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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I

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LA LOMBARDIA ALLA CADUTA DEL REGNO ITALICO

CONFERENZA
DI
GEROLAMO ROVETTA

Signore e Signori,

Il secolo non è finito ancora, e già se noi ci volgiamo indietro a considerare gli avvenimenti che ne agitarono il principio, essi ci appaiono lontani lontani, estranei affatto alla vita nostra, quasi che tra essi e noi intercedesse l'ombra di un intero evo storico, non lo spazio di una vita d'uomo.

A mano a mano che la ricerca erudita, fatta oramai positiva e serena, studia quei casi snebbiandoli dalle leggende che già vi si formarono intorno, e corregge gli errori, ripara alle ingiustizie, assolve i calunniati e condanna gli usurpatori di gloria; mentre la critica si affatica sui documenti e la verità torna in luce; in noi, strano a dirsi, nell'impressione comune di chi oggi ripensa a quegli anni fortunosi, nella coscienza della gente anche istruita, la distanza tra la fine e il principio del secolo cresce di continuo; e gli uomini e i fatti del tempo che segnò la giovinezza dei nostri nonni par che si ritraggano sempre più rapidamente nel buio del passato, vi si avvolgano di una nebbia sempre più densa, impiccioliscano, scompaiano dalla memoria delle moltitudini.

Napoleone, la sua sanguinosa e trista epopea, le catastrofi di Russia e di Germania, quell'avvicendarsi di avvenimenti che soltanto sette od otto decine d'anni fa mettevano a soqquadro l'Europa… e le nostre famiglie, che insidiavano gli averi di cui ora noi stessi godiamo e turbavano e scompigliavano gli amori dai quali i nostri padri sono nati, tutto non sembra – se ci pensiamo – appartenere ad un'altra epoca ben più remota?

La critica moderna «vergine di codardi oltraggi» ma implacabile nelle sue deduzioni positive, ha relegato «l'uomo fatale» tra i malinconici nefasti della storia, fra gli antichi maniaci per la guerra, violenti ed infelici: ed il feticismo che per lui nutrivano i suoi soldati, a noi almeno, appare come un caso diffuso di allucinazione morbosa delle moltitudini.

– Come mai? Donde tanta disparità del vivere e del sentire? – Io credo che tale enorme allontanamento dalla coscienza nostra di uomini e di cose storicamente vicine, non provenga tanto dai molti e varî casi intervenuti tra loro e noi, quanto dal velocissimo, anzi precipitoso cammino compiuto dalle idee in questo intervallo di tempo, che, se per sè medesimo è breve, relativamente alla importanza storica contiene la materia non di uno, ma di più secoli!

Ciò che non è d'oggi o di ieri è già per noi antico: tanto s'è slargato innanzi a noi il mondo, tanto volo abbiamo spiccato incontro all'avvenire! Le idee han soverchiato i fatti, han dato una nuova anima battagliera, feconda, a questo vecchio secolo pieno di esuberanze giovanili, hanno oramai tolto di mezzo quanto del passato poteva esser loro d'impaccio, e abbandonato negli avelli della storia tutto ciò che non era vivo e germogliante… come la calce sparsa sulle rovine di un disastro cela agli sguardi le macerie e i cadaveri insieme.

Ed è per ciò che debbono avere la acuta e perspicace pazienza degli archeologi, coloro che vanno frugando in un mondo pur così vicino a noi, e come gli archeologi debbono saper dar vita alle pietre e parole alle tombe e leggere tra le righe dei non ancora ingialliti documenti, e scrutare il senso riposto delle satire, delle caricature, delle canzoni, delle arguzie, delle tradizioni popolari: debbono svestirsi d'ogni propria passione politica, debbono cercare la luce vera che illuminava quei tempi e giudicare gli odii, e gli amori d'allora come gli odii e gli amori d'adesso, cioè come passioni umane, fallaci quindi ed ingiuste il più delle volte, torbide dispensatrici di fama… e d'infamia, non sempre meritata.

