Il Volto della Rabbia

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Из серии: Un Thriller di Zoe Prime #5
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Il Volto della Rabbia
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IL VOLTO
DELLA
RABBIA
(Un Thriller di Zoe Prime—Volume 5)
B L A K E   P I E R C E
TRADUZIONE ITALIANA A CURA DI
ANTONIO CURATOLO
Blake Pierce

Blake Pierce è l’autore statunitense oggi campione d’incassi della serie thriller RILEY PAGE, che include diciassette. Blake Pierce è anche l’autore della serie mistery MACKENZIE WHITE che comprende quattordici libri; della serie mistery AVERY BLACK che comprende sei libri;  della serie mistery KERI LOCKE che comprende cinque libri; della serie mistery GLI INIZI DI RILEY PAIGE che comprende cinque libri; della serie mistery KATE WISE che comprende sette libri; dell’emozionante mistery psicologico CHLOE FINE che comprende sei libri; dell’emozionante serie thriller psicologico JESSIE HUNT che comprende sette libri (e altri in arrivo); della seria thriller psicologico RAGAZZA ALLA PARI, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della serie mistery ZOE PRIME, che comprende tre libri (e altri in arrivo); della nuova seria thriller ADELE SHARP e della nuova serio di gialli VIAGGIO IN EUROPA.

Un avido lettore e da sempre amante dei generi mistery e thriller, Blake ama avere vostre notizie, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.blakepierceauthor.com per saperne di più e restare informati.


Copyright © 2020 di Blake Pierce. Tutti i diritti riservati. A eccezione di quanto consentito dall’U.S. Copyright Act del 1976, nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, distribuitao trasmessa in alcuna forma o in alcun modo, o archiviata in un database o in un sistema di raccolta, senza previa autorizzazione dell’autore. Questo ebook è concesso in licenza esclusivamente ad uso ludico personale. Questo ebook non può essere rivenduto né ceduto ad altre persone. Se desidera condividere questo libro con un'altra persona, la preghiamo di acquistare una copia aggiuntiva per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo libro e non l’ha acquistato, o non è stato acquistato esclusivamente per il suo personale uso, la preghiamo di restituirlo e di acquistare la sua copia personale. La ringraziamo per il suo rispetto verso il duro lavoro svolto da questo autore. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, imprese, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono il prodotto della fantasia dell’autore o sono usati romanzescamente. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, è del tutto casuale. Immagine di copertina Copyright Fernando Batista, utilizzata sotto licenza da Shutterstock.com.

LIBRI DI BLAKE PIERCE

UN GIALLO INTIMO E LEGGERO DELLA SERIE VIAGGIO IN EUROPA

DELITTO (E BAKLAVA) (Libro #1)

LA SERIE THRILLER DI ADELE SHARP

NON RESTA CHE MORIRE (Libro #1)

NON RESTA CHE SCAPPARE (Libro #2)

NON RESTA CHE NASCONDERSI (Libro #3)

NON RESTA CHE UCCIDERE (Libro #4)

THRILLER DI ZOE PRIME

IL VOLTO DELLA MORTE (Libro #1)

IL VOLTO DELL’OMICIDIO (Libro #2)

IL VOLTO DELLA PAURA (Libro #3)

IL VOLTO DELLA FOLLIA (Libro #4)

IL VOLTO DELLA RABBIA (Libro #5)

LA RAGAZZA ALLA PARI

QUASI SCOMPARSA (Libro #1)

QUASI PERDUTA (Libro #2)

QUASI MORTA (Libro #3)

I THRILLER PSICOLOGICI DI JESSIE HUNT

LA MOGLIE PERFETTA (Libro #1)

IL QUARTIERE PERFETTO (Libro #2)

LA CASA PERFETTA (Libro #3)

IL SORRISO PERFETTO (Libro #4)

LA BUGIA PERFETTA (Libro #5)

IL LOOK PERFETTO (Libro #6)

LA TRESCA PERFETTA (Libro #7)

L’ALIBI PERFETTO (Libro #8)

LA VICINA PERFETTA (Libro #9)

IL TRAVESTIMENTO PERFETTO (Libro #10)

I GIALLI PSICOLOGICI DI CHLOE FINE

LA PORTA ACCANTO (Libro #1)

