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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I

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Non mancavano i candidati di fuori: si parlava, ad esempio – tanto è grottesca la politica, veduta da lontano – del duca di Chiarenza, uno dei dodici figli del re Giorgio III d'Inghilterra; con che gli Italiani si sarebbero assicurata la protezione di lord Castlereagh, che a quei giorni faceva la pioggia e il sereno nell'orizzonte diplomatico d'Europa. – Tale era il funesto effetto della dominazione napoleonica, sorta con la fortuna e con la violenza di un uomo, che, al suo declinare, tutte le ambizioni pazzamente si sfrenavano in un campo rimasto vuoto a un tratto, e quasi in balìa di un nuovo fortunato occupante.

È facile immaginare come in un ambiente simile, fra tante correnti diverse, con tanti interessi in giuoco, trovassero la loro cuccagna gli agenti segreti, i provocatori, gli imbroglioni politici, le spie, specialmente austriache e inglesi!

L'Austria, però, aveva per sè, in Milano, fautori assai più abili ed efficaci dei soliti arnesi di polizia. Un tristo miscuglio di odii e di vendette contro il Beauharnais, e in genere contro la Francia, di ambizioni e di cupidigie personali, di servile ed ostinata devozione all'Austria, moveva a congiurare in favor suo gente formidabile per astuzia e malvagità.

Il posto d'onore tocca al marchese Filippo Ghislieri di Bologna, già consigliere aulico di Francesco I, poi relegato a Mantova, come spia austriaca, poi liberato dal Beauharnais: uomo turbolento, il quale da anni covava nell'animo, e sapeva celarla a tempo, la smania di riafferrare colla restaurazione dell'Austria, le ricchezze e gli onori perduti; abile parlatore, elegante, sarcastico, capace di tutto pur di riuscire.

Dopo la parte trista avuta negli eventi a cui siamo arrivati, un'altra ancor più trista egli doveva avere di poi, nel processo politico per cui furono condannati il celebre medico Rasori, il generale De Maister, i colonnelli Gasparinetti, Moretti ed altri, prime vittime dell'Austria rifatta padrona; e in fine dai padroni stessi disprezzato e gittato in un canto, doveva vestire l'abito fratesco, per morire in pochi mesi, dilaniato dai rimorsi.

Il Ghislieri era di nascosto a Milano, a riannodare – vestito ora da frate, or da contadino, or da giocoliere… persino da donna! – i vecchi intrighi col conte Gambarana, col Mellerio, con Alfonso Castiglioni, intrinseco suo, e cogli altri sfegatati austriacanti, o, come erano detti, materialoni; e in quegli stessi giorni giungevano da Mantova il Vaccari e il Méjean per indurre il Senato a proclamare re il Beauharnais. Ma il conte Dandolo, al Senato appunto, presentava un decreto, il quale, anzichè l'offerta della Corona, conteneva per Eugenio una specie di benservito, e invano tentavano di opporvisi il Vaccari e gli altri Eugenisti e lo stesso ministro Prina.

Durante il 17 e il 18 aprile tutti a Milano si chiedevano: Che farà il Vicerè? Che cosa farà l'esercito? E l'Austria? E gli alleati?

Agli angoli delle vie si leggeva: «Non re chi, vicerè d'Italia, sprezza e spoglia.»

Al Municipio, uomini di tutti i partiti, firmavano in odio ai francesi, una richiesta di convocazione dei collegi elettorali. V'erano i nomi del Pino e dei più noti fra gli italici puri, quelli di molti austriacanti, dell'anglomane Trecchi, dello stesso podestà Durini e altri già insigni nelle arti e nelle lettere: il Cagnola, il Monteggia, il Rosmini – Carlo Porta e Alessandro Manzoni.

Il Melzi – povero duca di Lodi! – era inchiodato in casa dalla gotta, e anche di ciò gli austriacanti gongolavano.

Grave e controversa è una circostanza di quei giorni, che verrebbe a cumulare sovra persone irradiate più tardi dalla luce del patriottismo, la grave, la dolorosa responsabilità della vergogna incombente.

Voglio dire gli accordi che sarebbero intervenuti prima in casa della letterata Bianca Mileti, poi in quella del consigliere Freganeschi, tra il Gambarana da una parte e il Confalonieri, il Porro, il Botti, il Ciani ed altri italici, dall'altra.

