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In faccia al destino

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Sola cosa buona che facesse il cavaliere era quella che con la sua personcina elevata sul palco impediva a Roveni di scorger Ortensia.

E rivedo Roveni che, impassibile, seduto acconto a Moser, s'estendeva i folti e arditi baffi, o incrociava le braccia puntando lo sguardo al soffitto. Anna Melvi sorrideva all'oratore; avventava occhiate a me; guatava Ortensia.

Eppoi, dopo lung'ora, la catastrofe. A vendetta di Learchi e degli altri capoccia clericali, ch'eran rimasti assenti, il cavaliere improvvisava un inno al lavoro, e col «sacrosanto grido di: pane e lavoro!» gettava l'offa ai socialisti. Più di una volta i suoi pugni eloquenti non avevan per poco rovesciato il tavolino; ma quando egli volle mitigare l'audacia di quel suo favore al socialismo e mandò un poderoso grido di «Viva l'Italia!», allora… Un crac formidabile; un rovescio fragoroso e simultaneo del tavolino, dell'oratore, della bottiglia e del bicchiere che eran sul tavolino. Un'asse del palco s'era rotta e il palco s'era sfasciato… Immaginare il trambusto, il tumulto!

Della folla tutti si alzarono in piedi, addosso gli uni agli altri per vedere; molti, troppi, accorrevano per soccorrere. La signora Fulgosi svenne; le Melvi ridevano sgangheratamente; io e Moser rialzammo il caduto, che ci raccomandava di raccogliere le cartelle del discorso, mentre il dottor Minguzzi gli appiccicava un pezzo di taffetà in una guancia sanguinosa… Quand'ecco a quello scompiglio successe un clamore più grande. Lo provocò una voce che gridava:

– Sono stati i clericali!.. Tradimento dei clericali! – E alcuni clericali o lor difensori, i quali si trovavan là in fondo, protestarono con violenza.

Si videro braccia in aria; pugni piombar su teste; confondersi gente in mischia…

Queste, furon queste le conseguenze del nobile intento della pacificazione universale!..

Ebbene, in quel disordine, io rivolsi gli occhi più d'una volta a Roveni e lo vidi sempre là, in piedi ma al posto di prima, immobile a guardare freddamente lo spettacolo inaspettato; superiore a tutti nella gazzarra. Era come lo spettatore di una farsa: di una farsa però che non riesce a farlo ridere e di cui attende tranquillo la fine, quale che sia. Anzi egli s'imponeva tanto alla mia attenzione e m'aveva confermato in tale opinione della sua energia, che l'avrei paragonato la un valoroso il quale assistesse a un conflitto non degno del suo intervento. A chi mai, vedendolo in quell'attitudine, sarebbe venuto il dubbio che quell'uomo fosse un vile? O chi avrebbe dubitato che, se invece di comico il caso fosse stato tragico davvero, egli non si sarebbe comportato diversamente?

… Poi mi rivedo nella sala del buffet. Ivi gli invitati, mangiando paste e sandwich, si preparavano ad assistere alla gara di tiro.

Io passavo di gruppo in gruppo, con la sola intenzione di star lontano da quello in cui era Ortensia.

Insieme con la sorella, due o tre signorine paesane e alcuni giovani corteggiatori, essa era rimasta confinata presso al balcone; nè il mio sguardo poteva correre là senza incontrare lo sguardo di lei. Essendomi avvicinato una volta, lei si staccò dagli altri e venne a me, in apparenza ardita, ma mi chiese pavida, a bassa voce:

– Perchè non sta qua con me?.. con noi?

Colto all'improvviso, non seppi che rispondere. Risposi sorridendo come chi muova un benevolo rimprovero: – Bambina…

Essa, di pallida che era, avvampò.

Roveni, intanto, percorreva la sala con il fare di un padrone di casa. Osservai che quel giorno gli occhi del giovane erano senz'ombra alcuna; anzi il suo sguardo, così freddo per solito e teso innanzi a lui, pareva più limpido e ricercava come per un'accondiscendenza o cortesia nuova il mio sguardo. Aveva già saputo della mia partenza? Così pensai. Eppure non potevo odiarlo!; tale concetto ne avevo!

– È vero che Ortensia sta bene vestita così? – mi chiese. E ci accostammo insieme a quel crocchio.