LA BUGIA DI UN VICINO (Libro #2)

VICOLO CIECO (Libro #3)

UN VICINO SILENZIOSO (Libro #4)

RITORNA A CASA (Libro #5)

FINESTRE OSCURATE (Libro #6)

I GIALLI DI KATE WISE

SE LEI SAPESSE (Libro #1)

SE LEI VEDESSE (Libro #2)

SE LEI SCAPPASSE (Libro #3)

SE LEI SI NASCONDESSE (Libro #4)

SE FOSSE FUGGITA (Libro #5)

SE LEI TEMESSE (Libro #6)

SE LEI UDISSE (Libro #7)

GLI INIZI DI RILEY PAIGE

LA PRIMA CACCIA (Libro #1)

IL KILLER PAGLIACCIO (Libro #2)

ADESCAMENTO (Libro #3)

CATTURA (Libro #4)

PERSECUZIONE (Libro #5)

FOLGORAZIONE (Libro #6)

I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

MORTE AL COLLEGE (Libro #7)

UN CASO IRRISOLTO (Libro #8)

UN KILLER TRA I SOLDATI (Libro #9)

IN CERCA DI VENDETTA (Libro #10)

LA CLESSIDRA DEL KILLER (Libro #11)

MORTE SUI BINARI (Libro #12)

MARITI NEL MIRINO (Libro #13)

IL RISVEGLIO DEL KILLER (Libro #14)

IL TESTIMONE SILENZIOSO (Libro #15)

OMICIDI CASUALI (Libro #16)

IL KILLER DI HALLOWEEN (Libro #17)

UN RACCONTO BREVE DI RILEY PAIGE
UNA LEZIONE TORMENTATA

I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

PRIMA CHE PRENDA (Libro #4)

PRIMA CHE ABBIA BISOGNO (Libro #5)

PRIMA CHE SENTA (Libro #6)

PRIMA CHE COMMETTA PECCATO (Libro #7)

PRIMA CHE DIA LA CACCIA (Libro #8)

PRIMA CHE AFFERRI LA PREDA (Libro #9)

PRIMA CHE ANELI (Libro #10)

PRIMA CHE FUGGA (Libro #11)

PRIMA CHE INVIDI (Libro #12)

PRIMA CHE INSEGUA (Libro #13)

PRIMA CHE FACCIA DEL MALE (Libro #14)

I MISTERI DI AVERY BLACK

UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

UNA RAGIONE PER SCAPPARE (Libro #2)

UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

UNA RAGIONE PER TEMERE (Libro #4)

UNA RAGIONE PER SALVARSI (Libro #5)

UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #6)

I MISTERI DI KERI LOCKE

TRACCE DI MORTE (Libro #1)

TRACCE DI OMICIDIO (Libro #2)

TRACCE DI PECCATO (Libro #3)

TRACCE DI CRIMINE (Libro #4)

TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)

CAPITOLO UNO

Zoe chiuse gli occhi, appoggiandosi allo schienale del divano. Niente aveva importanza. L’oscurità era scesa su Bethesda e lei non si era neanche presa il disturbo di alzarsi per accendere la luce. In lontananza, i puntini gialli nello skyline le dicevano che Washington era ancora sveglia, ma lei era stanca di fissarli.

Quello non era più il suo mondo. Quando lo guardava, riusciva soltanto a vedere i numeri: i piani di ogni edificio e la quantità di finestre, la distanza da terra, il tempo che avrebbe impiegato un oggetto in caduta per colpire il marciapiede da una determinata altezza. Il numero di edifici, le divisioni delle strade e gli angoli d’intersezione tra di loro: le girava tutto in testa, al punto che ormai non voleva altro che seppellirsi nell’oscurità e spegnere qualsiasi cosa una volta per tutte.

Ma poi, a occhi chiusi, altri sensi presero il sopravvento. I secondi che ticchettavano dal suo orologio, che aveva tolto da giorni e gettato da qualche parte nella stanza per evitare di continuare a sentirlo. Era stato inutile: riusciva ancora a contare il tempo che passava. Persino le bollicine che scoppiettavano nella bottiglia di birra iniziarono ad assumere un proprio schema, e lei si ritrovò intenta a calcolare il tempo tra gli scoppiettii, il volume di liquido rimanente e la velocità alla quale si muovevano le bollicine, vagamente visibili nella penombra della stanza.