Se si pensa che cosa meditassero e affrettassero il Gambarana e il Ghislieri e il Traversi, la loro comunanza coi patrizi riesce profondamente amara, rattristante.

Due dei loro emissari, un tal Fontana e un sinistro figuro, il Tencino, stavano raccogliendo nel contado, specialmente nel Novarese e nella Lomellina, la feccia dei malfattori: l'assoldavano regolarmente, con mercede fissa – sei lire italiane al giorno per ogni collo da forca, e assicurazione di cibo e di vino. I patti?

Trovarsi tutti in Milano la notte del 19 aprile e la giornata seguente: – Ci sarebbe stato da fare! —

Gli italici avevano apparecchiato una delle solite «dimostrazioni» contro il Senato: or bene, quella feccia di malfattori, quella marmaglia, avida di stragi, d'anarchia e di rapine, doveva a mano a mano ingrossare il gruppo dei Signori; doveva a mano a mano mutare la chiassata in tumulto, il tumulto in rivoluzione… rivoluzione che avrebbe costretto il generale Neipperg, comandante l'avanguardia dell'esercito austriaco, ad entrare in Milano, per ristabilirvi l'ordine… e una volta entrato poi… anche a rimanervi, per mantenerlo!

Che orribile giornata quella del 20 aprile 1814! II cielo buio, caliginoso, la pioggia diaccia e fitta.

Prima ancora del mezzogiorno, intorno al Palazzo del Senato, si formavano capannelli di persone, per lo più ben vestite, che discutevano in tono iracondo, sfidando il maltempo che infuriava, sotto la tettoia mobile e sgocciolante degli ombrelli aperti, sbattuti dal vento.

Si aggiravano tra i gruppi parecchi nobili: – il conte Federigo Confalonieri, il Serbelloni, il Durini, il Silva, il ciambellano e consigliere di Stato Fagnani, e non pochi ufficiali della guardia civica.

«A misura che giungono le carrozze dei Senatori» narra il Verri, «qualcuno del gruppo salendo su di una scala tenuta in mano da un uomo d'alta statura, s'affacciava allo sportello gridando il nome del Senatore, e scoppiavano urli plebei e fischi contro quelli che nella seduta del 17 avevano sostenuto il Vicerè.» Si seppe poi esser colui il domestico d'un patrizio di parte austriaca.

E il Verri continua a narrare di essere stato egli stesso assai «plaudito» mentre infilava il portone del palazzo e d'aver udito, insistente, la domanda di convocazione dei collegi elettorali.

Non v'era a custodia del Senato che un picchetto di dragoni: della truppa, comandata dal generale Pino, nè allora presso il Senato, nè dipoi, durante l'imperversare del tumulto, nessuna notizia!

La soggezione del Pino a quei medesimi cospiratori che avevano assoldato i sinistri eroi della giornata, non avrebbe potuto apparire, nè più patente, nè più vergognosa.

Mentre il capitano Benigno Bossi, ammesso nell'aula, si offriva colla propria guardia civica a custodia del Senato, e i Senatori, per quanto non tutti compresi della gravità del momento, acconsentivano, la folla, col pretesto di volersi riparare dalla pioggia sotto i portici del cortile, vi irrompe, disarmando i dragoni che invano tentano opporvisi; spezza loro le spade, strappa loro la lettera N dalle divise e dagli elmi e prorompe in grida minacciose: «Non più francesi! Non più Vicerè! Costituzione! Indipendenza!»

I Senatori, intimoriti, sospendono la seduta, e il Verri si affaccia alla soglia per arringare la folla. «Ma quale non fu la mia sorpresa» – lasciamogli la parola – «nello scorgere totalmente mutata la qualità delle persone ivi affollate: al mio arrivo erano tutti cittadini nobili o almeno civili, colle loro ombrelle; invece vi trovai una sessantina d'individui del basso popolo, tutti a me sconosciuti. Chiesi più volte chi mi conoscesse, e pregai che qualcuno si avanzasse esponendo cosa volevasi. Ma fu inutile: la folla rimase immobile e muta: vidi figure che nulla presagivano di bene, bensì saccheggio e rapina.»

Saccheggio, rapina e strage! E la vittima era già designata nel ministro Prina.

