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In faccia al destino

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Egli l'amava tanto, Ortensia, che aveva giurato a sè stesso: – o Ortensia, o nessuna!

– Farà felice la vostra figliola; e sarà degno di lei.

Questo dissi!

– E di Ortensia, voi, che cosa pensate?

– Ha molta stima di Roveni; dalla stima verrà la simpatia, l'amore.

Questo dissi! Avevo vuotato il calice sino alla feccia! Ma Eugenia, la buona amica che per bontà mi leggeva nel cuore, questa volta non mi lesse nel cuore.

XXIII

L'agonia cominciò la mattina dopo; la domenica. L'ultimo giorno! Perchè si ostinava Ortensia a starmi lontana anche in quelle ultime ore? Per nascondermi il suo dolore, l'amore, lo sdegno? Per dimostrarmi la sua fierezza? Avrei dato metà del mio sangue per rivedermela lieta dinanzi ancora una volta, come quando accorreva ad augurarmi il buon giorno, e il sorriso in cui m'appariva tutta la sua persona placava la cura che mi rodeva. Non più quel sorriso! Mai più! Patire, frattanto, il castigo quasi d'un delitto; dubitare che fosse insania non l'amore ma l'azione generosa che mi era imposta da un destino crudele… Ortensia! Ortensia! Era una crudeltà… Non poter chiamarla a voce alta per quelle ultime ore; non poter invocarla a sostenere con la sua presenza quell'agonia…

Dalla terrazza udii affrettare passi alla mia volta. A distrarre la mia pena veniva invece il cavalier Fulgosi con un fascio di giornali, che sollevava e agitava come un trofeo.

– Dottore! Hurrà!

La Campana e Il Corriere della Valle, allora giunti, riferivano che alla festa del 20 settembre in Valdigorgo era stato presente anche un illustre scienziato; perciò il cavaliere veniva a portarmeli così per tempo, e a portarne copie alle signorine. Ma perchè io partivo l'indomani? Avrei potuto, dovuto attendere a partir con lui e con la sua signora appena Pieruccio sarebbe ritornato da Varezze, ove era guarito…

(Pieruccio era guarito!..)

– Si guarisce presto dell'amore a diciassette anni! E le medicine della giovinezza sono dolci. Ma alla mia età – sospirò Fulgosi traendo di tasca lo specchietto – è amaro non poter ammalarsi così! A me non resta che trovar dolci le amarezze della politica. Eppoi…: tout passe, tout casse, tout lasse!

Per non apparir gioioso, qual era, della réclame che s'era fatta egli stesso nei giornali, si mutava a quell'aria di melanconia.

Sospirò e disse:

– Lei, dottore, almeno ha la scienza…

– Almeno?

Vedendosi in pericolo, aggiunse subito:

– … se sdegna l'amore.

– E chi le ha detto che io lo sdegni?

– Nessuno… Immagino…; suppongo…; forse… Ah! è qua l'amabile Ortensia. «Venite a noi parlar, s'altri nol niega!»

Ortensia, che sopravvenendo salvava il cavaliere dalla china perigliosa, non si curò di lui e si rivolse a me concitata, quasi per ira mal rattenuta:

– A messa in paese io non ci vado! Vado all'Oratorio. M'accompagna lei, Sivori?

Io non avevo ancor risposto che Fulgosi s'inchinò come a una regina, e disse:

– Anch'io, se crede… – Ma ella l'interruppe, evidentemente decisa a non volerlo.

– Domenica prossima m'accompagnerà lei, cavaliere.

– Volentierissimo! Parigi val bene una messa!

– Farà lei questo sacrificio… – E Ortensia mi guardava.

– Un sacrificio – il cavaliere oppose – che il corrispondente della Campana invidierebbe. Legga, signorina, che cosa si dice qui… – E le porse uno dei giornali.