Zoe bevve un altro sorso, pensando che almeno questo sarebbe servito a due cose: uno, far sparire quelle bollicine scoppiettanti che la tormentavano così da vicino, e due, intontire i suoi sensi. E magari la prossima birra non avrebbe fatto così tanto rumore.

Uno dei suoi gatti, Eulero a giudicare dal particolare rumore dei suoi artigli che affondavano delicatamente nel tessuto, si sistemò con noncuranza lungo lo schienale del divano e si allungò dietro di lei, appoggiando quasi silenziosamente il mantello caldo contro i suoi capelli corti. Quasi silenziosamente. In realtà, faceva rumore eccome. C’era un battito cardiaco, il suo respiro aveva un ritmo. Quei rumori erano lì, e Zoe sapeva che, avendo messo a tacere tutto il resto, ben presto avrebbe iniziato a contarli.

Si spostò leggermente, allungando una mano per prendere il cellulare, che giaceva spento sul bracciolo del divano. Non lo accendeva da giorni. All’inizio, quando era appena rientrata dal caso che era terminato con la sua sospensione, l’aveva lasciato acceso. Erano arrivati messaggi, notifiche, avvisi; il dispositivo continuava a suonare, a vibrare e a irritarla a morte, e a un certo punto aveva deciso di spegnerlo. Poi aveva iniziato ad accenderlo una volta al giorno per leggere i messaggi prima di spegnerlo di nuovo. Ora non voleva fare più neanche quello. Era troppo.

E comunque, Zoe non si aspettava nulla di nuovo. Aveva allontanato tutti, li aveva messi a tacere proprio come qualsiasi altro rumore, e col passare delle settimane avevano smesso di insistere. Non sarebbe arrivata nessuna novità nemmeno dal lavoro: dopo aver picchiato a sangue l’assassino che aveva tolto la vita alla sua partner, l’Agente Speciale Shelley Rose, l’Agente Speciale al Comando Maitland non aveva avuto altra scelta che sospenderla. Certo, era riuscita a risolvere il caso, ma quella era una magra consolazione. Non era sufficiente. Aveva lasciato che succedesse.

 

Aveva lasciato che quell’uomo uccidesse Shelley proprio sotto il suo naso.

Zoe si mosse sul divano, fissando il cellulare e calcolandone le dimensioni, il peso, il profilo di ciascun pulsante laterale. Preferiva addirittura i numeri a quei pensieri.

E non era stato soltanto l’FBI a smettere di contattarla. Zoe era uscita con John per un tempo sufficiente a iniziare a fidarsi di lui; aveva persino programmato, fissato un appuntamento, per parlargli del suo rapporto con i numeri. Ma dopo la morte di Shelley non sembrava avere senso rivederlo.

All’inizio aveva provato a chiamarla ogni giorno. Poi a scriverle, tre volte al giorno, poi due volte e infine una volta sola. I messaggi erano diminuiti rapidamente, fino a quando John non aveva smesso di provarci. Le aveva inviato un messaggio che ormai aveva memorizzato: ci sarò se/quando vorrai parlare.

Sei parole. Ventisette caratteri. E quello era stato l’ultimo messaggio che lui le aveva inviato, ventisette giorni fa. Zoe lo sapeva perché il suo orologio interno non smetteva di contare: mancavano poche ore al ventottesimo giorno. Ogni giorno scivolava via con la medesima intollerabile lunghezza, un’identica misura che si allungava sia dietro che davanti a lei, ancora e ancora.

Zoe si alzò per prendere la seconda birra e fece un salto, facendola quasi cadere per terra, quando sentì un pesante colpo alla porta. I numeri iniziarono immediatamente a sfrecciarle nel cervello: il peso del pugno che batteva alla porta, la velocità, la forza. E capì, senza alcun dubbio, di chi fosse quella mano.

“Zoe?” Quella voce superò la porta d’ingresso e attraversò l’appartamento silenzioso. La dottoressa Francesca Applewhite si era presentata a casa sua ogni singolo giorno da quando era rientrata. Aveva bussato trentasei volte alla porta. Dato che la dottoressa Applewhite bussava quasi sempre seguendo uno schema di quattro colpi – uno, uno-due, uno – finora le sue nocche avevano sopportato ben centoquarantaquattro colpi singoli.