II conte Giuseppe Prina, nato a Novara il 19 luglio 1766, da nobile famiglia, aveva studiato a Monza, nel collegio dei Barnabiti, poi all'università di Pavia, ove s'era laureato. A 25 anni era ministro delle dissestate finanze di Carlo Emanuele II e nel 1798 rinunciava nobilmente al potere per non emanare un decreto fraudolento col quale si voleva far perdere alla carta monetata due terzi del suo valore nominale.

Quintino Sella, Giovanni Lanza, Marco Minghetti e Silvio Spaventa sembrano usciti dallo stesso ceppo dell'onesto ministro del primo regno italico.

Nominato podestà da' suoi concittadini, nei Comizi di Lione parla con molto senno e si offre con molta abilità: Napoleone col suo occhio d'aquila, vede in lui il ministro delle finanze che gli occorre, e lo addita, senz'altro, al duca Melzi.

Sebbene affranto dal faticosissimo riordinamento delle finanze della Repubblica italiana, il Prina accetta, e co' suoi metodi di esazione e di contabilità, colle imposte indirette e con altri spedienti della sua mente fiscale operosissima, dà al Regno Italico una forza finanziaria non prima conosciuta: triplica l'esportazione dei grani, diffonde l'insegnamento dell'agricoltura, crea a Milano la Manifattura dei tabacchi, fa della Zecca una delle migliori d'Europa, vi annette un museo numismatico ancora invidiato e riesce a gittare per anni e anni milioni e milioni nelle insaziabili fauci napoleoniche, senza arricchire d'un soldo sè stesso, ma stremando, taglieggiando spietatamente il popolo, accumulando un'infinità di dolori, di lacrime, di odii.

Se codest'uomo non si fosse dato anima e corpo, colla sua piena, cieca, cocciuta devozione di piemontese e di impiegato, a Napoleone; se avesse saputo por freno alla libidine di danaro del despota, non avrebbe avuto d'uopo d'incrudelire contro i poveri con una specie d'incoscienza che si può spiegare, ma non scusare; e l'opera sua di rinnovamento economico, gli avrebbe assicurata in Lombardia la celebrità che sfida il tempo: quella della gratitudine.

 

Semplice in mezzo agli onori, incorruttibile nella sua amministrazione, probo sino allo scrupolo, vivace e cortese a Corte, dolce e virtuoso nella vita privata, appariva gelido, spietato, quale ministro.

Non seppe far altro che spremere danaro per l'Imperatore; e l'Austria, inconsapevole, lo scelse a farne il primo martire – cronologicamente – del risorgimento italiano.

Ch'egli fosse vittima designata a prezzolati sicarî, lo prova anche la prima circostanza che ci si riaffaccia, riprendendo la lugubre cronaca del 20 di aprile.

La turba ingrossata, anzichè occuparsi dei Senatori, che votata in fretta e in furia la riunione dei collegi elettorali, fuggivano lividi e tremanti, cominciò a gridare, con voce minacciosa, il nome del Prina.

Carlo Verri invano rispondeva a quelle torve figure, che il Prina non era al Senato. Il popolaccio, e alcuni signori – dicono anche qualche ufficiale austriaco travestito – invadono le aule, circondano, minacciando, il presidente Veneri, rimasto imperterrito: uno dei nobili – il Verri, lo indica con le sole iniziali – «fu il primo a scagliarsi contro il ritratto di Napoleone dipinto dall'Appiani, lo forò coll'ombrello e gittollo dalla finestra.» Il Confalonieri cui l'atto venne specialmente imputato, smentì poi di averlo commesso, in una lettera a stampa. Intanto il maggior numero dei tumultuanti davasi a saccheggiare, a distruggere: strappava e disperdeva carte, documenti, registri, scagliava i mobili, i tappeti, le librerie nella strada, e ripeteva come un ruggito sempre più spaventoso il grido, imposto da alcuni, e che molti altri avevano certo nel cuore: Morte al Prina! Vogliamo il Prina! Morte al boia della carta bollata!

Le grida, le imprecazioni feroci, gli urli di morte si fanno tremendi, fra il rintronare di colpi incessanti per abbattere la porta del palazzo dell'odiato ministro, che un cocchiere era stato in tempo a chiudere. Già da mesi, cartelli satirici si trovavano affissi di nottetempo ai muri di quella casa: «Da affittarsi: recapito dal dottor Scappa.» E altrove: «Prina, Prina, il giorno s'avvicina!»