Questo non è cómpito per le mie forze, nè per i miei gusti. Io penso, invece, con intimo compiacimento d'artista che, mentre tutte quelle cose e quella gente ci appaiono così come se le guardassimo col canocchiale a rovescio, l'arte e gli artisti sono rimasti così vicini a noi, così nostri e del nostro tempo da indurre noi pure – imbevuti di tanto scetticismo! – in quella fede classica che vate chiamava il poeta, cioè veggente nell'avvenire, ed eterna proclamava l'arte, cioè immortale nei secoli.

Non è forse così? Mentre la logistica delle battaglie napoleoniche non interessa più che gli studiosi delle Accademie militari, al pari di quella delle campagne di Alessandro o di Giulio Cesare, e le bricconate di certi ministri del vicerè Eugenio, gli spionaggi ed il gabinetto nero, si confondono colle altre iniquità di palazzo del cardinale di Richelieu e il dominio dell'Austria rinnova le gesta di tutte le più antiche e sinistre tirannidi: ecco qui vive e parlanti, colle nostre idee, colle nostre ribellioni, le nostre speranze, gli stessi nostri sarcasmi, ecco qui le figure del Foscolo e di Carlo Porta, e col nostro stesso culto del vero, le tele dell'Appiani e del Canonica: ecco ripetersi, con esempi nuovi, l'amabile storia della giovinezza di Gioacchino Rossini, a cui la fortuna e le belle donne aprono le braccia e spianano la via; ecco rinnovarsi oggi tra idealisti e veristi, tra naturalisti e spiritualisti, quella vivace e multiforme polemica d'allora tra classici e romantici che, in fondo, preparava i germi a tutte le battaglie intellettuali dell'avvenire. I critici dicevano ottant'anni sono molta parte di quel che dicono adesso; e i gazzettieri – anche allora – insegnavano l'armonia al «signor Rossini», la chiarezza al capitano Foscolo, e al giovane autore del Carmagnola un po' di lingua italiana; e di questi, i più accaniti – erano forse i francesi! —

Ancora gl'impeti del Foscolo, noi li abbiamo nel cuore; e quante, quante volte la musa lepida, ed anche salace del Porta, non ci soccorre per irridere alle ipocrisie che oggigiorno tocchiamo con mano!

Il Foscolo ed il Porta – meno di tutti gli artisti di quell'epoca – sono invecchiati, perchè, in modo diverso, la loro poesia rispecchia ciò che in apparenza soltanto è mutevole, e rimane invece tal quale: «l'anima del popolo»; – l'uno ruggendo nelle prose concitate le sue imprecazioni contro gli autori d'ogni servaggio, o cantando nei versi grecamente armoniosi le illusioni e le delusioni dello spirito moderno; l'altro sintetizzando nella rima epigrammatica e tagliente l'umorismo formidabile che del popolo è un'arma, un conforto, ed uno sfogo ad un tempo.

Così l'arte del Foscolo e quella del Porta, come i tipi umani dei due poeti, ci appaiono unite con vincoli di fratellanza alla grande arte e ai grandi tipi delle epoche più remote; ed è perciò ch'essi sono tuttora modernissimi. Un soldato poeta, prode, ardito, cavalleresco, con qualche spacconata, pieno di debiti, di duelli, di amori, di gelosie turbolenti; ed un altro – un poeta cassiere – tutto arguzia, tutto malizia nella rima gioconda e così bonario nella vita semplice e prudente d'impiegato, sempre amico della giustizia, ma benanche del quieto vivere; – un ribelle, che dà al popolo la satira demolitrice di poteri e di tirannidi, ma che si tapperebbe in casa – gottoso e pieno d'acciacchi – ove nelle vie scoppiasse la sommossa… sono due tipi umani – sono due estri, per così dire, che in tutti i tempi le vicende hanno destato ed ispirato.

Ma il Foscolo, nella gravezza che incombeva sulla vita milanese in quel procelloso finire del Regno Italico, rappresenta anche l'irrequietudine dei presagî.