Ortensia suggeriva qualche cosa all'orecchio di Marcella, la quale prima parve disapprovare o schermirsi; indi, fattasi animo, ripeteva la cosa a Guido. Questi fece due salti fregandosi le mani, tutto contento, ed esclamando: – Bene! benone! benissimo!

– A Sivori non dispiacerà? – domandò ancora Marcella.

Infatti Ortensia era incerta, quasi dubitasse a interrogarmi.

Finalmente l'arcano mi fu chiarito da Guido.

– Lei e le ragazze se ne stanno in giro qui, per il paese. Io faccio di tutto per sbagliare il primo colpo; mi metto fuori concorso; scappo e torno da loro. Va bene?

Roveni udì e non fiatò. Invece dagli altri sorsero proteste per la defezione delle Moser, appena esse ebbero ottenuto l'assenso del padre.

Ma Ortensia non si confuse:

– Assistere a una strage di piccioni? Lo lasciamo a voi questo bel divertimento!

– Un capriccio, al solito – esclamò Anna Melvi accostandosi col dottorino Minguzzi al fianco.

Marcella, confusa, le disse:

– Vieni anche tu, con noi…

– No, cara! Mi son prestata abbastanza… Basta, oramai!

La povera Marcella divenne rossa rossa; Ortensia scosse il capo sdegnosa; Guido ruppe in una risata. Ma Roveni con aria di perfetta indifferenza domandò alla Melvi:

– Prestata a che?

– A sfidar la malignità per favorire l'amicizia!

Ribattè Roveni, col tono di prima:

– Eh! per la malignità lei non ha niente da temere! – Al colpo io sorrisi; Anna mi vide; si morse le labbra, e mentre fissava l'ingegnere con quei suoi occhi di vipera, non nascose lo sforzo a trovare una risposta adeguata. La trovò e colpì anche me.

– C'è sempre da temere quando si hanno amici e nemici in una posizione equivoca.

Il nemico ero io!

– Da una posizione equivoca – dissi – si può sempre uscire per la via diritta, ma non si sa dove si possa finire con una condotta equivoca.

– Uhm! Una distinzione molto sottile – ribattè Anna astutamente. – Non la capisco. E tu, Ortensia?

Ortensia rispose:

– Io non me ne intendo di queste cose.

E vedendo che io approvavo e sembravo incitarla aggiunse:

– Se non capisci tu, ho da capir io?

– Brava! – fece Roveni, non poggiando troppo sulla lode e andandosene.

– Andiamo! Andiamo. È ora! Al campo di tiro, signore e signori! Al Poligono, per la gara! – ripeteva il segretario a destra e a sinistra.

Esclamò Anna:

– Dottor Minguzzi, noi sappiamo dove andiamo a finire: al Poligono!; e senza equivoci, noi!

L'altro tergiversava, ma Anna se lo prese a braccetto e s'avviò, dopo avermi avvolto in una occhiata di sprezzo.

Roveni intanto mi attendeva a capo della scala. Lasciò che le Moser ci precedessero, per dirmi:

– Sono stato ferito da due parti in una volta; dalla frecciata della Melvi e dalla risposta che lei ha data alla Melvi. Ma dica: per lei, io sono soltanto in una posizione equivoca, o è equivoca la mia condotta?

Non aveva certo l'aria di un provocatore; in quella sua calma però scorgevo il desiderio di metter carte in tavola. Sarebbe stata forse diversa la mia risposta se mi fossi ricordato del proverbio: «chi è in difetto è in sospetto»; ma gli scienziati, per quanto psicologi, han poco uso di proverbi. Sinceramente, senza attenuazione alcuna, risposi che potevo arrogarmi il diritto di giudicare la condotta di Anna, non la sua.

– Non credo – aggiunsi – che lei sia uomo da percorrere vie oblique, e non la credo affatto in una posizione falsa.

L'ingegnere disse: – Grazie; ad ogni modo, desidererei parlarle in proposito. Ma lei non viene mai a trovarmi alla fabbrica!

– Verrò domani; sarà la visita di congedo.

Non mostrò meraviglia della notizia e conchiuse: – L'aspetto.

Sulla porta m'attendevano le sorelle; e noi tre soli c'incamminammo per il paese. Nella maniera con cui Ortensia mi scrutava era evidente il pensiero: «Lei lo sa già il bene che le voglio. Non avrà una buona parola per me?»