Da prima sommessamente, poi forte, Ortensia lesse; ma nel suo volto pallido la lettura sostituiva tosto alla noia un'impronta di sarcasmo. Mi parve di vedere un'anima intristita. E quando dalle lodi del cavaliere «oratore splendido», degno di essere assunto non pure «alla più alta carica municipale, ma a quella di rappresentante dell'intera nazione», il corrispondente passò a descriver la festa, a nominar le persone cospicue del pubblico e a vantar le «ideali parvenze» delle signorine Moser, allora Ortensia proruppe: il cavaliere rimase innondato da un'onda di torbida ilarità.

– Ma bravo! Bravo, signor cavaliere! E lei crede che nessuno se n'accorga? Ah Ah! Ma la corrispondenza l'ha fatta lei! Tutti lo capiranno; e se qualcuno non lo capirà, lo dirò io! io! a tutti!

Fulgosi affogava. Si mise a scongiurare:

– No, signorina, non lo creda; non è vero; non lo dica!.. Anche se lo crede, per carità non lo dica!.. Noblesse oblige… Lei così gentile perchè vuol rovinarmi?

– A tutti! Tutti debbono saperlo! Mamma, Marcella, venite a leggere che coraggio ha avuto il cavalier Fulgosi!

Fortunatamente Eugenia e Marcella, le quali venivano già pronte per andare in paese, interpretarono quello sfogo come uno scherzo; e io stesso m'intromisi a mutar la cosa in gioco.

Salvo, il cavaliere s'accontentò dei ringraziamenti che gli fece Marcella; poi s'accomiatò più frettoloso di quando era venuto.

– Dunque – disse Eugenia – tu, Ortensia, che fai?

– Vado all'Oratorio.

– Un capriccio!

– Con Sivori, ci vado!

– Meno male! – disse Marcella. – Un capriccio questa volta che ha una buona intenzione!

– Io vado con la mamma – interloquì Mino, che certo aveva qualche affare in paese. – Piuttosto, di', Sivori (e mi susurrò all'orecchio): – Mi prendi a Milano?

Risposi sogguardando a Ortensia, quasi per mitigare con la mia dolcezza l'asprezza di lei.

– Volentieri, caro amico! Ma la difficoltà più grande è il permesso del babbo. Bisognerà trovare una buona ragione o una grossa bugia.

Il fanciullo meditò a lungo, finchè quasi sapesse che a me non era più difficile quel che ancora era difficile a lui:

– Dilla tu, Sivori, la bugia!

Intanto Ortensia raccomandava alla sorella; e alla madre: – Spicciatevi: se no, perderete la messa! – E a me: – Andiamo?

Appena ci fummo incamminati io vidi che dalla concitazione, dall'eccitazione di pocanzi il suo animo era caduto in una depressione angosciosa. Che battaglia aveva sostenuta, in sè stessa, per esser meco l'ultima volta! Certo non affidava più alcuna speranza a quella gita, ma voleva forse che io comprendessi il male che le avevo fatto, o comprendessi quant'era grande l'amore che io avevo ostinatamente respinto. Il dì innanzi aveva resistito in un proposito di fierezza: poi la passione doveva averla persuasa ch'era per lei maggior forza confessarmi tutto. Se non che ora, a ritrovarsi sola meco, non poteva nemmeno celare il panico che le incuteva il suo fermo proposito. Procedeva a capo chino, senza trovar parola. Tornava la giovinetta inesperta, intimidita dalla stessa passione che le aveva data tanta forza. E io dopo la scena di pocanzi mi sentivo più colpevole: avevo io forse intristita quell'anima?

Finalmente disse:

– Sono stata cattiva con Fulgosi! Ora me ne dispiace…

A udir la sua voce così diversa, a vederla così rabbonita, ebbi un infrenabile moto di consolazione entro di me; le sorrisi… L'amore ci voleva buoni entrambi, nell'ultima ora che stavamo insieme! Il sole, il cielo ci volevan buoni se non potevamo essere, per quell'ora, felici!