Dalle nebbie di Milano, fra le bieche congiure degli austriacanti, le paure dei napoleonici e i tentennamenti degli italici, egli anelava al bel sole di Toscana, alla luminosa villa di Bellosguardo ove gli erano fioriti sotto la penna i versi delle Grazie, nitidi e flessuosi come le forme divine scolpite dal Canova; anelava a questa Firenze dell'anima sua, sacra a lui per le memorie dei Grandi cantate nei Sepolcri, da Dante all'Alfieri, e insieme per indimenticabili dolcezze d'amore:

 
Per me cara, felice, inclita riva!..
Ove sovente i piè leggiadri mosse
Colei che, vera al portamento Diva,
In me volgeva sue luci beate,
Mentr'io sentìa dai crin d'oro commosse
Spirar ambrosia l'aure innamorate…
 
* * *

Era una specie di nostalgia pei tepori e i profumi che gli assaliva l'anima, una sete di parole italiane pronunciate dalle labbra delle donne fiorentine che tanta grazia aggiungono all'efficacia del perfetto dire… e non Voi, che di azzurro e di fragranze avete in ogni tempo dovizia, ma noi, di lassù, poveri inglesi d'Italia, possiamo comprendere le smanie del Foscolo per la vostra bella città. – Marmi e fiori, le memorie e l'eloquio, il serto delle colline, l'aria stessa che qui si respira, tutto ci attrae sino al dolore, e noi ricordiamo sino al rimpianto.

Qui da voi sorrideva, come sempre, amica fida, l'arte; da noi, in Lombardia, non si respirava che l'intrigo. Dico l'intrigo, non la politica. La politica vera era maneggiata dai sovrani, dai ministri, dagli ambasciatori; il resto, i sudditi, anche quelli delle classi sociali più elevate, non conoscevano altro che il pettegolezzo di società, le trame personali, ordite per interesse privato, per vizio senile, per passatempo.

Nell'esercito, e più nell'aristocrazia, si congiurava come si intavola un giuoco: erano ancora i cicisbei dell'arcadia belante che divenivano a un tratto cospiratori tra le gonne della dama servita.

Rancori, invidie, gelosie di corte o d'alcova; e ognuno aveva pronto il suo re, per diventarne il vicerè.

Trista politica di corridoio e d'anticamera, sospettosa, cupida, procacciante, che pur preparava la ruina della patria prima ancora che nei fatti, negli animi, dove la grande idealità dell'Italia unita, libera, indipendente non s'era accesa ancora a illuminare, come avvenne più tardi, anche i giorni squallidi della schiavitù, a confortare i migliori, a compensarli d'ogni sacrificio, a irradiare per essi anche le segrete delle prigioni e le forche drizzate ad attenderli.

 

Che poteva mai l'arte in tanta miseria spirituale? Non l'arte del pensiero, ma quella dei sensi e della furberia era in onore presso il volgo patrizio e plebeo! Gli scherni, si dispensavano in egual misura al Foscolo «matto infido» e al Monti «cortigiano pagato».

Giorni egualmente tristi s'annunziavano ai due grandi poeti, che erano da amici divenuti irreconciliabili; e veramente quanto diversi nell'arte e nella vita! E per ciò, come già tra il Foscolo e il Porta, così tra il Foscolo e il Monti dovrebbe riuscire il raffronto attraente e curioso allo spirito indagatore.

Il Foscolo, non sempre buono e probo nella vita privata, aveva pur sempre espresso ne' suoi scritti la grande anima italiana, sdegnosa di padroni vecchi e nuovi, assorta in una virile idea di libertà classica insieme e moderna; ed ora, al cadere della fortuna napoleonica, passava non curato in mezzo agli armeggioni e agli opportunisti, dai quali al ritorno dell'Austria doveva separarsi per sempre, esulando lontano con l'anima ferita, ma altera e sicura. – Il Monti buono, troppo buono, e nella sua mutabilità intimamente onesto, aveva cantato prima il trono e l'altare, poi il fanatismo giacobino, poi la libertà italica, poi l'onnipotenza di Napoleone – il Giove Massimo – il Dio Terreno; e con la gloria di Napoleone vedeva cadere la sua, sentiva fors'anco l'amarezza di essere considerato dagli intriganti e dai faccendieri come un adulatore venale che, per opportunità o per interesse, avrebbe seguitato a cantare per i vincitori d'oggi… i dominatori del domani.