Perciò essa aveva voluto restassimo soli; ma io, io, che avevo ceduto temendo lo scorgere degli invitati alla festa, non volevo piegarmi.

Mi risonavano all'orecchio le parole di Roveni; mi rimproveravo e insieme mi rinfrancavo pensando alla lealtà di lui; mi pareva nello stesso tempo che io avessi tardato troppo a frenar la passione di Ortensia; e ch'ella vi si abbandonasse troppo debolmente.

E non potevo dirle: – Se tu sapessi il bene che ti voglio!

Quasi strappandosi dai suoi pensieri, Ortensia esclamò:

– Sai, Marcella? Sivori non parte più per ora.

– Come? – feci io nel tono di chi respinge un brutto scherzo.

– Si è sfogato. È stato feroce. Non saran più i pettegolezzi di Anna che lo faran partire così d'improvviso. Ad Anna nessuno bada più; neanche Roveni.

– Ma io non parto per questo!

– Perchè dunque? – fece Marcella senza malizia.

– Perchè lunedì debbo essere a Milano.

Ortensia ritardava il passo sì da lasciar avanzar un po' la sorella, e velata di subitanea tristezza, mormorò:

– Non credevo…; non credevo…

Le chiesi a voce alta:

– Che cosa non credevi?

Mormorava:

– Che lei mi tenesse ancora per una bambina…

– Ma no! via!

– Leggera, dunque; capricciosa; falsa, come Anna!

– Chi t'ha detto questo? Non è vero!

– Si vede, si vede!

– Ti prego, Ortensia…

Marcella, che si era fermata ad attenderci, rise.

– Vi bisticciate?

Proseguimmo in silenzio.

Io vincerei; ma a che prezzo! Nè tardai ad avvedermi che l'intima battaglia di Ortensia superava forse, per asperità, quella che io sosteneva in me. Ah il sogno della giovine innamorata s'abbatteva; s'infrangevano le ardite speranze contro la mia durezza? Ma il silenzio di lei mi significava che la giovinetta, che per un momento avevo creduto debole, già m'opponeva la fierezza di una passione pienamente consapevole, di una donna già consapevole e guardinga della sua dignità. Dalla bella persona, alta e snella, che mi camminava al fianco, ricevevo una impressione di severità e di nobiltà, che non poteva essere solo l'abito elegante e di colore insolito a conferirle.

 

Quant'era mutata in pochi giorni! Nè era quella mutazione un travisamento innaturale e transitorio, quale deriva talvolta da un gran dolore; era come un raccoglimento rapido eppur naturale e duraturo che una misteriosa energia aveva imposto a quell'animo irrequieto e della quale tutta la persona pareva improvvisamente dominata e investita. Non osavo guardarla negli occhi, nei begli occhi in cui poco prima avevo scorto uno stupore di gioia e di vita nuova e poi un tremulo desiderio d'abbandono: temevo ora di scorgervi lo sdegno e il rimprovero di un'imperdonabile offesa.

Per togliermi e togliere Ortensia da tanta pena cercavo invano d'apparir disinvolto, traendo argomento a discorrere da ciò che osservavo nella via.

Ricordo che dalla piazza avanti la chiesa un figuro giullaresco chiamava a suon di tromba gli ultimi curiosi attorno a una sonnambula.

– Facciamoci dir la sorte anche noi – propose Marcella. – Io acconsentivo; ma Ortensia: – No. Non voglio! non voglio profezie di sventure!

– Sciocchina, ci crederesti?

Non rispose alla sorella; tacita diede a me una di quelle occhiate che mi passavano sul cuore come su di una ferita un'acuta punta.

Più tardi, da una svolta venne verso di noi un uomo, che riconobbi da lungi, benchè a stento. Com'era deperito l'onesto Martino, il merciaiuolo ambulante, da poi che non l'avevo rivisto! Curvo, portava in ispalla un piccolo sacco e gli pendeva la bilancia dall'altro braccio.

– Come va, Martino?

– Ah! – fece egli in atto di chi è stato colpito da un'enorme disgrazia.

Marcella chiese:

– Vostra moglie?..

