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In faccia al destino

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PARTE SECONDA

I

Mi ero proposto di rimanere a lungo a Berlino, perchè ivi spendevo assai ed ero costretto a lavorar molto.

La moda mi aiutava a scrivere articoli o relazioni di pseudo-scienza per giornali e periodici non solo d'Italia; e per lo più volgevo in apparenze di sociologia facili osservazioni intorno la vita privata e pubblica della Germania. Allorchè qualche rivista, di quelle più gravi, mi impose argomenti più seriamente scientifici, fui obbligato a studiare «sul serio»…; e di tutto ciò, in fondo, ridevo amaramente. Però al disprezzo dell'opera seguiva in me un conforto anche maggiore di quel che dà il lavoro per sè solo; il conforto di una nuova energia che mi sosteneva quando mi sentivo più stanco. Era la coscienza di me stesso ricuperata; era un impulso di emulazione per cui, al solito, mi confrontavo a Roveni quasi a un ideal tipo di uomo temperato a una vita sana e potente. Roveni mi aveva creduto debole. Ebbene, ora io faticavo duramente per vivere e vivevo per vincere la mia passione.

Ma vincerei? Tutto ciò che non era ricordo di Valdigorgo mi pareva fittizio, erroneo, falso; e rincasando ogni sera, nel silenzio dopo il tumulto, provavo l'impressione di un artista comico che si spogli degli abiti scenici per tornare alla vita vera; e con un abbandono, quasi violento, ai ricordi tornavo lassù.

Soffrivo in modo che m'era necessaria una speranza. Speravo appunto che quella mia condanna volontaria, quel mio esilio volontario, quel mio faticar volontario un dì o l'altro finirebbe; uscirei da quello stadio di prova; supererei la prova. Dopo, raccolte e ricomposte tutte le mie forze, ritemprato e tranquillato, io potrei rivederla, Ortensia; potrei risentirne la voce… Oh se l'amavo ancora!

Più spesso che nei sogni, nella prima apprensione del sonno l'immagine di lei tornava a me, non dolente ma sorridente; così viva che sobbalzavo… – Ortensia! Ortensia! – Avrei voluto chiamarla, la chiamavo a voce alta, come lassù…; ma io non udivo dentro di me la sua voce; non riuscivo a ricuperare nella memoria il timbro, il suono preciso della sua voce; ed era uno spasimo.

Una volta, a una festa dell'ambasciata italiana, stavo chiacchierando con un giornalista, quando egli, d'improvviso, mi vide impallidire e mi chiese:

– Che avete?

Avevo intravvista, agile e bionda, passare nella ressa, tra le signore, una giovinetta… Le rassomigliava.

Volli esserle presentato.

Ma parlando perdetti il senso della somiglianza che avevo percepita; invano, invano cercai nella sua voce un accento solo della voce d'Ortensia, e mi allontanai desolato, pentito quasi di una colpa. E talora la dolce immagine m'appariva per i luoghi più tumultuosi, impensatamente; spariva tra la folla; mi lasciava doloroso come se mi fosse crudelmente strappata una parte di me dopo un istantaneo gaudio di tutto il mio essere.

Nè avevo un ritratto di Ortensia!

A me non era lecito possederne nemmeno il ritratto, mentre Roveni poteva vederla, udirne la voce ogni giorno. La lontananza e il tempo assopirebbero in cuore ad Ortensia il ricordo di me; la ragione alleandosi alla giovinezza, che in lei domanderebbe amore vivo e fervido, la persuaderebbe che io stesso l'esortavo a consentire a Roveni. A poco a poco ella avrebbe nel cuore l'accensione della nuova e più vigorosa fiamma, non più contenuta…

Io l'avevo baciata sulla fronte: Roveni le carpirebbe sulle labbra il primo bacio, le prime ebbrezze…

A questo pensavo! Con che tormento, con che strazio! Era debolezza, questa? Ancora m'infliggevo lo strazio degli ultimi giorni di Valdigorgo preparandomi al giorno in cui apprenderei che Roveni aveva il diritto di possederla… Volevo, dovevo dominare in me, così, la gelosia: Roveni possederebbe Ortensia interamente! E correvo al di là di quel mio soffrire, al di là di quel giorno forse non lontano per la felicità di Ortensia, cercando d'immaginare me stesso rassegnato, pacato nell'animo. Rivedrei Ortensia moglie e madre; potrei un giorno, senza rancore e pago della felicità di lei, accogliere tra le mie braccia i suoi figliuoli…

Era debolezza, questa?