Ma Zoe non aveva mai aperto la porta.

“Zoe, voglio soltanto sentire la tua voce,” disse la dottoressa Applewhite. “Mi basta sapere che stai bene.”

Zoe chiuse gli occhi. La voce della sua mentore oltrepassava la soglia a sessantacinque decibel, leggermente più alta rispetto al normale valore di una conversazione. Abbastanza forte da fare in modo che venisse sentita dall’altra parte della porta, nell’appartamento. Non c’era posto in cui Zoe potesse rifugiarsi per non sentire quella voce. C’era troppo poco spazio. Ci aveva provato.

“Zoe!”

Sessantanove decibel. Zoe si tappò le orecchie con le mani, cercando di respingere i numeri. “Vada via!” urlò, incapace di trattenersi. “Mi lasci in pace!”

Sentì un delicato suono sul pianerottolo. “Va bene, Zoe.” Sessanta decibel. Una voce bassa e calma. “Ora me ne vado. Chiamami se hai bisogno di qualcosa.”

Seguì una pausa di esitazione, come l’attesa di una risposta. Zoe non disse nulla. Infine, la dottoressa Applewhite si allontanò; Zoe contò i suoi passi fino alle scale, capendo dal rumore che facevano che la dottoressa Applewhite pesava ancora cinquantotto chili.

Zoe si strofinò gli occhi con la mano e prese una birra dal frigo. La aprì e fece un lungo sorso, bevendone il più possibile in una volta sola. Quasi esattamente la metà, notò, stimando il volume con i propri occhi. Si voltò per guardare il divano ma non si mosse; l’appartamento adesso le sembrava eccessivamente angusto, uno spazio troppo ristretto per i suoi pensieri.

Non poteva restare qui: non con tutti quei numeri, per tutto il resto della serata. Non poteva sentirli rimbombare inutilmente nella sua testa. Erano ovunque, e benché sapesse che l’avrebbero aspettata anche lì fuori, almeno quelli sarebbero stati nuovi.

Dopo aver sentito l’ultimo passo della dottoressa Applewhite, attese diciassette minuti per concederle il tempo necessario per uscire dal quartiere, bevendo il resto della seconda birra e gettando la bottiglia nella spazzatura, dopodiché si infilò le scarpe.

***

Zoe inciampò, quasi cadendo a causa di una pietra smossa sul ciglio del marciapiede. Guardando con più attenzione si rese conto che quella pietra in realtà era parte del marciapiede stesso, una piastrella male inserita in fase di costruzione. Non avrebbe dovuto esserci. Zoe si rimise dritta, cercando di evitare di inciampare nuovamente.

Alzò lo sguardo e vide che aveva raggiunto il solito posto in cui finiva quando andava in giro di notte dopo aver bevuto. In questo caso anche mentre beveva, dato che aveva portato con sé il resto della confezione da sei e ormai era rimasta a mani vuote. Non era stata una camminata tanto breve, il che voleva dire che era venuta intenzionalmente da queste parti, anche se non riusciva a ricordare di aver preso quella decisione. Eppure era lì, di fronte a quella stessa casa.

La casa davanti alla quale normalmente Zoe non si sarebbe mai permessa di fermarsi. Non era una coincidenza che ci venisse soltanto di notte, avvolta dall’oscurità, e quando l’alcol le placava un po’ il nervosismo. In questo modo era altamente improbabile che la vedessero, e lei poteva restarsene lì a crogiolarsi nei suoi sensi di colpa come una vigliacca, senza dover fare nulla.

Non era certo quello che voleva. Zoe desiderava più di ogni altra cosa avvicinarsi a quella casa e bussare alla porta. Voleva che ad aprirla fosse l’Agente Shelley Rose, con il suo chignon biondo perfettamente sistemato e il suo rossetto rosa privo di qualsiasi sbavatura. Voleva che Shelley le sorridesse e le dicesse qualcosa del tipo, “Sei pronta, Z?”; voleva che salissero su un aereo e andassero a risolvere un caso di omicidio insieme, e che andasse tutto bene.