* * *

A Milano, nella capitale del Regno agonizzante, non si congiurava che per mutar di padrone. Pareva ad alcuni – ai migliori forse – che una parte di ciò che allora si diceva «la gloria di Napoleone» toccasse di riverbero ai Lombardi: e ci tenevano, e non si ribellavano ancora all'orgoglio e all'egoismo feroce di lui: invece, tentavano ridestare intorno al suo nome gli entusiasmi svaniti. E tra questi il duca Melzi – l'ex presidente della Repubblica Italiana, e allora, del Regno Italico, presidente del Consiglio dei Ministri – e col duca Melzi, il conte Giuseppe Prina.

E il Melzi e il Prina erano fautori di Napoleone e dei Napoleonidi… chi sa?.. anche per un primo barlume di quell'Italia, ch'era forse ancora più nella mente che nel cuore dei due uomini di Stato; che, ancora, era forse… un concetto politico, un regno, più che una nazione; quell'Italia, a cui già mirava, cupidamente, l'orgoglio sfrenato del Murat, e alla quale occhieggiava, come con una ballerina della Scala, la bramosia senile, la vanità eroicomica del divisionario Pino. Ma se qualche magnanimo illuso, o qualche insoddisfatto avventuriero poteva unirsi al Murat, disertore di Napoleone; se nelle chiassose e allegre adunanze dell'Albergo del Gallo, le vecchie mercantesse e gli strozzini inneggiavano col barbèra e col barolo «al generale Pino re d'Italia», chi mai poteva seguire il Melzi e il Prina, i due bigotti dell'Impero, i due compari del Vicerè?

Chi poteva seguirli?.. Chi del popolo, specialmente?

Non vi era quasi famiglia nella quale le ecatombe di Russia e di Germania non avessero lasciato un lutto o rimandato un infermo; le donne più ancora, madri, spose, sorelle, non si rassegnavano a tanta… seminagione di dolori, di cui non vedevano lo scopo, mentre fra gli uomini, essa poteva trovar pretesto nello spirito militare ritemprato e fatto consuetudine e nella smania politicante.

Nei ceti più umili delle città e fra le plebi delle campagne, sbollita l'ubbriacatura dei grandi avvenimenti, dell'imprevisto, delle teatrali partenze delle truppe e l'ansia dell'attendere e del commentare le notizie della guerra, era subentrato lo sconforto amaro, profondo, del danno patito, delle braccia mancanti, dei cari morti e perduti nei gorghi dei fiumi gelati e sotto le nevi delle steppe… La fantasia popolare rievocava quei quadri di battaglie sfrondandoli d'ogni epica attrattiva, ne aumentava, se pure era possibile, l'orrore, e un grande sentimento d'odio dilagava nelle anime contro coloro che si erano gravata la coscienza di tanto lutto, di tanta desolazione, di tanta miseria.

Oh, la miseria!.. Si faceva di giorno in giorno più cruda, più feroce.

I signori, i ricchi, ammaestrati dai casi, non pensavano che a difendere i redditi; a nessuno veniva in mente di arrischiare un po' di danaro per dar lavoro ai poveri, in qualunque industria, che un disperato tentativo di Napoleone e delle potenze avrebbe buttato all'aria.

Mancava il lavoro, mancava il pane; turbe di poveri, di pezzenti, di oziosi, mendicavano alle porte dei presbiterî, delle scarse locande, dei palazzi, degli uffici pubblici; e in quegli stomachi vuoti si preparava l'urlo della rivolta.

E tanta e così grande miseria era poi esacerbata, invelenita, giorno per giorno, dalle rapacità del fisco. I balzelli e le tasse più odiose crescevano di numero e di gravezza.

Anche il poco che non rappresentava il diritto di non languire per l'inedia, destava le ingordigie del fisco, veniva insidiato, carpito, portato via con atti esecutivi, che costituivano un succedersi di ignobili rapine, larvate di legalità e compiute colla forza del governo.