In data 2 dicembre 1890, da Pavia, ov'era all'Università, Guido mi scrisse:

Caro dottore,

Un po' in ritardo ti do la notizia del mio patatrac! e della mia successiva felicità. Cominciando dal patatrac, esso avvenne un mese fa, per colpa di quel vecchio imbecille di Sansone, il cavallo di Moser, nonchè di Gigi il servitore.

Come sai, Gigi aveva molti obblighi verso di me, che gli prestavo lo schioppo e gli regalavo le cartucce per tirare ai beccafichi; e in compenso lui trasmetteva degl'innocenti bigliettini a Marcella.

Ma Gigi un brutto giorno lasciò inginocchiare Sansone. Se per causa del suo servitore, Moser si fosse rotta lui una gamba, non c'è dubbio che avrebbe perdonato subito. Invece, a vedere spelate le ginocchia dell'amato Sansone si arrabbiò, come sai che si arrabbia delle volte; e Gigi, per difendersi cominciò a dire insolenze, non al padrone, che le avrebbe perdonate, forse, ma al cavallo; e fu bell'e fatta! Gigi fu licenziato, e venne a sostituirlo un cretino, che al primo biglietto da consegnare a Marcella, si fece cogliere dalla signora Eugenia. Per fortuna, nel biglietto io (che avevo fatta una scappata a casa dopo gli esami) dicevo solo che presto dovrei tornare a Pavia all'università e che bisognava far buon uso del tempo; e pregavo Marcella di venirmi incontro per la strada. Apriti Cielo! Un biglietto! Un appuntamento! Come se fosse una gran cosa, una novità! La signora Eugenia cominciò ad aprir gli occhi a Moser e lui…: apriti, o terra!, spalancati, inferno!

Tu, Sivori, penserai che Moser si sia inquietato tanto perchè crede Marcella ancora una bambina o perchè io non sono ancora laureato. Niente affatto! Si è inquietato perchè è in rapporti d'affari con mio padre! Non è un bell'originale? Un altro direbbe: Essendo noi genitori in rapporti d'affari, tanto meglio se i nostri figli si vogliono bene! Si fa tutta una famiglia, e buona notte! Moser invece è andato in bestia appunto per ciò.

Ora tu t'immagini di vedermi piangere come un vitello; ma t'inganni!

Io rido, felice e contento; perchè l'ingegnere ha sgridato tanto; Marcella, poverina, ha pianto tanto; mia madre s'è mostrata così afflitta, che la signora Eugenia, ha dovuto riparare al mal fatto; e a poco a poco ha quietato il Cerbero numero uno. Figurati che adesso io vado a trovare Marcella a Milano (dove i Moser sono da quindici giorni) proprio come un fidanzato ufficiale! Ma c'è anche il Cerbero numero due; mio padre! A questo ci penserà mia madre, se vuole presto un nipotino in tutte le regole!

Non ho altro da dirti. Anna Melvi è spesso a Milano anche lei. Studia il canto per calcare le scene. Ortensia, nell'ultimo tempo che stettero lassù, era divenuta insopportabile.

Adesso accompagna Moser di qua e di là; ma io non dico che questo è un capriccio, per non farti dispiacere…

Nel suo giocondo egoismo, Guido non vedeva cosa d'importanza che non si riferisse al suo amore; non immaginava che impressione mi farebbe quella sola frase: «Ortensia era divenuta insopportabile». Dunque la tristezza di lei era cresciuta! La smania di divagamento, a cui Guido alludeva infine, non significava forse che ella si tormentava come me per dimenticare?