– Che giornata! – io dissi guardando intorno allo svoltar della viottola. Solo in un punto vapori candidi quasi impercettibili velavano il cielo: sul resto, nel chiaro azzurro, andava diffuso il sole ormai autunnale, e per i dorsi bruni dei monti e per gli spazi verdeggianti, e i molli declivi e i campi tracciati di solchi e carraie, effondeva una dolcezza che non ha la primavera. Sui tetti d'ardesia, nel paese, la luce si rifletteva come ad accenderli; prorompeva entro le finestre; vibrava intorno il campanile dalla croce scintillante in alto. Con più frequenza che in primavera giungevan pigolii dai campi, e richiami nitidi di luì e gazzarre festose di passeri. Bianche farfalle sorpassavano la siepe; vagolavano a due a due: lievi anime in rincorse d'amore. La costa boschiva dell'antico convento era immersa in un fulgore immoto, in uno splendore coerente e meraviglioso… Io mi ricordai d'un tramonto…

Ortensia guardava anch'essa; e ripetè: – Che giornata!

Indugiava quasi ad assaporare quella dolcezza; scosse il capo come quella dolcezza le si mutasse dentro, nell'animo, in una mestizia profonda. Quindi, per dire qualche cosa, disse:

– Don Pietro si spiccia in venti minuti. Ma il priore, in parrocchia, non la finisce mai.

Aggiunse: – Del resto, per pregar bene non basta un minuto?

– Anche meno, per chi può pregare. Tu non puoi; me lo confessasti.

Senza titubanza, ma con un breve rossore, ribattè:

– È vero. Quand'ero così allegra, dopo la guarigione della mamma, non ne sentivo il bisogno, di pregare, neppure per un secondo… – La voce le cadde interrotta perchè interruppe l'espressione del pensiero, che doveva compiersi nella esclamazione: «ma ora!..» Riprese: – Lei però non prega nemmeno quando è triste. Non crede a nulla!

A niente: nemmeno a lei, che mi amava! Invano ella mi aveva voluto tanto bene; invano mi amava così; e io, che non raccoglievo dalle sue parole il rimprovero e le lagrime, io ero perverso; ero spietato, io, che non osavo guardarla negli occhi e sorprendervi quanto amore vi tremava per me!

Esclamai:

– T'inganni! Oggi credo fino a me stesso! Mi sento buono oggi… E tu? – Mi sembrava di correre su l'orlo di un precipizio con il senso della vertigine. – E tu credi a ciò che senti?

– Certo!

Tacque a lungo, dopo. Voleva pur dire; e non osava; finchè i nostri occhi s'incontrarono.

Disse:

– Ho sempre pensato… una cosa strana!: che ci rassomigliamo, noi due… Ma io non so esprimermi! Ecco – proseguiva rianimandosi – se non ci rassomigliassimo, io non avrei tanta fiducia in lei. Invece, credo che con lei non avrei paura di nulla, che potrei seguirla, a occhi chiusi, nei più grandi pericoli…

Fin nelle parole c'era una voluttà d'abbandono! Perchè, strappato ogni ritegno, dimesso ogni infingimento, io non la riceveva ed essa non s'abbandonava nelle mie braccia? Fui per scongiurarla: «Abbi pietà di me, di noi! lasciami fuggire! Non dir più una parola!»

 

Sorrise.

– Ma quante volte ho creduto che lei mi credesse sciocca! Per fortuna, mi consolavo a indovinare…

– A indovinare che cosa?

– … i suoi pensieri…; che so?..; le cause del suo malumore. Lei invece… non ha mai indovinato nulla di me!

– Questo ho indovinato: che hai l'anima di tua madre e il cuore di tuo padre.

Il suo sguardo s'accese di una gioia istantanea…

Intanto chiamava la campanella dell'Oratorio, e affrettammo.

Poi rallentammo i passi senza che ce ne accorgessimo. Quando avrei voluto chiederle: – a che pensi? – mi chiese essa:

– A che pensa? – provocandomi, per disperazione, a finir quell'angoscia.

– A nulla!

– Non si può non pensare a nulla. La notte, al buio, cerco il sonno e non lo trovo, se mi viene in mente qualche cosa…; e provo a non pensarci. Ma che! Non ci si riesce!

– Tu hai diciassette anni – ribattei amaramente: – io venti di più. Alla mia età si può anche non pensare a nulla!

Ma pensavo, ancora, al male che avevo fatto!