Ma non sarebbe successo, perché Shelley non era più lì. Shelley ormai era sotto terra. Zoe aveva assistito al suo funerale, aveva visto calare la bara nella fossa appena scavata mentre suo marito e sua figlia erano fermi lì, accanto alla tomba, a guardare. Avrebbe voluto dire qualcosa in quel momento, ma non c’era riuscita. Voleva dire qualcosa adesso, ma le risultava ancora impossibile. E in fondo, non meritava quel sollievo.

Il marito di Shelley era rimasto senza una moglie. Sua figlia era rimasta senza una madre. Zoe avrebbe potuto bussare alla porta e dir loro che le dispiaceva, che era stata tutta colpa sua, che non era stata in grado di impedirlo. Avrebbe potuto assumersi tutta la responsabilità, prendere sulle spalle il peso del loro odio o qualsiasi cosa volessero lanciarle addosso, purché potessero sentirsi meglio.

Ma che fosse per il loro o per il suo stesso bene, non poteva farlo. Non era soltanto una questione di cosa meritasse. E neanche una questione di coraggio. Zoe guardò la casa e cercò di pensare a cosa avrebbe potuto dire loro, ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era che la casa aveva cinque finestre che si affacciavano sulla strada, ciascuna suddivisa in quattro vetrate; la porta era alta un metro e novantotto centimetri; il vialetto che conduceva alla porta d’ingresso era lungo un metro e ottantatre centimetri e aveva dodici lastre per pavimentazione, ciascuna delle quali aveva una lunghezza di quindici virgola ventiquattro centimetri, o sei pollici, o zero virgola centosessantasette iarde, o…

Zoe non aveva niente da dire loro. Aveva soltanto i suoi numeri. Si allontanò da quella casa conosciuta e da tutte le sue dimensioni, costringendosi a tornare verso casa. Ogni volta che finiva qui, si sentiva ancora peggio di quando era uscita. Eppure i suoi piedi continuavano a portarla in questa direzione.

Avrebbe dovuto smettere completamente di uscire. Non valeva la pena rischiare.

E Zoe non riusciva a vedere alcuna via d’uscita da tutto questo disastro che lei stessa aveva creato. Poteva soltanto restarsene seduta in casa e lasciare il telefono spento, ignorare le chiamate che sarebbero arrivate una volta terminato il periodo di sospensione e lasciare che tutto svanisse come nebbia nei ricordi di qualcun altro.

CAPITOLO DUE

Elara Vega guardò il suo orologio e inarcò un sopracciglio, un gesto rivolto solo a se stessa. In fin dei conti era sola, lì; i suoi colleghi erano andati via alle sei in punto, al termine della giornata lavorativa. Ma il lavoro era tutto per Elara, lo era sempre stato.

No, non era proprio così, pensò, mentre raccoglieva le sue cose e ordinava gli appunti per il mattino seguente. C’era stato un periodo in cui ad avere importanza erano state altre cose. Aveva cresciuto suo figlio, e per un certo tempo c’era stato anche suo marito, dal quale però aveva divorziato vent’anni fa. Due anni dopo, suo figlio si era trasferito in un’altra città per frequentare il college e da allora era rimasta da sola. Ma le andava bene così: soltanto lei, le stelle e i pianeti, eterni seppur fugaci.

Elara guardò con attenzione quella sua scrivania così ordinata, assicurandosi che non ci fosse qualcosa fuori posto. In cinquantanove anni di vita aveva imparato che tenere le cose in ordine era molto meno faticoso che sistemare un pasticcio.

Soddisfatta, Elara prese il suo cappotto dallo schienale della poltrona e lo indossò, dirigendosi verso la porta. Era ancora intenta a raddrizzare il colletto quando arrivò nell’atrio, dove un inserviente stava lavando i pavimenti. Le dispiaceva sempre quando restava fino a tardi e intralciava il lavoro degli addetti alle pulizie, camminando sul pavimento appena lavato.

Il planetario era organizzato con gli uffici, le stanze del personale e le sale eventi che si diramavano dall’anfiteatro centrale, che a sua volta conduceva direttamente all’atrio principale e da lì alle porte d’ingresso. Elara uscì in quello spazio buio, sempre un po’ inquietante di notte quando l’intero edificio era avvolto dalle tenebre e i posti a sedere erano vuoti. Le ricordavano sempre quei film apocalittici in cui i personaggi si imbattevano in qualcosa di toccante: un teatro abbandonato, i rivestimenti delle poltrone che si rovinavano lentamente, le apparecchiature di proiezione ormai in rovina. Si incamminò velocemente verso la tranquillità dell’atrio e dell’aria frizzante della sera.