Approssimando l'anno nuovo, da Milano, Marcella ricambiò «a nome di tutti» i miei auguri; e a una mia domanda abbastanza, esplicita intorno a sua sorella, rispose così:

Di Ortensia cosa vuole che le dica? li ha sempre avuti, anche da bambina, i grilli per il capo, gli alti e bassi di buon e di cattivo umore, ma adesso! Si irrita per niente; e quando è triste, si vede proprio che soffre. E perchè? A Milano non ci voleva venire, e viceversa, a Valdigorgo si annoiava a morte; ma adesso vorrebbe tornar in campagna, con questo freschino! Quella linguaccia di Anna direbbe che stando a Milano Ortensia si è innamorata di Roveni… Ma io per Roveni ci spero poco! Quando partimmo egli le disse, in mia presenza, che coltivava una speranza…; essa finse di non capire. Cervellina sempre!

II

Mi amava ancora? Era effetto di passione quel che a sua sorella e a sua madre sembrava difetto d'indole e di carattere? Se io mi rispondevo: – Sì, mi ama ancora – , ecco l'immagine di Roveni che si affacciava a dirmi, come mi aveva detto alla fabbrica: «Fuori dei romanzi, nella realtà vera, non può resistere in una ragazza di neppur diciotto anni un amore che fu interrotto appena nato. Resiste in voi, spirito infermo!»

E mi adattavo a pensare che Ortensia soffrisse non per amore, ma per rancore, per l'amarezza della prima delusione, per l'abbandono in cui l'avevo lasciata. Non sempre però mi riposava questo pensiero; spesso anzi, per reazione, mi abbandonavo al ricordo di Ortensia con disperata voluttà e disperatamente godevo di quella mia passione come di un'elevazione sublime. S'acuiva allora in me l'intendimento delle più nobili facoltà dello spirito; mi pareva d'intender Dio. Ortensia, nell'aspetto di una giovinetta, era un'anima bella che aveva avvinta l'anima mia, a cui l'anima mia si era avvinta per sempre, contro ogni ritegno, ogni resistenza di pregiudizi e di piccoli doveri.

Stolto! Avevo creduto ingiusta quell'affinità di due anime per differenza d'età!; avevo misurato ad anni quel che è immortale!; avevo sacrificato a basse convenienze la felicità di un amore trascendente la vita materiale e comune!

E una voce mi diceva: – Ortensia intende l'amore così!

Ah se avessi dato ascolto a quella voce!

III

Finalmente venne la primavera; venne una lettera di Marcella. La poverina impiegava più pagine per dire soltanto che, essendo Roveni necessario alla fabbrica (poichè Moser aveva assunto una grande impresa edilizia a Novara), Roveni si era indotto a rimaner a Valdigorgo per un altro anno; e che non molto dopo il loro ritorno da Milano a Valdigorgo una spiegazione era intervenuta tra Ortensia e lui. Alla esplicita dichiarazione dell'ingegnere Ortensia aveva risposto:

 

– Per adesso non ci penso, a maritarmi.

L'ingegnere anche stavolta non si era adontato; aveva detto tranquillamente: – Bene, bene!; ne riparleremo poi!

Indispettita, Marcella osservava:

Roveni tratta l'amore come un affare. Chi direbbe a vederlo che è innamorato davvero? Cosa fa per vincere la freddezza di Ortensia? Quando parlano insieme, parlano in un certo modo…; come se avessero paura di scottarsi! E che bei discorsi! Piove? Pioverà oggi?..

Altro commento facevo io: così amava quell'uomo!; con fermezza, con tenacia, con avvedutezza quali bisognavano a piegare una volontà poco arrendevole. Nell'apparente freddezza o tranquillità, con che prudente ritegno di sè stesso conquisterebbe a poco a poco il cuore di Ortensia, che egli vedeva non ancora libero dal ricordo di me!