Che possanza ogni mia parola, ogni mio atto, a poco a poco, di giorno in giorno, aveva avuta su quell'intelligenza e in quel cuore!

– Non hai fiori oggi – dissi chinandomi a raccogliere un fiore di colchico.

– Mi dia quello!

– No. È velenoso.

– Che importa? Me lo dia, Carlo!

E mentre lo fermava al petto:

– Non voglio più dirle: Sivori. Carlo: che bel nome!

Dal tono della voce m'accorsi che nel suo segreto più volte ella doveva aver ripetuto forte, così, il mio nome.

– Andiamo: arriveremo a messa finita!

Quando arrivammo il campanello indicava il Sanctus; le donne s'inginocchiavano.

Ortensia s'avvicinò a loro, là, dove ci eravamo rifugiati il dì della bufera. Ed io, poggiato al pilastro, liberamente, adesso, avvolgevo Ortensia del mio sguardo.

… Dove andrei? in qual parte scamperei ai mio soffrire? M'accogliesse, anzi che monti aprichi e boschivi, una landa; m'arrestassero lo sguardo i muri d'una città anzi che estendermelo un orizzonte sterminato: che importava? Per tutto ella mi seguirebbe a farmi soffrire! Dolente immagine, mi seguirebbe? o ridente? Salva del mio amore? felice un giorno nell'amore di Roveni? Ah se tutto non era vanità come l'ombra che ci proteggeva; se tutto non era illusione come la fede che le pareva sentire adesso, perchè il suo Dio non le toccava il cuore e non le diceva: «Sii di me solo?»

Non impazzivo! All'Elevazione abbassai gli occhi, per non vederla, e cercai invano nel mio cuore una preghiera infantile.

Ma se non potevo pregare, neanche potevo più maledire! Impossibile in quel trepido silenzio invocare, come un tempo, un disordine enorme che lanciasse il mondo delle passioni umane nelle tenebre e nella morte! Impossibile sognare mai più che una potenza suprema, mostruosa e gaia, si rivelasse a por termine alla sua commedia, ordinando: «Basta! Basta con l'amore!; col dolore!» Per i buoni, per gl'ingenui, per i forti, – se non per me – una fede, un Dio, c'era! E gettando lo sguardo all'aperto: «Sì, tutto nell'autunno deperirebbe e ingiallirebbe, e marcirebbe nell'inverno; ma in quel cielo cristallino e fervido, in quella letizia luminosa e festiva, risplendeva, certa, una promessa di vita.

Dal mio stesso dolore, nel sacrificio, non rampollerebbe un bene?.. Senza più ira, senza più gelosia mi provai a riguardarla…

E quando, finita la messa, la vidi venirmi incontro con quel sorriso di dolore non più respinto, ma palese e quasi solenne, io era deliberato al pari di lei. Lasciammo sfollare; indugiammo per il sentiero risalutando chi oltrepassava e ci salutava.

Tra gli ultimi fu una coppia amorosa. La giovane arrossì; il giovane ci fe' un saluto confidenziale.

– Lo ravviso…

– È un operaio della fabbrica. – Ma sì dicendo Ortensia ristette. Non più vane parole!

– Domani, dunque… È deciso?

Irremovibile nel pensiero, con il pensiero di fatalità che la parola comprendeva, risposi:

– È necessario!

Anche qualche passo procedemmo; Ortensia, a capo chino, oppressa.

Ma s'arrestò di nuovo raccogliendo tutta l'energia della sua volontà per guardarmi, parlarmi, dirmi con tutta la pietà, con tutto lo strazio del suo cuore nella voce:

– Carlo! Che cosa le ho fatto, io?

La guardai. Tacqui un istante.

– Senti! Senti che cosa mi hai fatto! – esclamai in uno sfogo di gratitudine e di passione. – Senti! Io ero un miserabile perchè non credevo più in me; desideravo la morte, la distruzione, il nulla; io era cattivo perchè invocavo a dividere un soffrire ignobile, per un egoismo feroce, un'anima buona, e cercavo una sorella. Ma la sorella vedeva sereno il cielo, ridente la terra, lieta come lei ogni cosa. Era tanto giovane! Sua madre era guarita, ed essa coglieva dei fiori, e cantava. E la giovinezza e la vita poterono più che l'apatia e la morte: io fui vinto: essa mi fece rivivere: mi ridiede la coscienza della vita… Ecco che cosa mi hai fatto!