E il Prina sapeva che si era detto di voler far la festa ai tre P delle finanze; cioè a lui, e a' suoi due segretari Pavesi e Pioltini. Durante le sue passeggiate a cavallo per le vie della città – narra il Cusani – era stato insultato, minacciato, ed anche gli era stato consegnato un biglietto anonimo, nel quale si avvertiva di lasciar tosto Milano, se voleva aver salva la vita.

Convinto dell'opera sua, testardo, tempra in fondo di buon granatiere, Giuseppe Prina di tutto ciò non si era curato: ed anche la mattina del 20, a chi lo scongiurava di sottrarsi al furore popolare, rispondeva ostinatamente: «I saria nen piemonteis!»

La porta non resse a lungo: già coloro che capitanavano la masnada salivano le scale… e il Prina, cui l'imminenza del pericolo aveva ridato l'istinto della conservazione, febbrilmente cominciò a travestirsi, poi si celò nel caminetto di una stanza appartata…

La turba irrompe: pone tutto a soqquadro: sfonda cassettoni e armadi, agguanta gli arredi e il poco danaro. No, no!.. non ci sono i tesori che il volgo diceva da lui rubati e accumulati!

Anche molte carte e documenti sono sottratti, e questi – credesi con ragione – non dalla plebaglia acciecata, ma da chi fra essa aveva ordini e istruzioni speciali.

Fu notato un tale, che corse senz'altro allo scrittoio del ministro; ne forzò il cassetto, ghermì un plico di carte e disparve.

E mentre il turpe saccheggio infuriava nell'appartamento, altra gente sui terrazzi e sui tetti cominciava a demolire letteralmente la casa; e la demolizione «fu compiuta poi nella notte e il dì dopo, da persone che parevano del mestiere e che rivelarono più tardi di essere state pagate.»

Il conte Giovio, tra i pochi accorsi per salvare l'infelice ministro, fu minacciato e insultato da uomini «cui era sul volto l'indizio dell'ordinato delitto» e frattanto nè Giacomo Luini, capo della polizia, nè il generale Pino, comandante del presidio, si fecero vivi. Anzi, l'aiutante del generale, Luigi Cima, al capitano della guardia civica, Bosisio, che con pochi soldati moveva verso il luogo del saccheggio, intimava di ritirarsi in Castello.

La giornata doveva essere tutta dei sicarî chiamati a Milano per affrettare all'Austria il cómpito di ristabilire l'ordine sanguinosamente turbato.

Soltanto verso le 4 del pomeriggio, il Pino fece una delle sue teatrali comparse in grande uniforme.

Ad un invito perentorio del podestà, finiti appena di intascare altri 50,000 franchi di gratificazione estorti nella mattinata al Vicerè, il vecchio sciagurato si recò alla casa del Prina, si aprì il passo tra la folla furibonda, ne raccolse scherni e minacce, quantunque sfoggiasse la Corona ferrea e la coccarda italiana; e siccome un servo tremando e baciandogli le mani, gli ripetè che il Prina non era nella casa, se ne ritornò come era venuto, lasciando che la masnada sitibonda di sangue continuasse a frugare in ogni camera, fin nelle soffitte.

Corrono versioni disparate, intorno al modo preciso col quale il Prina cadde nelle mani de' suoi carnefici. Dicesi che un falegname lo scorse nel nascondiglio ov'era rannicchiato, ebbe la promessa d'un milione purchè tacesse, ma con un grido involontario tradì la vittima e sè stesso. Narrano altri che il ministro fu colto in camicia, fra il soppalco e i tetti. Altri ancora, che avendolo il dottor Bazzoni celato in una vasca nel solaio, fu colà rinvenuto da un garzone muratore che si diè a gridare: «È qui; è qui, il Prina!» attirando tosto contro di lui la turba inferocita.

Certo è che l'infelice, semivestito, livido, tremante, a mani giunte, ripetendo convulsamente: «Confessione! Confessione!..» fu tratto giù dai piani superiori nelle sue stanze, percosso coi pugni e cogli ombrelli. Ad ogni colpo gli si gridava: «Questo per il registro! Questo per il focatico! Questo per la carta bollata!» Ridotto quasi nudo, fu prima mostrato dal balcone della scuderia, alla folla imprecante, poi sospinto, legato e tramortito, calato giù, fra le braccia allungate, tese dai più furenti che con grandi urla lo volevano vivo, fra le mani!