Nella stessa lettera la buona Marcella mi prometteva presto una grande notizia. Questa me la diede Guido, indi a poco, e ci ragionava su da filosofo felice.

Suo padre s'era opposto al matrimonio.

– Se vuoi moglie pensa tu a mantenertela – diceva il padre. Ma la madre si era accordata con la signora Eugenia, che per Marcella aveva garantito una parte della sua propria dote, non potendo Moser compromettere allora, in alcun modo i suoi capitali…

E diceva Guido:

Se non ci fossero state tante questioni, il mio fidanzamento si sarebbe prolungato chi sa quanto! Le questioni invece hanno invelenito mio padre al punto che egli ha giurato di lasciarmi rompere il collo, come dice lui, senza curarsene; quindi mia madre, sempre più commossa, ha finito coll'assicurarmi che mi aiuterà lei di sottomano finchè sarò in grado da guadagnare come voi altri mediconi. Stando così le cose, perchè protrarre lo sposalizio? Maritandoci in estate, Moser avrà vicino per più mesi la figliuola e ne sentirà meno il distacco in seguito, quando io andrò a Milano a cercar clienti. Dunque, appena laureato…

Infatti in giugno ebbi l'annunzio che l'Italia aveva un medico di più e pochi giorni dopo ebbi la partecipazione che il mondo contava un marito e una moglie di più. Del resto, era felice anche Claudio; che trovò il tempo di raccontarmi a suo modo il lieto evento.

Per poco non aveva preso a revolverate quel traditore che gli portava via una delle sue «bambine». Ma s'era consolato a veder in Marcella, ipso facto, «una bella sposa»; e invitava anche me ad ammirarla… Aspettami, povero Moser!

IV

Con che accorata nostalgia, durante l'estate che m'ero condannato a trascorrere in terra straniera, ripensavo ai luoghi più grati alla mia memoria! Le fresche acque correnti ai lati delle vie; il Gorgo spumeggiante al ponte del Crocifisso; l'erta e ombrosa strada di Paviglio; il colle boscoso dell'antico convento; la chiostra dei monti a sfondo del cielo nitido, quale era a riguardarla dal giardino fiorito della villa…; oh dolci e tristi visioni nella memoria dell'esule! E che amarezza rammentando ogni giorno le ore belle degli stessi giorni dell'anno innanzi; le ore passate con lei! Nulla più di meschino, di puerile, in quel mio passato: la lontananza di luogo e di tempo imponeva alla ricordanza tanta poesia! Provavo il compiacimento come di un'arrendevolezza generosa e gioiosa ripensando anche alla pazienza con cui consentivo ai giochi di Mino e com'egli mi trattava da pari a pari, mi comandava saldo in gambe, impettito nel grembialone quasi in una corazza, con le braccia dimenate a misura dei passi; e il cappello di carta, e lo schioppo in ispalla..

Nè egli, Mino, si dimenticava degli amici, sebbene fosse divenuto un letterato.

Caro amico,

Come è bello quel bastimento a vapore che mi ai mandato, tutto il giorno io mi bagno nel fosso della lavandaia e faccio rabiare un poco la mamma ma voglio fare il marinaio.

È stato un gran regalone e adesso ti sono proprio affezzionato. I miei genitori sono stizziti con te perchè non vieni a Valdigorgo specialmente il babbo che mi comprerà un cavallino vero di carne, perchè sono passato all'esame.

Anch'io sono instizzito micca con te, con Ortensia che è cattiva, ma non dirlo alla mamma, non mi racconta più delle favole vere, di uomini, non ne voglio di bestie. Se tu non vieni mandami delle favole di uomini, ma spero che verrai e ti aspeto giorno per giorno.

Mino.

Ti ringrazio tanto tanto. Scusami degli sgarabocchi…

Povero Sivori! che cosa vi toccherà mai di leggere? Io non debbo saperlo, perchè Mino non vuole, ma approfitto della sua bella lettera (non so se l'abbia scritta con la complicità di Marcella) per mandarvi saluti cordiali. Noi stiamo bene. Fateci un'improvvisata, Sivori!