Naturalmente, dalle furfanterie dei soldati e dei finanzieri, prendevano audacia i birbanti, per così dire, spiccioli: il malandrinaggio era ancora… una professione! In mancanza del guadagno offriva almeno la promessa, in quella scarsità di pane, di un pane in galera; e mai come allora, gli stradali di Lombardia furono infestati da tanta e così feroce canaglia.

Eugenio Beauharnais, il figlio dell'imperatrice Giuseppina, era il Vicerè di questo povero paese. Strana e melanconica figura!

Un altro cittadino, creato sovrano da Napoleone e che da principe non ha saputo fare nè il bene nè il male, per cui i principi, talvolta, affrettano le soluzioni della storia.

Il Romagnosi parla del vicerè Eugenio come di un uomo mal conosciuto, di retti sentimenti, ma non così saldo, da non lasciarsi sviare fra gli intrighi del tempo, ed abbagliare da quell'altra peste, pure del tempo, la vanità militare.

Dopo la campagna del 1813, i principi confederati gli avevano promesso il Regno d'Italia, purchè avesse vôlte le armi contro l'Imperatore; ma egli fedele e riconoscente, aveva respinto le blandizie: e di ciò chi mai vorrebbe biasimarlo?

Poi, Napoleone gli aveva ingiunto di abbandonare l'Italia e di ridursi in Francia, colle sue truppe. Eugenio gli dimostrò che queste lo avrebbero abbandonato, ma – come sottilmente nota il De Castro – non seppe nè riaffermarsi virilmente per lui, nè separarsene per unirsi alle potenze alleate, nè prendere il partito più giudizioso e più generoso ad un tempo, quello, cioè, di sposare francamente, lui del popolo, la causa dei popoli e farsi ad un tempo loro capo e difensore.

Il 22 novembre 1813, al principe La Tour e Taxis che nel villaggio di San Michele, fra Vicenza e Verona, gli rinnuovava l'offerta del trono purchè si unisse alla Santa Alleanza, Eugenio rispondeva collo stesso rifiuto dato pochi dì innanzi ad una deputazione del Senato che gli proponeva di organizzare un moto in Milano per proclamarlo re.

«Non si può negare – esclamava colle lacrime nella voce, per il ricordo dei propri figli – non si può negare che la stella dell'Imperatore non cominci a impallidire… Ma per coloro che furono da lui beneficati, è una ragione di più per serbarsi fedeli».

Questa è storia, una pagina di storia umana più che politica. Apprezzò Napoleone la devozione di quella resistenza, devozione tanto più grande, dopo che egli aveva ferito nel Beauharnais il cuore del figlio e gli interessi del principe, ripudiandone la madre?.. Chi lo sa?

Certo il Beauharnais fu compreso da una donna, dalla moglie: la viceregina Amalia Augusta di Baviera, che merita un posto a parte nella storia di quell'epoca, e fra la gente di quel tempo un posto d'onore.

Nella storia, perchè certo essa ha molto contribuito col suo consiglio, colla modesta prudenza e colla semplicità affettuosa, alla condotta leale del Beauharnais, risparmiando guerre, non di popoli, ma di interessi dinastici.

Il posto d'onore fra le genti di quel tempo le spetta, perchè si conservò virtuosa moglie e buona madre, in mezzo al dilagare di una corruzione e di una licenza, più ipocrita forse, ma più profonda di quella del Direttorio.

Qual era, in fatti, questa società?..

La moda era impudica nelle sue fogge scollate, aderenti, accarezzanti le forme: curioso il battesimo ai colori del momento: o nomi feroci come: il color «dei cosacchi spaventati», oppure erotici, come: il color «sospiro di vergine», il color «grido di sposa», il color «baciami in bocca» ed altri ed altri che non è decente ricordare, ma che si possono leggere sfogliando la raccolta del Corriere delle Dame.

Taceremo i nomi e le gesta: solo ricorderemo che le gentildonne più eccelse… e più belle, si travestivano da ussaro o da dragone nelle scappate coi loro amanti, ufficiali, tenori… ed anche mimi, e al teatro della Scala, durante lo spettacolo, molte volte, a metà della conversazione fra dama e cavaliere, venivano calate le tendine del palchetto.