Ma egli si mostrò afflitto per ben altro che per la perdita della moglie! Allorchè potè parlare, brontolò:

– Mi è morto l'asino…

L'asino che io avevo invidiato era morto! Il ricordo mi fece sorridere. E Ortensia:

– Ecco il sorriso brutto… che speravo non vedere mai più!

– Tu non sai il perchè sorrido. Sorrido perchè un giorno io mi confrontai all'asino di Martino; e c'è chi mi crede un grand'uomo!

A lei alludevo, che forse era stata indotta ad amarmi dall'opinione che i suoi avevan di me.

Proseguivo:

– Sorrido anche perchè, a mio scapito, un giorno io mi confrontai a Martino, che ora piange la morte dell'asino come non piangerebbe la morte di sua moglie. E c'è chi mi crede un uomo diverso dagli altri!

Con la mia stessa ironia Ortensia ripetè la frase udita più volte da me:

– Ogni infamia è possibile…: anche che lei non sia diverso dagli altri.

Tacqui, io, ora; e forse per il mio silenzio la sua speranza si ridestò in un tentativo estremo.

– Da tanto tempo – mormorò – io mi son detto che non c'è uomo eguale a lei. Perchè dovrei essermi ingannata?

Era pur dolce sentirla parlare senza ironia, senza amarezza, con pentimento, con fede! Tacevo.

Fissandomi quasi per accendere ne' miei occhi smarriti la fiamma che aveva nell'anima e per vincermi con una confessione ardita e violenta:

– Sì! sì! – ripetè senza dire di più.

Sì: non si era ingannata; voleva non essersi ingannata nel concetto di me; sì, mi amava. Ma io chinai il viso…; non volevo vedere ciò che di più sublime può attingere l'idealità e la passione umana: come nella bella e fiorente giovinezza di una tal creatura una misteriosa inspirazione aveva reso perfetto il sentimento della vita con l'improvviso palpito dell'amore.

Essa… Ancora sperava?

– Mino – disse dopo un poco – m'ha chiamata, stamattina al suo letto per dirmi in un orecchio: «Se Sivori mi prende a Milano, ci vieni anche tu, Ortensia?»

Mi riferiva l'innocente domanda del fratello per intenerirmi; ma fu come non avessi udito.

– Da Milano, lei, va dopo a casa sua, a Molinella?

– No: all'estero. Laggiù andrò quest'altr'anno; d'estate.

– E non verrà a Valdigorgo?

– Non so se potrò venirci.

Non le restava più alcuna speranza! Tornò d'un tratto sarcastica.

– Ci ha qualche sorella, laggiù?

Ah! quanto male mi fece! Eppure non dissi: «Perchè mi fai tanto male?»; risposi:

– Non ci ho che due vecchi: il Biondo e sua moglie.

– Le vogliono bene?

– Poveri vecchi!

– Ah dunque c'è qualcuno al mondo che le vuol bene!

Così, con la mia stessa ironia…

E non parlò più. Nel caffè, dove sedemmo ad attender Guido, fingeva leggere i giornali. Ma quando Guido giunse, gli chiese impaziente:

– Il babbo tarderà molto?

Oh se tardò!; se fu grande la pena dell'attesa!

Infine rammento che Moser venendo a noi, con la carrozza, annunciò:

– Il primo premio all'assessore; il secondo a Roveni. – E rivolto a me e a Guido: – Voi due avete fatto bene a squagliarvi. Costui (accennava a Guido) tira ai piccioni come tu, Sivori, tiravi alle anitre. – Mentre parlava, Claudio guardò Ortensia, aggrottò le ciglia; quindi le chiese: – Cos'hai?

– Nulla, babbo; perchè?

– Mi pareva…

Marcella nel salire in carrozza mormorò in modo che io solo la udissi: – Cervellina!

XXII

Quando entrai alla fabbrica, Roveni, su la porta della piccola casa che serviva a dimora ed ufficio del direttore, era intento a una faccenda strana, quantunque potesse parere uno spasso di dopo colazione: ripuliva un rewolver. Del resto, con l'usata franchezza di parole e di modi, egli impedì subito la mia meraviglia.

– Mi brucia d'esser stato battuto ieri, al tiro. Ho sbagliato l'ultimo piccione. A tiro a segno non sarebbe andata così.

Nè mi meravigliò il rancore che dimostrava così dicendo; indizio di tenacia anche nell'amor proprio.