Eugenia.

Mino mi scrisse così con la complicità di Marcella; non di Ortensia. Ortensia era cattiva.

Sì: non mi scriveva lei! E anche i nuovi coniugi Learchi avevan pensiero d'altro che di me! Silenzio di tutti fino all'anno nuovo. Poi, all'anno nuovo, Eugenia prevenne i miei auguri inviandomi auguri per tutti loro; Eugenia, non Ortensia!; ed Eugenia prevenendo a scrivermi cercò forse evitare mie domande, cui le sarebbe stato difficile rispondere…

Forse… forse…; forse…: per quanto tempo ancora la mia vita si atterrebbe su questo dubbioso termine? Per quanto tempo ancora?

Quattro mesi dopo (aprile del 1892) Guido mi annunciava che egli era padre, il più felice dei padri. Aggiungeva:

Quando Marcella si sarà riposata (perché dar un nipotino a Moser le è costato più fatica che dargli le solite pantofole) ti racconterà lei con che sorta di no senza attenuanti Ortensia ha risposto alla definitiva richiesta di Roveni.

Come rimasi a legger queste parole! Ortensia aveva risposto no!.. Un no «senza attenuanti» alla definitiva richiesta di Roveni!..

Il bello è – seguitava allegramente Guido – , il bello è che costui ha preso licenza da Moser, ma solo per la fine dell'anno. Capisci? Dopo un tal no ha il coraggio di restar a Valdigorgo anche altri otto mesi! Comincio a credere che il padrone del mondo, a cui basta battere il piede in terra per aver impieghi, non sappia dove batter la testa per trovarne uno. Punf! Paf! Paf! Punf! A Valdigorgo, dopo tutto, non ci si sta male anche senza Ortensia; e se un affare è andato male, ci si può rimediare con un altro. Forse spera anche lui nella società che Moser è ormai costretto a costituire.

Non attesi il racconto di Marcella. Scrissi a Eugenia chiedendo a dirittura se le sue speranze di un tempo intorno a Roveni erano mancate, come Guido mi lasciava credere.

Candidamente Eugenia mi rispose che Ortensia aveva consultato il suo cuore e aveva confessato di non poter promettere a Roveni, nè allora nè poi, l'affetto che rendesse felici entrambi.

A me mi è dispiaciuto perchè di Roveni ho la stessa opinione che avete voi, ma meglio questa franchezza di Ortensia adesso, che un pentimento dopo. Roveni mi par rassegnato. Solo desidera che Claudio non sappia nulla di tutto questo.

E quando Marcella si fece viva, non aggiunse altro che Ortensia era stata troppo rude con Roveni.

Ma, francamente! la colpa è anche di lui. Non si fa così a innamorare le ragazze! Troppa sicurezza; troppa aria di padronanza! Figurarsi se una ragazza come Ortensia poteva innamorarsi per ubbidienza!

V

Amando Ortensia di tanta passione avrei dovuto correr subito a lei, dopo la notizia che essa aveva respinto Roveni?

Sì, fu un errore non dar retta al consiglio che la passione mi dava; ma questo fu conseguenza di un errore più grande: il più grande errore della mia vita; un errore enorme, che solo una mente ottenebrata da pregiudizi più dannosi di qualsiasi malattia poteva commettere.

Nel concetto che m'ero fatto di Roveni avevo errato ed erravo così! E per me allora erravano invece tutti gli altri: Guido, Marcella, Eugenia.

Guido si meravigliava che l'ingegnere restasse a Valdigorgo dopo lo scacco che gli era toccato e non ci scorgeva altra ragione che l'interesse: io credei fermamente che Roveni non fosse rassegnato, come diceva Eugenia, e che respinto da Ortensia, non si tenesse ancora per sconfitto e sperasse ancora di piegarla restando a Valdigorgo per altri otto mesi.