Alcuni pietosi, fingendosi i più accaniti nell'ingiuriarlo, lo circondano, lo spingono traverso la piazza San Fedele poi nella casa Blondel, ove sorge ora il teatro Manzoni; ma il generoso tentativo fallisce: strappato loro di mano, riescono ancora a difendere l'infelice dalle ombrellate, a sottrarlo alla folla, a nasconderlo nel cortile di una vicina osteria.

Ma intanto si faceva notte: «Vogliamo il Prina! Vogliamo il Prina!» La turba furente vieppiù imbestialiva, assediava la casa, ammucchiava una catasta di fascine per incendiarla: «Fuoco e morte! Vogliamo il Prina!»

E il Prina, che nella tregua si era alquanto riavuto, pensando certo che attirava l'estrema rovina su chi lo voleva salvare, uscì da sè stesso dal nascondiglio, e si offrì agli assassini ripetendo: «Confessione! Confessione! Un prete!»

Quattro ribaldi – continua a narrare il Cusani – gli si precipitano addosso, ed uno, con un colpo di martello sulla testa, lo stende al suolo, e per le gambe lo getta nella via.

Il pensiero ne rifugge, raccapricciando! Al fioco chiarore delle lampade, sotto la pioggia fitta, scrosciante, sanguinolento, livido per le percosse, legato pei piedi sur un asse, il conte Prina, semivivo, fu trascinato per mezza la città da un'orda d'indemoniati.

«Le loro grida di patria, di libertà», scrive il Foscolo, «e le loro fiaccole che mi mostravano facce pallide, atroci, e labbra tremanti di rabbia e occhi pieni di stupidità e di delirio, e i loro corpi barcollanti d'ubbriachezza e di furore baccante, e alcuni con mani armate di coltella mezzo rotte o di corde da strozzare e di sacchi vuoti a rubare, m'insegnarono più teorie di libertà che non tutti i libri della filosofia e quanto lessi mai nelle storie!»

All'orrenda scena indietreggiavano i popolani atterriti, si chiudevano case e finestre, svenivano le donne…

Finchè ebbe voce, la povera vittima ripetè le parole «Confessione! Confessione! Un prete!» Morì, non per alcuna delle tante ferite – come provò poscia la perizia medica – ma di angoscia, di terrore, di dolore… Il cadavere pesto, sformato, venne buttato da' suoi carnefici stanchi, affranti, nel cortile del Broletto e là giacque per parecchie ore sotto la pioggia gelida, nel sangue e nel fango, finchè la notte stessa, quasi di soppiatto, fu trafugato e sepolto nel camposanto di porta Comasina.

* * *

Un pezzo di gronda – creduto nel buio un cannone – valse a mettere in fuga la masnada che si accaniva a demolire la casa del Prina. Compiuto il delitto, uscirono le truppe e per tutta la giornata del 21, il Pino fu nelle vie, sempre a cavallo, a prodigarsi, a farsi acclamare ed anche a farsi minacciare, giacchè la piazza gli aveva preso la mano; e alle intimidazioni proterve, il vecchio soldato non trovò il coraggio di rispondere se non abbottonandosi il pastrano per celare le decorazioni invise, e facendo togliere il cannone posto dinanzi alla porta del palazzo reale, come una mano di facinorosi, con grida sconce, gli imponeva.

La cittadinanza, frattanto, sentiva orrore dell'accaduto, e nondimeno pareva consolarsi che una sola fosse stata la vittima.

Si riunì tosto il Consiglio comunale, ed elesse una reggenza provvisoria presieduta da Carlo Verri, l'uomo in quei dì più popolare, perchè l'unico veramente puro, tenutosi lontano da tutta la baraonda di bramosie venali e vanitose, dalle sètte, dalle congiure, dai tradimenti.

Il Verri, sin dal mattino, cominciò ad abolire le tasse che più gravavano sul popolo, e lo annunziò con manifesti «che scongiuravano i buoni milanesi di tornare in calma.»