Aggiunse:

– Voglio vedere se oggi ho il polso fermo.

Appena fuori della porta era una carretta da trasportar mattoni. A una parete di essa egli segnò un cerchio; si mise a distanza di una quindicina di passi; mirò per alcuni istanti, e sparò.

– Centro! – disse un operaio che accorse per primo.

– Bravo! – feci io. Roveni con un lieve movimento del capo significò: n'ero sicuro.

Non m'invitò a tirare, quasi dubitasse di umiliarmi; tranquillamente riprese a pulire il rewolver. Chi avrebbe dubitato che tutto ciò seguisse a un proposito e tendesse a un fine recondito?

Poi entrammo nell'ufficio; d'onde, dall'ampia finestra, si osservava l'andamento laborioso degli operai. Laggiù, coloro che informavano le crete agli stampi e la lunga fila delle carrette che recavano alla fornace il materiale pronto alla cottura: un'altra fila di carrette ne usciva con il materiale già cotto. Risonavano i mattoni nel venir scaricati e ammucchiati. Transitavano intanto, con fragore di ruote e tinnio di sonagli e voci di birocciai, le birocce di trasporto alla ferrovia.

La produzione era davvero grande. Come spacciare tanta roba?

– Ora Moser ha una buona idea – disse Roveni mentre, deposta l'arma, rovistava su lo scrittoio. – Pensa di costituire una società in cui entrerebbero altri appaltatori… Purchè non v'entrino le piovre!

– Chi sono?

– Si capisce: amici; ai quali è costretto a ricorrere nei momenti d'angustia. Per il fondo di scorta non gli bastano certe volte i prestiti concessi dalle banche. E la piovra più insaziabile è il signor Learchi.

– Learchi!.. – esclamai stupito. Che Learchi fosse stato un affarista un tempo, lo sapevo; ma lo credevo… in riposo. E apprendevo ch'egli strozzava il padre della sua futura nuora, quando gli si sarebbe dato, tutt'al più, del burbero benefico!

– Com'è difficile conoscere gli uomini!

Ora che cerco di rappresentarmi Roveni quale mi si dimostrò in quel giorno, con ogni sua mossa e parola, ne ricordo la fuggevole occhiata alla riflessione con cui accompagnai l'esclamazione di meraviglia. E ricordo ora che non di rado egli aveva di tali occhiate, le quali sembravano sfuggirgli, per quanto fosse padrone di sè, come sospettasse d'esser lui in sospetto d'altri. Ma già Roveni aveva trovata la carta ricercata.

– Vede? – disse. – È la proposta di un impiego per me. Potrei uscire anche adesso, subito, dalla posizione apparentemente falsa in cui mi trovo…

Richiamandomi così direttamente a quanto egli mi aveva detto dopo il mio dibattito con Anna, l'ingegnere s'imponeva di nuovo, più leale di me, al mio giudizio e alla mia stima. Per il peso della simulazione che io avrei voluto gettarmi d'addosso, e non potevo, tentai interrompere il discorso.

– Le ripeto che lei non mi deve alcuna spiegazione.

– Anzi! – ribattè egli. – Io ho proprio il dovere di spiegarmi con lei. Lei è il più fidato amico della famiglia Moser ed è bene che veda chiaro nel mio modo di procedere. È strano che un giovane della mia età, non un bambino come Pieruccio Fulgosi, pensi sul serio a una ragazza e si contenti di guardarla senza dirle nulla. Sembra un mistero.

– Ma io so che Eugenia volle promessa da lei di tacere ad Ortensia, per adesso…

– Ah! sa? Benissimo! Ho avuto riguardo alla signora Eugenia, che è tanto apprensiva; e ho mantenuta la promessa, da uomo leale. Ma questa lettera, questa proposta d'impiego mi scuserebbe abbastanza se uscissi da ogni riserbo. Diavolo! Posso provare che un impiego non mi mancherà, e con tutto il rispetto alla signora Eugenia, potrei cominciare a corteggiare Ortensia, che non è più una bambina… Invece, no: lei ha visto; lei vede come mi comporto. Perchè? Appunto perchè non mi piace di stare in una posizione falsa; perchè io debbo riguardi anche a Moser e non voglio si dica che, mentre mi dispongo ad abbandonarlo, gli innamoro la figliola senza avere la certezza assoluta di sposarla. La certezza assoluta! L'impiego che mi propongono non l'accetto: è vantaggioso; molto vantaggioso; ma non mi soddisfa del tutto. Eppoi: non voglio, non debbo abbandonare Moser finchè non si sia provvisto di un altro direttore, o non abbia costituita la società.