Oh quello sguardo, allora!

Continuavo:

– Ma io che farò per te?.. Non è lontano il giorno che io scorgo, che io invoco per te, per i tuoi… per lui, lui, che ti ama e ti vuol sua… Io sento fin da oggi quel che t'augurerà quel giorno tuo padre. E tu sarai felice, perchè noi ti vogliamo felice! Tu dovresti essere felice, pienamente felice, per sempre! Ma se a Dio non bastassero le preghiere di tua madre; se contro il destino non bastasse il nostro volere; se mai in un lontano tempo la sventura passasse sul tuo capo…

– Carlo! Carlo!

S'abbandonò, rompendo in singhiozzi, disperata, al mio petto.

Io la risollevai un poco perchè, piangendo, vedesse nei miei occhi l'anima mia…

E la baciai nella fronte.

XXIV

Tànn!.. Uno… Tànn!.. Due… Sei tocchi così. Fosse la campana di bronzo buono, o l'aria pura fosse più capace che altrove d'estendere, limpide e vibranti, le onde dei suoni, l'orologio di Valdigorgo cantava le ore. Rispondeva a colpi piccoli, nitidi, frettolosi, da lungi, quello di Paviglio… Mezzanotte.

Io davo volta nel letto. A che pensare per non pensare a lei?

A quel che m'aveva detto Moser. Dopo desinare l'avevo affrontato nello studio mentre egli, allo scrittoio, faceva conti.

– Claudio: parto domattina con la prima corsa. Debbo essere a Milano nel pomeriggio; e ci sarò!

– A Milano? Benissimo! Sabato ci debbo essere anch'io. Puoi attendere. Ci andremo e torneremo insieme. – E si era rimesso a scrivere e a borbottar cifre.

Sapendo che irritarmi gl'impedirebbe d'irritarsi, avevo ribattuto in tono decisivo:

– Ti ripeto che io debbo trovarmi là domani!

– Tredicimila e quattrocento lire… Dicevi? Domani? Bene! Se è vero, va! Sabato però ci vedremo; torneremo insieme.

– Ti ripeto che mi converrà forse prendere la via del Gottardo…

– Mattoni seimila!.. I preventivi di Moser fallan di poco, caro amico! Gira e rigira, la spesa non sarà inferiore alle ventottomila lire… Eh! Eh! proprio così!.. Dunque? Ma che Gottardo! ma che Gottardo! Ti dovrebbe venire la malinconia di viaggiare, adesso! Non sai che tutto il mondo è paese ma che il più bel paese del mondo è Valdigorgo?; salvo il rispetto, s'intende, a Molinella, dove pure abbiamo riso molto… col Biondo… Ah! Mi dimenticavo le finestre; il ristauro alle finestre!..

Una pausa. Poi:

– Ho voglia di rivedere il Biondo e la Rita… Bei tempi quelli! E tirare alle folaghe?.. ora che sono presidente del Club! Perchè no? Se mi riesce… Sai che ho in mente di prendermi due soci nella fabbrica?

– È una bella idea, perchè tu lavori troppo; abbracci troppo…

– Se mi riesce, dopo, faccio una scappata a Molinella a trovarti… Ma… Tutto sommato: Ventottomila e settecento lire… Meno è impossibile!.. Ma a te di fermarti a Molinella, per un pezzo, non ti consiglierei. Voialtri Spinoza avete il nemico dentro di voi; avete bisogno di distrazioni più che del pane per vivere… Oh! mi credi proprio un imbecille?

Nel dir questo aveva gettata via la penna e m'aveva piantati gli occhi in faccia.

– Perchè?

– Credi che non me ne sia accorto, io, che te ne vai press'a poco com'eri quando venisti da noi? Non è vero che abbi necessità d'andartene! La verità è che dappertutto stai male! che neanche l'amicizia ti basta! che neanche Valdigorgo ti basta! Ma sei ancora in tempo per far l'ultima prova. Spicciati! Ammogliati!