E i buoni milanesi non domandavano di meglio; ma per le porte, disertate persino dalle guardie del dazio, continuava a piovere in Milano – chiamatavi ancora dall'odor del bottino – la feccia più turpe del contado. – E questa si univa agli eroi del giorno innanzi e stava per muovere verso il palazzo del duca Melzi e contro quello del Vicerè, allorchè – più efficace dei violenti manifesti del Pino – provvide a spazzarne le vie con qualche carica a baionetta in canna, il capitano della guardia civica, Bernardo Ottolini, arrestando molti dei più sinistri figuri, finchè alla sera del 21 una lugubre calma si stese sovra la città, contristata da tanta vergogna… vergogna non tutta sua.

Nondimeno, nè tosto, nè poi, si vollero seriamente, di questa infamia conoscere gli autori, punire i veri colpevoli. Parve che un accordo pauroso si formasse nella cittadinanza, anche fra gli uomini più eletti di mente, il Pellico ed il Manzoni, ad esempio, perchè sulla tragedia del 20 aprile, si stendesse un pronto oblio. E così, gran parte degli arrestati furono messi in libertà, senza inizio di processo, altri, inquisiti fiaccamente, pro forma, pochi processati… ed assolti.

Anche la musa popolare non si destò, da principio, se non per inferocire grossolanamente contro il ministro assassinato.

Solo due anni più tardi, un poeta, un tranquillo poeta, manzonianamente fluido nella forma e misurato nell'impeto, ma nondimeno vero poeta civile, Tommaso Grossi, rivendicava la probità e la buona fede del conte Prina, in quel piccolo capolavoro di poesia vernacola intitolata la Prineide, nel quale il verismo descrittivo e la fine arguzia politica fecero supporre, senz'altro, l'estro possente del Porta.

Ma il Porta si affrettò a respingere la gloria di quella coraggiosa opera d'arte che troppe noie… gli avrebbe attirato dagli Austriaci, i nuovi e sospettosi padroni. E così, anche il verso dialettale ch'era sgorgato finalmente a deplorare l'eccidio del 20 aprile, parve pentito di sè, fu sconfessato quasi, non in nome dell'arte, ma della paura.

Quanta nostra fine di secolo, in quel principio di secolo! Come tra il fluttuare degli ordini sconvolti, degli elementi storici già disgregati, ma non ancora atti a comporsi in una novella armonia, gli uomini appaiono allora ed ora agitati da passioni che li traggono alla ruina o inspirati da idealità a cui solo i tempi futuri potranno spianare la via!

Partiti estremi che non s'intendono fra loro: uomini, che sopra l'ondeggiare di questi partiti rumorosi e vani s'intendono per dominare fin che possono; plebi travagliate e ignare che nei loro impeti insani fanno il giuoco dei loro oppressori medesimi; intelletti confusi e coscienze turbate dall'aspettazione di un avvenire incertissimo, che la volontà più poderosa non può nè allontanare nè affrettare; come tutto ciò che forma il quadro della vita pubblica nella prima grande rivoluzione, si rinnova nell'ultimo scorcio di questo secolo che fu ed è tutto una rivoluzione! Per tal rispetto, a leggere i giornali d'allora, si è colti, talvolta, da uno stupore profondo: se non fosse la carta ingiallita, la vecchia stampa, l'odor d'antico che esalano i volumi di quelle vecchie collezioni, si potrebbe credere di aver sott'occhio i giornali d'oggi, tanto è qua e là, la somiglianza del linguaggio, tanto si pareggiano gl'inni e le contumelie, le adulazioni e le calunnie gettate a piene mani contro questo o quell'uomo politico, destinato a trionfare, destinato a perire, destinato in ogni caso ad essere travolto nell'oblio, fino a che i nipoti curiosi non pensino un giorno a rievocarne la memoria. Possiamo – ahimè! – specchiarci tutti nelle immagini del passato, e impararvi che il mondo rinnova sempre i suoi errori, perchè dalla storia, che Cicerone chiamò maestra della vita, la vita non va mai a scuola…

 

Tornando a quelle giornate dell'aprile, la figura che novamente ci si riaffaccia, in una luce comicamente fosca, mentre gli austriacanti rimangono nella loro sinistra penombra, è ancora quella del Pino.

Quest'uomo, di cui al mondo non andrà mai estinta la razza, per la sua stessa sfacciata vanità, appariva in mezzo al gregge genuflesso, come un salvatore della patria.