Costui era un uomo! Io?.. Mi sentivo umiliato, avvilito; ebbi di nuovo una smania impetuosa di riscuotermi, di svelarmi, di non restare inferiore a lui.

– La sua condotta, ingegnere, non merita che lodi. Suo solo errore è d'aver preso per sè un rimprovero che non era nelle mie intenzioni; che lei forse potrebbe riferire a me stesso.

Egli mi fissò come non era solito e come chi dubita d'aver frainteso.

Quindi disse (e io non badai che le sue parole non s'accordavano del tutto all'espressione da me attribuita alla sua occhiata):

– Lei pensa che io abbia dato retta alle chiacchiere di Anna? – E scrollò le spalle.

– Quali chiacchiere? – domandai. – Che io sono innamorato di Ortensia?

– E che Ortensia è innamorata di lei.

Se io mi lasciavo andare alla confessione del mio amore, non compromettevo Ortensia, per allora e per l'avvenire? Perciò sorrisi in modo che quel sorriso valeva una menzogna; e dissi:

– Lei non crede ne l'una cosa nè l'altra? Perchè?

– Prima di tutto, perchè lo dice Anna. Povera diavola! Cercava persuadermi che lei sposerebbe Ortensia, naturalmente per trarmi nella rete. Non poteva capacitarsi, Anna, che Ortensia mi piacesse davvero!; sperava sostituirla! Ma ha visto ieri come dà la caccia, adesso, al dottor Minguzzi?

Intanto Roveni lasciava sospeso il discorso di prima. Ripresi io:

– E per quali altre ragioni le sembra inverosimile ciò che la Melvi dice di me e di Ortensia?

– È impossibile che un uomo come lei abbia voluto innamorarsi di Ortensia; un uomo di studio, di studi ben diversi dai miei; un uomo che forse non ha mai pensato ad accasarsi e che, se mai ci pensasse, non si perderebbe con una giovinetta…

– Oh bella! – esclamai dissimulando la ferita che mi diede quest'argomento. – Non è possibile che io abbia voluto innamorarmi? Non potrei essermi innamorato senza volere?

– No. Io non credo all'amore fatale dei romanzi. O meglio, credo che gli amori romanzeschi siano per la gente debole, malata, senza volontà. La volontà, per me, entra anche nell'amore.

– Uhm! – feci io lieto di dare al colloquio un avviamento di discussione psicologica. Ed egli:

– Anche nell'amore c'entra la volontà! Ma scusi: un uomo sano, normale, con la testa a posto, desidera una donna. Che deve fare per ottenerla? Deve misurare gli ostacoli che lo separano da lei. Sono superabili? Avanti! Non sono superabili? E allora non ci pensa più!

– Il guaio è che l'amore accieca, fa perder la testa.

– Accieca chi non ha occhi; fa impazzire chi non ha giudizio!

– … O illude: attenua gli ostacoli che sembrarono superabili. In chi non li può superare l'amore diventa poi romanzesco, come dice lei.

 

– L'uomo sano deve prevedere questo pericolo!

Poi con la sicurezza di un giusto orgoglio Roveni troncò la teoria per addurre l'esempio di sè.

– Io spero di non illudermi; spero di superare gli ostacoli che si frappongono per adesso a fidanzarmi con Ortensia; voglio superarli. Non ci riuscirò? Non mi ammazzerò per questo, come si usa nei romanzi. Solo – aggiunse – si può vivere anche senza moglie!

Quell'uomo di volontà indomita, quell'uomo che con la energia della persona e della fisionomia pareva domandar a confronto la saldezza del granito o del bronzo, e che pareva condensare e raffreddare a un tempo tutta l'energia dell'animo e dei nervi nello sguardo degli occhi chiari, quasi bianchi, quando disse: – Si può vivere anche senza moglie! – tremò nella voce; le sue labbra ebbero un tremito! Ora io domando: chi a osservare così vivi contrasti avrebbe giudicato tal uomo all'opposto di quel che lo giudicavo io? Per me era un forte che amava fortemente; che aveva giurato a sè stesso: o Ortensia, o nessun'altra!