Nei varî partiti politici, erano pur implicate anche le donne e congiuravano insieme contro tutti i poteri… e tradivano insieme tutte le fedeltà… politiche e coniugali.

E le vecchie dame, bigotte del partito austriaco? Esse, immemori delle sregolatezze di Leopoldo II, si scandalizzavano per il libertinaggio del principe Eugenio e di tutti gli esecrati Franciosi, com'esse li chiamavano a denti stretti; ma ricordavano forse col confessore, l'abatino profumato e galante del settecento.

Oh voi leggiadra e virtuosa Viceregina, dal cuore nobile e dall'intelligenza onesta, come risplendete di luce soave, di una giovinezza intatta in mezzo a questa vecchia società intrigante e venale, corrotta e corruttrice, che pareva dissolversi nel vizio.

Il principe Eugenio non ebbe certo immeritata la taccia di donnaiuolo; certo non mancavano per colpa sua i mariti offesi… e non abbastanza ricompensati con adeguate cariche a corte – nei varî partiti che più lo combattevano; pure si direbbe che… modernamente conciliasse i teneri e facili errori, con un affetto vero e sentito per la sua dolce compagna.

Le scriveva dal Tirolo, rimandando a Milano uno de' suoi scudieri che stava per prender moglie: «… pensa, mia buona Augusta, che il tuo fedele sposo non potrebbe amarti di più. Rinvio il Battaglia, che morrebbe se qui lo tenessi; è così smanioso d'ammogliarsi, che non dorme più. Gli auguro la felicità anelata: ma il matrimonio è una lotteria, nella quale non tutti, al pari di me, estraggono un numero alto.»

Come però egli fosse amato, profondamente, santamente amato da lei, che il Foscolo disse:

 
… bella fra tutte
Figlie di regi e agli immortali amica:
 

lo prova, fra le molte, una lettera scritta dalla Viceregina al principe Eugenio, in un giorno fra i più infelici della loro vita.

«… La notizia del divorzio mi addolora – sempre il divorzio di Napoleone da Giuseppina – e tanto più soffro prevedendo la triste tua posizione e la gioia di coloro che ci fanno tanto male. Ma non arriveranno mai a ciò che agognano, non potendo toglierti una riputazione senza macchia, ed una coscienza senza rimorsi. Tu non hai meritata cotesta sventura, e lo dico nel supposto che altre ne sovrastino. Io vi sono preparata, e nulla rimpiangerò purchè mi resti l'amor tuo, felice di provarti che t'amo per te solo. Cancellati dalla lista dei grandi, c'inscriveranno su quella dei felici: non val meglio? Non scrivo alla tua povera madre; che potrei dirle? Assicurala del mio rispetto e della mia tenerezza. L'avviso del tuo sollecito ritorno mi allevia e impaziente l'aspetto. Eugenio! il mio coraggio eguaglia il tuo, e voglio provarti che sono degna d'esserti moglie. Addio, caro amico; credi alla tenerezza che ti serberò fino all'ultima ora della mia vita.»

Ma certo l'uomo del momento non era il Beauharnais, non era il principe, il marito… che nel consenso della dolce compagna trovava il premio migliore alla rinuncia del trono.

Ben altrimenti del Beauharnais, pensava e operava di lontano Gioachino Murat, che si sottraeva al duro giogo del cognato, pur di giungere alle audaci sue mire: fare un'Italia per farla sua.

L'aura popolare, il favore dei poeti, le speranze dei Carbonari erano per lui che parlava del «riscatto d'Italia,» ed aderenti ne aveva anche in Milano; fra gli altri il capo della Polizia conte Luini, il generale Giuseppe Lechi, e quell'altro generale di Napoleone, il Pino, che per sè solo vorrebbe, nonchè un discorso, una monografia, un volume, tanto appare stoffa bizzarra di soldato, di avventuriero… e di affarista.

 

Il Vicerè, gramo conoscitore d'uomini, se n'era fatto un nemico implacato e subdolo, relegando il suo orgoglio in un meschino presidio della Romagna.