Era arrivata a metà strada quando sentì un ronzio familiare: il suono meccanico del proiettore che entrava in funzione. Elara tentennò e si guardò attorno perplessa e meravigliata. Le stelle e i pianeti si erano improvvisamente illuminati sulla sua testa, volteggiando fino a collocarsi ciascuno al proprio posto per l’inizio della presentazione. L’aveva visto centinaia di volte; aveva persino preso parte alla verifica dell’accuratezza delle nuove mappe celesti qualche anno fa, quando erano state aggiornate, ma trovarsi nel bel mezzo di quello spettacolo in un modo così insolito era qualcosa di completamente nuovo per lei. Si sentiva come se potesse allungare una mano e toccare le stelle…

Ma chi era stato ad accendere il proiettore? Tutti i suoi colleghi erano tornati a casa da un pezzo e non avrebbe dovuto essere acceso a quest’ora. La musica d’orchestra iniziò a suonare, talmente forte da coprire tutto il resto. Elara aggrottò la fronte e iniziò a voltarsi, pensando che sarebbe stato il caso di dare un’occhiata alla sala di proiezione…

Invece si ritrovò a fissare il pavimento, in ginocchio. Com’era finita in quella posizione? Appena un minuto prima, era stata… ma avvertì un dolore alla nuca, ricordò un impatto fragoroso, più assordante della musica stessa, e scoprì che le sue gambe non erano più in grado di reggerla, e neanche le sue braccia, e che tutto stava pulsando…

Sentì anche qualcos’altro, qualcosa alla nuca, un nuovo dolore… una mano che la stringeva con forza, senza riguardi per la sua delicata pelle. Elara tentò vagamente di divincolarsi, ma la mano la strinse più forte e il dolore le arrivò da un luogo ancora più distante. Forse da un altro pianeta, un corpo celeste avvolto dalla distanza e dalla luce di altre stelle. Si stava muovendo. No, qualcuno la stava portando da qualche parte. Le sue gambe strisciavano impotenti a terra.

Elara lottò per rialzarsi, per impedire ai suoi piedi di scivolare su quel pavimento liscio, ma niente sembrava funzionare; la musica era talmente assordante, le luci così accecanti. Qualcosa di caldo le stava colando dalla fronte, finendole negli occhi. Si ritrovò a guardare in basso, verso qualcosa di rotondo, di metallico, che conteneva qualcosa che scintillava e si muoveva, una superficie che rifletteva la luce, e poi…

 

L’acqua fredda fu uno shock per il suo corpo e la fece ansimare ad alta voce: quella fu l’unica reazione che riuscì a comprendere con lucidità da quando aveva visto accendersi il proiettore. Peccato che fosse anche una reazione del tutto inappropriata in questo caso: sentì l’acqua – e non l’aria – invaderle la bocca e scendere in gola, provando una sensazione di panico che dissipò le nebbie della confusione e del dolore alla testa. Capì che doveva assolutamente uscire da lì, scappare, tornare in superficie, tornare a respirare.

Elara lottò con tutte le sue forze, aggrappandosi ai lati del secchio di metallo e sentendolo agitarsi sotto di sé, ma era tutto inutile. Sulle sue spalle c’era un peso che la teneva giù e le impediva di alzare la testa e uscire dall’acqua. La sua vista iniziò a oscurarsi; davanti ai suoi occhi comparvero minacciose macchie nere, che lottavano e danzavano con gli sprazzi di luce che filtravano nell’acqua, mentre lei si agitava nel disperato tentativo di sollevare la testa.

Elara cercò con un ultimo sforzo di lanciarsi all’indietro, di ribaltare il secchio, ma la sua gola era ormai in preda agli spasmi e la vista si stava annebbiando del tutto, e capì di non avere più speranze. Una contrazione dolorosa al petto la costrinse a cercare di respirare ancora una volta, ma non ci riuscì. E infine calò un’oscurità talmente assoluta da non permetterle di vedere più nulla, neanche i bagliori di stelle lontane milioni di anni luce, che morivano in un’altra galassia o che forse erano già morte.

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