Con amarezza; con invidia non abbastanza respinta nel cuore, osservai:

– Lei però dimostra anche che quanto più son gravi gli ostacoli, tanto più aumenta l'amore, sia o no volontario…

Non si diè per vinto. Esclamò:

– Bene! Ecco perchè lei, dottor Sivori, non può essere innamorato di Ortensia! Che cosa le impedirebbe di sposarla, se la volesse?

– La differenza di età.

– Che! Moser per darla in moglie a lei aggiungerebbe dieci anni addosso a sua figlia!

– Ma io potrei non volerla per timore di renderla infelice; per la fiducia almeno che moglie di un altro sarebbe meno infelice.

L'ingegnere ruppe in una sghignazzata. Rideva di rado, ma quando rideva, rideva così: con violenza.

– Oh questa è grossa! Questa farebbe ridere anche in un romanzo! Amare una donna vuol dire desiderare di renderla felice; vuol dire sperare, aver certezza di renderla felice, come nessun altro: se no, che amore sarebbe? – E proseguì: – Ma lei scherza! Si vede. Non nego però che forse qualcuno le darebbe ragione, a costo di far ridere i polli. Piuttosto che confessare la propria debolezza c'è chi cerca di gabellare la debolezza per eroismo, e chiama egoisti gli altri. Io non li posso soffrire… So bene che lei non è di questi! Lei scherza!

Nelle ultime parole Roveni insistè per escludere assolutamente il sospetto di un'allusione; mentre io sorridevo proprio a mo' di chi ha scherzato. Per non scherzar più, avrei dovuto dirgli: «Ebbene: Ortensia sarà mia!» Ma una voce mi diceva dentro: – «Il tuo sacrificio è ridicolo per lui, per la sua forza; ma tu devi compierlo per la felicità d'Ortensia!»

Tuttavia il discorso non era compiuto. Fiaccamente, quasi solo per proseguire nell'argomento scherzoso, chiesi anche:

– E perchè Ortensia non potrebbe essere innamorata di me?

– Innamorata? Come dice Anna? Eh!, conosco le donne! conosco le ragazze! Un capriccio…; un fuoco di paglia, potrebbe darsi; se lei stesse ancora qua, o tornasse presto: sarebbe un primo amore; e io mi ricordo di quello che disse lei del primo amore a proposito di Pieruccio. Una ragazza come Ortensia, a diciassette anni, non fa passioni… Affezionarsi, sì. Questo è indiscutibile: a lei Ortensia è molto affezionata; ed è un bene. Io ne sono contentissimo!

Spalancai gli occhi. Egli proseguì tranquillamente:

– Da un po' di tempo s'è fatta più seria, la signorina! Aveva tanti capricci! Ma adesso diventa una donnina a modo. Brava! Perchè c'era da preoccuparsene. Non sono un poeta io; sono un meccanico!

Quasi per concludere, ma in realtà per togliermi ogni timore in proposito e ogni scrupolo, io mi sforzai a domandargli anche quando penserebbe di chiederle la mano d'Ortensia.

– Appena sarò sicuro del mio avvenire; gliel'ho già detto.

– Ma lei è sicuro del suo avvenire!

– Non ancora. Le ripeto che non amo i castelli in aria e che sono un uomo leale. Cerco un buon impiego; stabile. Quando l'avrò trovato, mi terrò sciolto dalla promessa che ho fatta alla signora Eugenia e parlerò liberamente a Ortensia. La mia partenza, a ogni modo, non sarà avanti la primavera di quest'altr'anno; così avrò tempo di spiegarmi anche con Moser. Va bene?

Gli strinsi la mano.

Forse un altro che ricordasse il proverbio «guardati da chi si dice uomo leale», un altro forse avrebbe sospettato un motivo recondito e oscuro alla condotta di Roveni; avrebbe potuto diffidare di lui appunto perchè egli aveva voluto dissipare ogni possibile equivoco.

Ma io! Io mi chiesi: «Se fossi davvero fratello di Ortensia potrei desiderare per mia sorella marito migliore?» La scienza mi suggeriva ch'egli era un uomo eletto per forza, equilibrio, sanità, saviezza, fede, predominio di sè e dominio della vita.

