 1807, parte da Firenze con Maria Luisa sua madre per occupare un altro regno, quello di Lusitania, largitogli dall'imperatore Napoleone, nel cui nome il generale Reille occupava Firenze. Il 24 maggio 1808, la Toscana, divisa in tre dipartimenti dell'Arno, del Mediterraneo e dell'Ombrone, fu riunita all'Impero e governata da una Giunta di governo, preseduta dal barone Menou, generale delle truppe francesi. Neppure un anno dopo, il 3 marzo 1809, i tre dipartimenti furon trasformati in granducato, e ne fu investita Elisa, sorella dell'Imperatore, sposa a Felice Baciocchi, principessa di Piombino e duchessa di Lucca. Il 1º aprile, Elisa faceva il suo ingresso in Firenze, che di lei e del suo governo ricordava più tardi con piacere due cose: le riviste militari ch'ella passava a cavallo, seguìta dal marito Felice, – e i lampioni a olio messi a spese del Comune per le vie della città dopo il 1809. Ma scorsi appena cinque anni dalla sua venuta, il 1º febbraio 1814, alle nove e mezzo della mattina essa fuggiva alla volta di Lucca, dove aveva già spedito la principessina sua figlia e di nottetempo parecchi carri pieni d'argenterie e di cose preziose.

Quell'anno 1814 fu veramente pieno d'eventi, e per Firenze di curiose sorprese. I Francesi eran quasi tutti partiti, assai prima di Madama Elisa, ed entravano le truppe napoletane col Maresciallo di campo Minutolo, che in nome del Murat, anzi di Gioacchino Napoleone Re delle Due Sicilie, prendeva possesso della città. Al Minutolo succedeva il Lechi, luogotenente generale comandante superiore della Toscana, che dopo un blocco di 20 giorni e più, faceva, il 23 febbraio, evacuare dalle fortezze da Basso e di Belvedere le guarnigioni francesi rimastevi. Poi, quando già la Toscana era tutta occupata da milizie napoletane, – in forza della convenzione di Schiarino-Rizzino onde il Murat dovette contentarsi del Reame di Napoli, – stabilita con l'atto di Parma la reintegrazione di Ferdinando III in Toscana (20 aprile 1814), giunse il 26 aprile in Firenze il duca di Rocca Romana, Commissario di S. M. il Re di Napoli, per la consegna della Toscana al Commissario generale del granduca Ferdinando III. E in nome di questo, il 1º maggio 1814, don Giuseppe Rospigliosi, come plenipotenziario, ne prendeva possesso.

In quindici anni, dieci cambiamenti di governo! di che nella stampa del tempo resta appena la traccia. L'unico foglio politico pubblicato allora in Firenze, soltanto in una settimana del febbraio 1814 muta tre volte il titolo, e da Giornale del dipartimento dell'Arno, come si chiamava il 3 febbraio, diventa il 5 febbraio Giornale politico di Firenze, e il 10 Gazzetta di Firenze. Ma se cambia di titolo non cambia di proprietario, e seguita a stamparsi da Giuseppe Fantosini da S. Maria in Campo. Cambino pure i governi, ma gli uomini di carattere, i tipografi d'allora, non lo cambian davvero!

La restaurazione voleva dire per i toscani il benessere, la pace, la tranquillità. Del governo francese e del napoleonico, piuttosto che certe benefiche riforme legislative, ricordavano le spoliazioni vandaliche de' musei, le leve forzate di tanta florida gioventù mandata a morir lungi da' suoi, le imposizioni continue, intollerabili, le persecuzioni ai religiosi ed ai preti, l'infrancesamento della pubblica cosa, l'obbligo di rinunziare alla lingua nativa, e la soggezione ad un padrone lontano.