Marcella non si meravigliava del no di Ortensia, perchè l'ingegnere, secondo lei, l'aveva sdegnata con i suoi modi; perchè egli non aveva saputo usar le affettature e le delicature di una educazione molle, o gl'inchini, i complimenti, le adulazioni dei frivoli corteggiatori: io pensavo che sotto la scorza dell'uomo positivo Ortensia avesse ben inteso un amore forte e tenace e che con le mezze parole, le espressioni rudi, le occhiate e i silenzi, Roveni le si fosse manifestato meglio che con i sospiri e i languidi discorsi. Non perciò le era divenuto antipatico! Essa non aveva ancor potuto dimenticarmi del tutto e forse si attendeva di rivedermi nel prossimo estate: da ciò la sua ripulsa.

Ma io non andrei; non dovevo tornare a Valdigorgo prima della fine dell'anno, se davvero temevo ch'ella perdesse per causa mia un felice avvenire! E che accadrebbe? Forse Ortensia farebbe tra me e Roveni un nuovo confronto: io dimostravo di averla abbandonata per sempre; egli, il rude e freddo Roveni, non si rassegnava ad abbandonarla: sperava di superar la volontà di lei e di meritar affetto e gratitudine per tanta costanza. Le nature volontarie amano le nature volontarie. Forse Roveni vincerebbe.

Se poi tornasse vero quel che pensava Eugenia: «Quando Ortensia ha detto no, è no»… oh allora!.. Allora ogni ritegno cederebbe alla volontà di Ortensia e il nostro amore basterebbe alla sua e alla mia vita!

Vedete se speravo anch'io! Era una speranza che mi pareva or ragionevole, or folle; un'ansietà che durerebbe mesi e mesi, sino alla fine dell'anno.

A un nuovo invito di Claudio, nel giugno, risposi che non potevo allontanarmi da Berlino, perchè mi ero messo a esercitar la medicina. Ed era vero; e faticavo non senza fortuna. Ma chi osservando con quale intensità e alacrità partecipavo ora alla vita, avrebbe mai immaginato quanto io ero stato infermo un tempo e quanto affanno avevo nel cuore?

Amavo la vita, ora; ne compiangevo le sofferenze; in esse mi ritempravo. Speravo.

Venne finalmente il termine imposto alla lunga perplessità e alla liberazione – quale si fosse – della schiavitù di me a me stesso.

Ma alla fine dell'anno non ebbi alcuna notizia; solo un biglietto di Eugenia, col solo nome: muto. Perchè mai? Scrissi a Guido; nessuna risposta. Che era successo? Pazientai per tutto il gennaio.

Quando un giorno, gettando a caso lo sguardo su la rubrica finanziaria di un giornale italiano – un giornale di parecchi dì innanzi…

Che freddo mi corse per tutti i nervi!: come a un colpo mortale! Rimasi un istante stordito, con lo smarrimento in cui la mente cade alla rivelazione di un fatto terribile che si sarebbe dovuto prevedere. Poi rilessi: C. Moser, fabbrica di laterizi, Valdigorgo. – Ha chiesto la moratoria.

Ma era una grande sventura! Claudio era rovinato! Un presentimento certo rispondeva adesso in me al presentimento oscuro di due anni e mezzo avanti, quando avevo detto a Ortensia: «Se mai la sventura passerà sul tuo capo…» Claudio, i suoi, pativan già tutte le angosce di un rovescio di fortuna!

Che potevo, dovevo fare? Quel che Claudio avrebbe fatto per me se mi avesse saputo in disgrazia. Oh! forse già Ortensia aveva pensato: – Sivori ci abbandonerà anche lui! – ; forse aveva già detto alla, madre: – Sivori vi abbandonerà anche voi!

Partire, subito!

Partii, infatti, quella sera stessa, perchè a casa trovai una lettera di Guido che accresceva i miei timori: Moser invano aveva chiesto la moratoria; era stato inevitabile il fallimento.