Che ero mai io al paragone di lui?.. E Ortensia non saprebbe mai il mio sacrificio!

«Ah morire per te, sorellina!»

Essa non era rimasta ad attendermi; ma vedendomi tornare, mi aspettò presso il cancello. Non sorrise; non mi chiese di dove venivo. Disse:

– Porto l'elemosina a Giovannin. Quanti giorni ce ne siamo dimenticati!

Allora sorrise; con l'ineffabile tristezza di un bel sogno dileguato. Poi disse:

– Gli dia qualche soldo anche lei, per domani, che è festa.

Come Ortensia, senza dir nulla, pose il cartoccio su le ginocchia del cieco, questi trattenne il suono dell'organetto e alzando quel suo volto, che l'improvvisa gioia illuminava accrescendo l'orrore delle pupille spente, esclamò:

– Ortensia di Claudio!

– Mi vuoi ancora bene, Giovannin?

Egli rispose, goffamente solenne:

– Come a Dio!

– Prendi – dissi io, buttandogli alcune monete nel cappello.

– Voi chi siete? – domandò allora il cieco perplesso, serio; meravigliato egli stesso, pareva, che la voce non gli manifestasse di subito la persona. Finchè rise dalla enorme bocca, che mostrava i denti candidi, e con modo di stupida furbizie:

– Ah! Lo so chi siete!

– Chi sono?

– Lo so! lo so!

Era contento; godeva a indugiare nella risposta. Esclamò infine:

– Siete…: lo sposo di Ortensia!

Ella arrossì, mentre io ridevo più stupidamente del poveretto.

– Suona Giovannin…; – Ortensia disse con intenzione ironica, nell'avviarsi.

Quando fummo di nuovo al cancello (e il cieco straziava l'«addio, mia bella, addio!») essa mormorò:

– Giovannin è forse da invidiare!

Io avevo l'angoscia alla gola; avrei voluto ribattere: «Anch'io credetti invidiarlo un giorno! Ma tu in avvenire sarai felice!»

Chiesi invece, per celarmi:

– Dove vai?

– Su in casa, a cucire.

Nè la rividi in tutto il giorno. «Mette a prova la sua forza di volontà – io pensavo. – Se resiste alla tentazione di star meco le ultime ore, resisterà all'amore fino a guarirne, e forse in breve». Anche lei più forte di me!; ed essa ignorava quant'io soffrivo!

Sul tardi Eugenia, passando dalla sala terrena e scorgendomi solo, si meravigliò e ristette.

– Ortensia non è qui, con voi?

– No: m'ha detto che saliva a cucire.

La madre scosse il capo.

– Al solito – disse – : ieri si è divertita, e oggi è un brutto giorno. Vedete se ho ragione di lamentarmi? Non si fa forza nemmeno per non dispiacere a voi, gli ultimi momenti che siete qua.

Che dire? Pregai che la lasciasse queta; tentai scusarla con lo stesso argomento: il malumore, dopo le ore di svago, era segno di una rara, bella facoltà spirituale…

– Voi la scusate sempre! – disse l'ingenua madre.

Quindi volse il discorso alla mia visita alla fabbrica, della quale l'avevo informata la mattina.

Credei desiderasse sapere se Roveni m'aveva parlato di Ortensia. Ma ella mi prevenne:

– Roveni v'ha parlato di Moser? degli affari?

E vedendomi incerto, aggiunse:

– Io non so nulla, non debbo saper nulla. Claudio è fatto così… Parla di tutto in casa, fuor che degli affari. Ma la notte è spesso desto…; sospira. Temo mi nasconda qualche cosa di brutto.

M'affrettai a dirle del disegno che Claudio aveva di comporre una società e che Roveni approvava; sebbene Claudio stentasse a ridurcisi. – Vorrebbe esser solo; far tutto da solo. Però sarà meglio limiti le sue fatiche…

– Certo che sarà meglio! Così non potrebbe continuare. Si consuma l'esistenza…

Tranquillata intorno a ciò, Eugenia mi domandò se Roveni mi aveva parlato di Ortensia.

Con acerba soddisfazione della mia coscienza, con l'acre voluttà di contrappormi all'ingegnere e di essere forte come egli non avrebbe immaginato mai, le risposi di sì: me ne aveva parlato; mi aveva manifestato chiaramente le sue intenzioni.

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