Quanta analogia tipica in codesto parvenu del potere, con altri violenti, ed avidi e spudorati, saliti in alto molti anni dopo di lui! Si accusava, si vituperava, si calunniava forse e non di meno si temeva: anche allora si ripeteva, supinamente, che quel vecchio era necessario, che quel vecchio assicurava l'ordine, il benessere pubblico, sociale, l'avvenire dello Stato.

Uomini probi, disinteressati, che sarebbero morti di vergogna ove di loro si fosse detto ciò che la voce pubblica diceva del Pino; che sapevano de' suoi imbrogli, delle sue cambiali, delle sue malversazioni, delle somme enormi estorte al Vicerè ed allo stesso Napoleone, dell'assassinio del Lahoz sugli spaldi d'Ancona, delle brutture della sua vita intima, giudicavano, nondimeno, che al Pino fosse dovuta in quei frangenti la tutela degli istituti pubblici e delle casse dell'erario.

È sorte delle moltitudini questa, di subire periodici accecamenti; di credere che a volte occorra un briccone violento per governare migliaia e migliaia di galantuomini.

* * *

Il Beauharnais, caduto Napoleone, si trovava davanti un fiero dilemma: o dar guerra o ritrarsi; imporsi per forza, in Milano, ai molti che più non lo volevano, o cedere alle insistenze dei congiunti che lo chiamavano a Monaco.

«La condotta del Vicerè – giudica uno scrittore sereno, acuto e coscienzioso – la condotta del Vicerè fu in quel punto morale per ogni verso, semplice, schietta, recisa, ma – aggiunge – terribile per gli Italiani. Non voglio, disse Eugenio a' suoi generali, a' suoi soldati, ai congiunti, alla consorte, ai nemici, non voglio pormi per forza a capo d'un paese che non mi desidera.»

E infatti, il 23 aprile, Eugenio stipulava una seconda convenzione militare che sanciva l'abolizione del Regno Italico, e la consegna ormai fatale del suo territorio all'Austria.

Nell'esercito costernato, invano tentarono gli ufficiali superiori di opporsi a questa dedizione. Eugenio si accomiatò dal popolo e dalla milizia con proclami nei quali vibrava una nota gentile, cavalleresca, civilmente umana. Se per noi ricominciava l'antica servitù, non ne era già egli l'autore: egli pure cadeva vittima del tristo destino d'Italia.

Oh! come ripensando alla calma fierezza di quell'uomo in quei giorni, e rileggendo le sue parole spicca a lui vicina dinanzi alla nostra mente la figura nobile e buona della principessa Amalia!

Lei, che aveva voluto che il figlio suo nascesse a Mantova, tra le ansie e i pericoli della guerra, perchè dalla memoria stessa del luogo nativo, fosse indotto ad amare l'Italia, lei, non esitava ora a consigliare al marito la via del disinteresse e delle nobili rinuncie.

È anche questa una provvida ricorrenza della storia: quando in basso come in alto rugge la tempesta, e si addensano miasmi di disonestà e di depravazione, chi deve rispondere dei gravi doveri di una corona, trova spesso in una donna la buona consigliera, la purificatrice, la degna alleanza e la salvezza.

Ma questa donna non è, non può essere, una che abbia carpito i favori del principe, che ne abbia distratto anzichè temprato il pensiero, che ne abbia spento i begli entusiasmi tra i dolci peccati…

No! No! Il regno di Aspasia è tramontato con Pericle! La salvezza non può venire dalla «favorita», dalla «bella» pel cui capriccio sovrani e popoli, correvano in altri tempi i rischi della rovina e del ludibrio… Chi tutto salva è ben altra donna, una sola: la moglie, la madre, la compagna del presente e dell'avvenire.

Indulgenti e pietose, nella purissima intimità, negli ignorati sacrifici, nella santità degli affetti, donne auguste come Amalia di Baviera, al pari della donna più umile, esercitano un benefico impero d'amore sopra l'uomo amato. La moglie del principe, salva talora un'epica fama e decide di un periodo storico, delle sorti di un popolo, per quella stessa virtù del cuore, che alla oscura moglie dell'uomo di lavoro, suggerisce spesso, nel silenzio e senza che alcun lo sospetti, il franco e generoso consiglio che salva dalla sciagura lui, i suoi figli, la sua casa!

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