– Se tu sei un galantuomo, e se io sono infelice, dovresti dirmi che sarebbe un delitto trascinassi una donna nella mia infelicità.

– Ma perdio! – egli gridò esasperato – : perchè sei tanto infelice?! perchè?

Gli avevo risposto quello che una volta sarebbe stata la verità piena e che purtroppo adesso non ne era che parte:

– Perchè non ho nessuna fede.

E a reprimere il suo sorriso più di pietà che di scherno, avevo soggiunto:

– Io non sono come voialtri che sapete prenderla pel suo verso la vita! Voi sapete perchè siete al mondo, perchè lavorate, perchè soffrite, perchè amate, perchè godete… Voi leggete nel vostro destino; nel mio, io non so leggere. Lasciami andare al mio destino: quello che è e quello che sarà.

– Il tuo destino è qui! – Claudio si era alzato in piedi; rosso di collera; si era battuta con la mano la fronte. – Qui! Nella testa! Altro che filosofia! Sai cosa ho da dirti? Che è peccato mortale volerti bene! Non lo meriti! Ti vogliam bene tutti; Eugenia, le ragazze, Mino; e per compenso, tu: «Lasciatemi andare al mio destino!» al Gottardo!

Dopo il quale sfogo la scena si era conchiusa con un fraterno abbraccio e con la mia promessa di tornar presto…

… Di nuovo mi voltai per il letto; pensai ai saluti degli amici dopo la conversazione: Roveni serio, sempre uguale a se stesso, m'aveva stretto forte la mano; il cavaliere si era industriato a commuoversi, con di più la preghiera d'inviargli le mie opere, cui farebbe degna meritata réclame; la sua signora m'aveva augurato buon viaggio con smorfie gentili e disinvoltura aristocratica; Guido, al quale avevo imposto di passare, scrivendomi, dal lei al tu, m'aveva detto addio grato e ridente nella faccia tonda, quantunque gli spiacesse la mia partenza, che gli diminuiva sempre più la libertà di amoreggiare e gli toglieva un protettore…

Le Melvi, per fortuna, non eran venute…

Transitava intanto, nella notte fonda, un tinnio di sonagli col rumor basso delle ruote…

Ed Eugenia mi aveva detto: – A Molinella ci avete i ricordi; ma la vostra casa, è qui. Nessuno vi vuol bene come noi.

E Marcella:

– Domani avremo tutti la luna!

… Io cercavo con gli occhi chiusi il sonno e non trovavo che le tenebre; e se li riaprivo, scorgevo dalla finestra aperta la serena oscurità celeste. In attesa, così, del giorno.

Finalmente: Tànn!.. Un'ora.

… Quanti giorni ero rimasto lassù?..

Dodici giorni dopo il mio arrivo avevamo portato Eugenia in giardino…

Curioso però il pensiero di Eugenia, a indagare il mio male nei primi giorni della mia dimora lassù! Con che sorriso io avevo risposto al dubbio di lei, che soffrissi per una passione d'amore!

Già: Amore e morte…

 
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha; non han le stelle!
 

… Un tempo io avevo studiato il terrore della morte in animaletti: in un sorcio; in una cavia. Ferii un giorno una passera, che precipitò senza un grido dall'albero, e quando fui per raccoglierla, sollevò le palpebre invocando pietà e aperse il becco come per l'ultima inspirazione di vita. Mi pareva vederla…

Meglio saltar dal letto; vestirmi; spalancar le vetrate e mettermi alla finestra, al fresco. O no; meglio rivoltarsi e guardare con gli occhi chiusi alle tenebre vorticose; meglio il buio che le stelle! Aspettare. Suonerebbe pure quel maledetto orologio, che non aveva battuta dei quarti d'ora; e i quarti dell'orologio di Paviglio erano così deboli che non mi giungevano.

Proprio una maledizione! Quando stavo per assopirmi transitò un'altra biroccia… Finchè, volta di qua e torna dall'altro lato…: tànn!

Ah finalmente suonarono quelle maledette due ore!..