Riuscito il Pino a tornare a Milano, si diede, per vendicarsi, anima e corpo al re di Napoli; e benchè provvisto, in mezzo alla generale miseria, di uno stipendio di 145 mila franchi all'anno, si attaccava come un polipo alle casse dello Stato, e pur brigando e congiurando contro il Vicerè, lo tempestava di richieste di fondi, di sussidi, di anticipazioni, di gratificazioni, e prostituiva la sua bella fama di soldato valoroso alla più ignobile avidità di danaro, ch'egli poi malamente profondeva al giuoco e colle donne.

Tuttavia, e forse, anche per ciò, era popolare: la moltitudine non vedeva in lui che l'eroe vincitore della Pomerania, della Spagna, della Russia; pareva alla gente che quel bell'uomo che sfoggiava teatralmente la divisa e le decorazioni, potesse essere anche un buon sovrano e «Viva Pino re d'Italia!» si ripeteva nelle conventicole dei mestatori, nelle osterie, per le piazze.

E il Pino, ringalluzzito, cominciava a ingannare anche il Murat dopo il Beauharnais, e lasciava gridare, e lasciava fare… Perchè no? «Viva Pino re d'Italia» ripeteva in cuor suo. – Perchè no? – e così, prima blandito e adescato, poi, spiato e raggirato, cascava nelle trappole di quella parte dell'aristocrazia che aspettava coi desiderî, coi brogli e cogli imbrogli, l'avvento dell'Austria, e vedeva nel generale Pino, non già un re, neppure da palcoscenico, ma uno strumento per le sue stesse debolezze prezioso.

Solo il popolo, il popolino malaccorto, poteva credere ancora a quella pazza fortuna dei generali napoleonici, che dalle più umili origini erano saliti, per la via dell'armi, ai troni. A quei generali, a quei marescialli, venuti su dal nulla, tutto era stato possibile. Ma questo appunto non voleva la vecchia nobiltà, piena di sprezzo e di astio contro tutti quegli avventurieri, che le avevano tolto la sua vecchia supremazia – non solo non voleva ch'essi fossero gli eredi del loro autore, ma con la caduta di lui voleva sparissero anche gli strumenti della sua potenza, quei chiassosi affascinatori del popolo, che già troppo lungamente avevano sconvolte le cose d'Italia.

Frattanto, Austriaci e Inglesi s'inoltravano nel Veneto, nella Romagna, in Toscana; si avanzavano i Napoletani con non ben definite intenzioni. Il Vicerè dirigeva ai sudditi vibrati proclami, scongiurandoli a stringersi intorno alla sua insegna: «Onore e fedeltà» e il dì 8 febbraio 1814, avanzando da Mantova e da Peschiera, batteva gli Austriaci.

Il piccolo esercito italiano, mentre tutto rovinava intorno al colosso napoleonico, impavido ed incorruttibile, gli dava l'illusione di saper vincere ancora d'oltralpe.

* * *

Firmato l'armistizio del 16 aprile 1814, rimpatriate le truppe francesi, il Beauharnais si trovò in Milano, in mezzo ai politicanti che lo odiavano, come sopra un terreno minato.

I varî partiti, quello degli italici, degli austriacanti, dei murattiani, si univano non solo nelle congiure per rovesciare il Vicerè, ma nelle calunnie per diffamarlo, per renderlo inviso, odiato.

Dice un cronista che «le genti pie o di austere massime non entravano nel palazzo del Vicerè senza provare un segreto raccapriccio; chè di bocca in bocca correvano novelle di donne sedotte, di mariti di padri maltrattati ed anche uccisi.» E si narrava che, per ordine del Vicerè, fosse stata fucilata una guardia d'onore per aver pensato alla diserzione; che fossero stati torturati con cinquanta colpi di bastone al giorno, per un mese di seguito, i condannati ai lavori forzati nelle prigioni di Mantova.

I nobili soffiavano nel fuoco, e aizzavano l'odio del popolo anche contro i ministri, tre dei quali specialmente invisi, perchè non milanesi: il Prina di Novara, il Paradisi di Modena e il Vaccari di Bologna.