Ma perchè solo allora, mentre rileggevo la lettera di Guido, sembrò squarciarsi il velo che mi aveva ottenebrata la conoscenza? Perchè Roveni ricorse al mio pensiero e la figura di lui vi balzò, da un repentino sospetto, in una realtà che lo trasformava?

Lo vidi innanzi a me saldo nella persona: ma era saldezza ostentata; con gli occhi bianchi e freddi intenti a uno scopo: ma eran pieni di simulazione e falso ne era lo scopo; serio: ma non rideva, essendo tristi coloro che non ridono o ridon male.

 

Lo rividi, allora soltanto, nell'attitudine sospettosa del dì che andammo alle Grotte; nella franchezza equivoca dell'ultimo giorno che gli parlai alla fabbrica…

Perchè solo a legger quella lettera di Guido, e solo allora dubitai di essermi ingannato intorno a quell'uomo? M'ero ingannato davvero?

Mi parve di veder anche Ortensia. Chinava il capo sul petto della madre e ne confortava il dolore con un male in sè, nel suo cuore, più grande del male che confortava: il male che le avevo fatto io.

VI

Quel triste giorno di febbraio era sull'imbrunire quando io sonavo all'uscio del dottor Guido Learchi, in via Manzoni, a Milano. Una voce di donna e una voce infantile dicevano forte: – Il babbo! – Ba-bo! – e la cameriera, aprendo, rimase stupita come il bambino che aveva in braccio a veder me invece del padrone.

– Il signor dottore?

– Tarderà poco…

– La signora…?

La signora mi corse incontro, sorpresa e commossa

– Sivori! che miracolo! che fortuna!

– Marcella… – Anch'io non trovavo parole.

– … E Guido?

– Tarderà poco. Come resterà a vederla!

Eravamo appena nella linda cameretta da desinare (ove già dalla tavola fumava la zuppiera) che Guido arrivava tutto rubicondo, con tale confusione di piacere che si dimenticò di darmi del tu.

– Lei!.. Sivori! – Ci gettammo l'uno nelle braccia dell'altro.

– Hai fatto benissimo, Sivori, a arrivarci addosso così all'improvviso! – proseguì Guido rimettendosi. – Io l'ho sempre pensato che se non cascava il mondo tu, un giorno o l'altro, ci avresti sorpresi, me e Marcella, con un rampollo degno di noi, proprio a quest'ora: all'ora di desinare! – Egli rideva di gran gusto; e mi obbligò a sedere a tavola. – Ci racconterai poi della tua vita a Berlino… Prima mangia, mangia come me… Io non ho nessuna vittima su la coscienza, oggi! – E aggiunse facendo boccaccia: – Purtroppo!

Si sarebbe detto l'uomo più contento del mondo se tra l'una e l'altra delle prime cucchiaiate non mi avesse fatto un furtivo cenno d'occhio e di bocca che significava: «brutta storia!» Io, per non lasciar scorgere a Marcella tutta la mia ansietà, accarezzavo il bambinone, che mi guardava torvo dalle braccia della madre.

– Su! da bravo! – l'esortava Marcella. – Non guardarlo in questo modo… È l'amico dello zio Mino!

– Un amico ormai vecchio – dissi.

– Ma stai bene – Guido osservava.

– E tu che omone! I baffi però non sono troppo folti! (non erano più visibili d'una volta nella faccia canonicale) E voi, Marcella, che bella mamma!

Dalla maternità aveva acquistato una più bella pienezza di forme. Ma i suoi occhi miti non celavano l'intima cura.

– Ah sì! – ella mormorò. – Saremmo felici, se… Lei sa, è vero?

Assentii senza dir nulla. Guido interloquì di corsa:

– Abbiamo la nostra croce, ora; ma ce la leveremo presto d'addosso! Diavolo! Mio suocero non è uomo da avvilirsi se la macchina gli è uscita all'improvviso di rotaia! Riparerà; rimedierà… – E vòlto alla moglie: – Le notizie sono buone, sta tranquilla! Vogliamo desinare in pace e quiete.