I Toscani, per l'indole loro, per tradizioni antiche, per lingua, si sono sempre sentiti anzitutto toscani, e poco o punto disposti ad imbrancarsi con altra gente e a perdersi nella gran confusione di mescolanze diverse, tramezzo alle quali rischiavano di rimanere, nella loro, non so se timidità o selvatichezza, un po' sopraffatti. L'unità napoleonica o murattiana non poteva a loro gradire, massime scorgendone da presso piuttosto il danno che l'utile. Essi ricordavano, a proposito di riforme, quelle iniziate da Pietro Leopoldo e lasciate in retaggio da lui a Ferdinando: ricordavano gli anni prosperevoli, i raccolti abbondanti non disertati dalle milizie straniere, non occhieggiati dall'avido fisco: ricordavano il Principe che si mostrava a' sudditi semplice, buono, alla mano, come un padrone amorevole, e del paterno regime amavano la pacatezza e magari la severità, magari l'arbitrio, perchè le busse del babbo non sono offesa, ma meritato castigo.

La stessa scioltezza del vivere ch'era diventata soverchia e stomachevole, massime fra quelli che aveano buttato il saio o il collare alle ortiche, faceva desiderare il ritorno all'antico. E più dovevano augurarlo e pregarlo i nobili che del Codice Napoleone, in cambio del divorzio, di cui non avevano mai sentito il bisogno, videro distruggere le antiche prerogative, per giovare a' nuovi favoriti della fortuna. L'abolizione degli ordini religiosi e l'incameramento dei beni loro avea scosso la proprietà: la mancanza di braccia, tolte dalle leve ai lavori dei campi, nociuto all'agricoltura. Le guerre napoleoniche nelle quali si combatteva in terre remote per l'ambizione di un uomo, costavano troppo buon sangue toscano, e nelle famiglie lasciavano troppi vuoti che non era agevole colmare.

«Ferdinando III, ammaestrato dagli avvenimenti, era tornato dall'esilio in Toscana più desideroso di pace che di potenza, risoluto di obbedire alla mitezza della propria indole, anzi che agl'imprudenti rancori del Metternich»3. Toscano com'era d'indole e di rimembranza, e in Austria negletto, aveva in uggia i Tedeschi «ch'ei chiamava legnosi, e la Corte di Vienna, le cui alterigie, i sussieghi, la grulla rigidità delle cerimonie gli destavano insieme riso e pietà.» A Salisburgo, di cui gli dettero a gran stento la possessione, dolevasi del clima, della solitudine e del sito della città, – della mancanza di gelati e del non vedere italiani.

Nominò segretario di Stato il conte Vittorio Fossombroni e gli dette per compagni nel ministero, ma con minor grado, don Neri dei principi Corsini per l'interno e Leonardo Frullani per le finanze. Il Fossombroni, matematico e idraulico valentissimo, «fu quel che poteva essere, dopo il 1815, il ministro di un principe mite nella più mite provincia d'Italia.»

Principe e Ministro andavano pienamente d'accordo nel non voler compromettere la dignità del sovrano e l'indipendenza dello Stato. Ferdinando III era franco e non celava la sua ammirazione per Napoleone, al quale soltanto, e non al fratello, dovette il principato di Wurtzburgo, datogli in retaggio per il trattato di Luneville. A quelli che per aver titolo ad ottener da lui grazie od impieghi, vantavansi di non aver mai servito l'Usurpatore, rispondeva: «Faceste male: l'ho servito io, potevate servirlo anche voi.» Avverso alla politica di Metternich, che credeva nociva agl'interessi della sua Casa, e geloso della propria indipendenza, una volta che il conte di Fiquelmont, ministro d'Austria, cercava di mettergli in sospetto alcuni dei più segnalati cittadini, il Granduca rispose: «Ella faccia sapere al suo sovrano, come io farò sapere a mio fratello che de' miei sudditi io solo dispongo e rispondo.»

 

Con minor fierezza, anzi con una mellifluità quasi canzonatoria, il rappresentante di cotesto principe alla buona, ch'era un uomo di spirito oltre ad esser un dotto, e a cui la matematica aveva appreso l'equazione fra la politica e il buon senso, al Ministro d'Austria che pretendeva 300,000 scudi per non so quali crediti vantati dall'Imperator d'Austria, rispose:

– Eccellenza, si potrebbe disputare se S. M. debba avere questi quattrini; ma si perderebbe tempo, perchè tanto io i 300,000 scudi non li ho.

– Ma S. M. l'Imperatore li vuole…

– Eccellenza, e se a S. M. l'Imperatore saltasse in testa di volere da me 300,000 elefanti? Io non potrei che rispondere: Eccellenza, non li ho.