Altro uomo odiatissimo era il segretario del Vicerè, conte Méjean, naturalizzato italiano, un napoleonista cieco e oggetto del livore universale: più ancora di lui quel Darnay, che dal gabinetto del Principe era passato alla direzione generale delle Poste, e, ignobilmente, aveva ridotto il pubblico servizio ad un'insidia quotidiana di polizia, violando, sopprimendo, disperdendo le lettere.

Le gesta di questo osceno – è proprio la parola – di questo osceno gabinetto nero, oltrechè d'orrore a tutti i cittadini onesti e pacifici, tornavano di grave danno ai commercianti, già esasperati per le difficoltà create dal blocco continentale e stremati di forze dai balzelli; sicchè, tutt'insieme, non si respirava che fiele e vendetta.

I fallimenti erano incessanti e disastrosi e… scandalosi, quasi come adesso; e ciò, mentre le campagne, come ho già detto, erano infestate dai malandrini e dai mendicanti, e le città divise fra chi osava imprecare apertamente all'Imperatore e i più furbi che, pensando potesse egli tornare alla strapotenza di prima, si rammaricavano che gli alleati avessero passato il Reno.

Le caricature e i giuochi di parole esprimevano gli umori del tempo. Il citato De Castro ricorda una stampa che rappresentava il padrone del mondo con quattro enormi gozzi, sopra ognuno dei quali erano le lettere componenti la parola Sire; le iniziali delle quattro nazioni: Spagna, Italia, Russia, Egitto, ch'egli aveva voluto ingoiare, e che gli erano rimaste in gola.

Così la parola di moda era quella che doveva tornare in voga, colla tragica desinenza in ismo, presso i rivoluzionari della Russia contemporanea: la parola Nihil, e questo solo perchè le sue cinque lettere erano le iniziali dei nomi latini di cinque re detronizzati o che stavano per esserlo, cioè: Napoleone, Joseph, Hieronimus, Joachim, Ludovicus.

Le colpe della Francia, gli eccessi del liberticida, dello sterminatore, favorivano la riscossa della vecchia Europa, preparavano la ristorazione del vecchio regime, davano un colore di novità preziosa e desiderabile a tutto ciò che, sotto le parvenze di un ordine riparatore, pur celava le cupidigie grette e crudeli della reazione secolare.

In quei giorni, cogli alleati alle porte e mentre il Senato convocavasi pel 17 aprile, per offrire la corona al Beauharnais, aumentavano le irrequietudini di un partito che si era dato un bel nome: quello degli Italici puri, ma che mancava di un vero e buon programma… forse perchè italici, a quei tempi, non voleva ancor dire italiani.

Di questa fazione facevano parte uomini di non comune levatura, che si radunavano presso un noto avvocato, oriundo valtellinese, il Traversi, la cui moglie avida, intrigante, stizzosa contro la corte, a lei preclusa, aiutava il marito, vecchio ed astuto mestatore d'affari, volgare d'animo come d'ingegno.

In quelle sale, ove si voleva ad ogni costo un re italiano, ma dove, in attesa di inventarne uno, inconsciamente forse, si faceva il giuoco dell'Austria, bazzicavano i Bossi, i Cicogna, i Durini, i Fagnani, i Balabio, i Silva, Carlo Castiglioni, Luigi Porro e più raramente, perchè si teneva in disparte, Carlo Verri. E capo e despota di questo partito, voleva farsi anche l'aristocratico, l'altiero e il liberale – liberale d'idee, non di abitudini – Federigo Confalonieri, del quale conte Confalonieri, si diceva altresì che odiasse il Vicerè, perchè questi aveva osato ammirare oltre il segno la sua bellissima e castissima sposa.

Ed altre e ben meschine gelosiucce, altri ancor più bassi risentimenti, come per gradi e cariche non ottenute a corte e concesse invece ad ufficiali, erano forse le più gravi cagioni d'inimicizia contro il Beauharnais, specie nei giovani patrizi, fautori di una nuova dinastia, colla quale, più proficuamente, venire a patti. Volevano un altro padrone: o il re del Piemonte, o il re di Napoli, o il general Pino, o un patrizio lombardo d'alto nome, o alla peggio anche un re straniero.

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