Ma che mi veniva in mente adesso? quanta demenza travolgeva la mia povera testa? Che fatica persistere al desiderio d'alzarmi; d'uscire piano piano; e andar sotto quella finestra! Forse era socchiusa. Temeva addormentarsi…; voleva essere alzata alla mia partenza… Come Pieruccio! Scendere e mettermi sotto la finestra di lei… Ma Pieruccio era guarito dalla sua passione!

 

Io partivo com'egli era partito. Non guarirei? Avrei almeno il conforto d'aver compiuta una buona azione… E dopo? Non vederla mai più, se Roveni basterebbe alla felicità di lei! Quetare il dolore in una vita nuova, se quest'affetto aveva rinnovato in me una sorgente di vita; vivere… Oh meglio non pensarci!.. Vivere con un vano ricordo d'amore era la mia sorte…

Ah Roveni, lui sì che vivrebbe felice! Vile io ero stato! Vile! Avrei dovuto dirgli: – Io, io stesso, che l'amo, vi voglio felice! – Immaginavo un conflitto tra me e lui, quale sarebbe potuto avvenire. – Voi non sapete come io l'amo! Io che ho più anni, più esperienza, più pensiero, più anima di voi!..

Rispondeva Roveni: – Io sono giovane; e voi, ormai vecchio! Io ho pensato sempre alla vita; e voi ancora pensate alla morte! Io sono forte; e voi? La vittoria è dei forti!

Al sorriso che immaginavo seguire a tali parole mi raccoglievo in me con stento angoscioso…

Eppure dovetti cadere un poco nell'incoscienza del sonno, perchè presto, mi parve, suonarono le tre. Ma una eternità ci volle prima che un gallo cantasse.

Quando cantò balzai dal letto, da quel letto, per sempre!

Era uno stellato splendido. Da quanto tempo non avevo guardato alle stelle! Nel loro palpitante mistero vidi una luce che non avevo visto mai: una luce d'amore; sol ragione della vita alla nostra meschina conoscenza.

Finalmente, alle cinque, Claudio batteva all'uscio.

– Svegliati, che è tardi!

– Pronto!

– Faccio attaccare…

Non uscii che quando ebbi udito il rumore della carrozza.

– Se perdi la corsa, casca il mondo! – brontolò Claudio. – Non mi sono fidato di nessuno; neanche della sveglia! Andiamo?

– Aspetta… – diss'io. – Indosso il paletot… I guanti? Sono qui… Aspetta! Ho lasciato l'ombrello.

– Andate a prendergli l'ombrello! Presto!

– Il caffè, signor dottore? – pregava la vecchia cameriera reggendo il vassoio con le due mani.

– No, grazie…; scotta.

– Bevi…; c'è tempo!

Eccola…: Ortensia.

– Perchè alzarti? – La mia mano tremava reggendo la tazza.

– Quando la rivedremo? – ella disse; perchè il padre la guardava.

Ecco anche Marcella.

– Ohe! signorine complimentose! Vostro padre, non si saluta?

E a me Claudio ripeteva burbero: – Andiamo?

Marcella disse: – Buon viaggio, Sivori; non si dimentichi di noi. Ci scriva! Ci scriva spesso!

– Addio… – La sua mano era fredda.

Quando già salivamo in carrozza giunse anche Mino; senza bugie, ma, caso mai non tornassimo tosto, con la tromba in una mano e il tamburello nell'altra.

– Vengo con te, Sivori!

– Via! – gridò il padre, frustando Sansone.

– Addio!

– Buon viaggio! Buon viaggio! – ripetevano Marcella e i servi.

Ortensia non disse nulla; mi guardò; sorrise appena; trasse d'impeto nelle sue braccia Mino, che urlava piangendo:

– Voglio andare a Milano, con Sivori!

Come la carrozza svoltava dal cancello, scorsi quello sguardo lungo; che mi seguiva. Essa pareva tendere a me col fanciulletto, che sosteneva da un lato per vedermi…

Quello sguardo lungo, privo di lagrime, mi seguiva innocente e doloroso quale lo sguardo d'una vittima.

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