– Ma io debbo scrivere a Vienna…

– V. E. scriva che il ministro Fossombroni è sempre pronto a compiacere S. M. l'Imperatore, qualunque sia la cosa che si degni di chiedergli; ma che per il momento si trova a corto così di scudi come di elefanti. —

Un altro aneddoto che dipinge l'uomo. Il suo segretario particolare (allora si chiamavano più modestamente commessi fiduciari) gli portò un giorno molte carte da firmare; e poi – come successe più tardi a un ministro di Vittorio Emanuele famoso per le sue distrazioni – scambiando il calamaio col vaso del polverino, macchiò d'inchiostro tutti quei fogli. L'impiegato rimasto di sale, si lasciò scappare un:

– E ora?

– E ora, – rispose con l'usata bonarietà il ministro Fossombroni, – si va a desinare.

– Ma, e gli affari?

– Domani, mio caro, domani. Il desinare brucia e lo Stato no. —

E per quel giorno – scrive l'arguto figlio di quel segretario – le staffette non partirono e la Toscana si governò da sè e nessuno se ne risentì.

Il mondo va da sè, soleva affermare il Fossombroni, che cotesta massima considerava un assioma di profonda politica. Di che molti oggi, anche ministri, lo han censurato.

Ma, secondo me, è bene che così vada. Sarebbe peggio, se lo dovessero mandare i ministri!

Checchè altri opini, la Toscana sotto il governo restaurato di Ferdinando III visse anni felici di prosperità materiale, di liberale mitezza, con leggi, se non in tutto buone, certamente applicate con grande moderazione. Uno Stato compreso – come diceva il Niccolini – tra Orbetello e Scaricalasino, non era difficile a governare. Il popolo, de' trambusti passati si rifaceva nella tranquillità, un po' supina, se vuolsi, di quegli anni, ma onesta e sicura; contro le inframmettenze e le prepotenze dell'Austria, vegliavano il Sovrano e i Ministri. L'aristocrazia accarezzata a Corte era tenuta lontana da ogni ingerenza che potesse parere soverchia: favorita la piccola gente: gl'ingegni mezzani e pieghevoli lusingati con accorte blandizie: gli esuli e i liberali sorvegliati senza eccessivi rigori: si voleva, e si ottenne, che i Toscani d'ogni condizione, d'ogni classe, d'ogni età, riuniti nell'amore del Sovrano e del pubblico bene, formassero una sola famiglia. Al Granduca era grato il riposo e il vivere lieto: del principato amava più i comodi che le cure: gli piacevano gli ozi delle villeggiature medicee, nelle quali gradiva la compagnia degli uomini colti, come Gino Capponi, che fu suo ciambellano.

Racconta il Capponi che una volta al Poggio a Caiano andarono in gran fretta da Firenze i Ministri per tenere un consiglio straordinario. Partiti i Ministri, il Granduca chiamò il Capponi nella sala stessa dov'erasi adunato il Consiglio, parata d'un drappo di seta a fiorami, e mostrandogli certe rose che ricorrevano di tratto in tratto nel tessuto, gli domandò se gli pareva che avessero tutte un ugual numero di foglie; ed avendo il Capponi risposto affermativamente: «Lei sbaglia, riprese il Granduca, perchè in quell'angolo ce n'è una che ha una foglia di meno, forse per malefatta del tessitore.»

Ed era vero; ma il Granduca, per essersene accorto, doveva, durante il consiglio, aver badato più a quelle foglie che agli affari di Stato.

3Cito una volta per tutte alcune opere delle quali mi son largamente servito: vari scritti di Ferdinando Martini, raccolti nel volume Di palo in frasca (Modena, Sarasino) e la bella prefazione di lui alle Commedie dell'Anonimo Fiorentino (Vincenzo Martini) edite dai Succ. Le Monnier; i Ricordi del Capponi, la biografia del Capponi medesimo dettata da Marco Tabarrini; le Storie di Enrico Poggi e dello Zobi e i Misteri di Polizia di Emilio Del Cerro. Molte preziose notizie sulla Società fiorentina, oltre a quelle trovate nelle filze dell'Archivio del Buongoverno, debbo all'amichevole cortesia del marchese Pierfilippo Covoni.
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