– Ma il babbo oggi non è venuto da noi, come aveva detto.

– Eh! Se non è venuto oggi, verrà dimani! Benedette donne! Sempre pensare al peggio… Per fortuna, Bebe somiglia a me! Guarda, Sivori, come ride… – Bòoo! – gli faceva il padre; e il bimbo si mise a ridere d'un riso istantaneo, quasi d'un tratto gli cadesse ogni diffidenza e la mia immagine gli divenisse gioconda a udire il mio nome.

– Tivovi – si provò a dire.

– Bevi, Tivovi, e raccontaci qualche cosa di Berlino – disse Guido. Ma anch'egli mangiando e bevendo in fretta e tirandosi i baffi, che non aveva, non dissimulava abbastanza il desiderio di trovarsi solo con me.

Poichè io ebbi date mie notizie e trovato un pretesto alla mia partenza da Berlino, Guido cominciò a scimiottare il cavalier Fulgosi e a inventar su di lui aneddoti scandalosetti.

– Ma Guido! ma Guido! – Invano Marcella cercava trattenere il narratore per la lubrica china.

A un certo punto, chiesi:

– Che fa Anna Melvi?

– Anna studia il canto e impara dal cavaliere le regole dell'alta coquetterie, perchè il cavaliere vuol lanciarla lui, tra le quinte. Le irregolarità Anna le sa da un pezzo: gliele insegnarono Roveni e Minguzzi.

Fu la sola volta che, presente la moglie, a Guido scappò di bocca il nome di Roveni; a udir il quale apparve una fugace impressione avversa nel soave volto di Marcella.

Essa intanto ripeteva: – Non gli dia retta! non è vero niente!

– È verissimo! Il cavaliere dava lezioni a Anna in casa sua, in casa della sua signora. Ma l'altro giorno egli osò… permettere ad Anna di stirargli un baffo, e apriti Cielo! La signora Fulgosi (Guido ne imitava le smorfie) giurò che se Anna tornava in casa sua, d'una gentildonna come lei, la lancerebbe anche lei: ma dalla finestra!

– E Pieruccio?

– Tra pochi mesi Milano lo vedrà ufficiale. Sarà uno spavento in Galleria!

Guido s'alzò per contraffare il tenente Fulgosi a passeggio in Galleria.

E il marmocchio faceva risatine e si provava di nuovo a dire: – Tivovi. – Finchè egli cominciò a nicchiare; eppoi, a pena in braccio alla cameriera, a piangere.

Marcella si alzò per portarlo a dormire.

– Dunque Moser?.. – chiesi subito a Guido.

– Non c'è che dire! Moser è in cattive acque! – Ma scorgendomi addolorato. Guidò cercò attenuare: – Io però domando e dico: c'è proprio da disperarsi? da avvilirsi? da sospirare come fa Marcella? piangere? Benedetta donna! Non capisce che i lagni e i sospiri a me mi vanno alla testa, e che se debbo pensare sempre a lei non posso, di coscienza, esercitare la professione!

Una risata; indi riprese:

– Siamo giusti! Quanti non sono gl'industriali che falliscono? Invece son pochi quelli che, come Moser, offrono il 60 per cento ai creditori. Mio suocero sarà stato un pasticcione…

Volli protestare.

– Galantuomo sì; ma pasticcione! Galantuomo sì; ma minchione! Un altro avrebbe intestato i beni nella moglie per mettersi al sicuro… Lui, no. Così tutto andrà venduto…

– Tutto? – esclamai a questo, ch'era il colpo più forte.

Guido, indovinando il mio pensiero recondito, confermò:

– Anche la villa…; per dare il 60 per cento ai creditori.

Anche la villa! Impossibile! Perdere il luogo di dove egli, Claudio, attingeva l'energia della sua vita? dove soltanto egli trovava conforto e riposo? E Ortensia? Staccarla di là, Ortensia!..

– Il guaio più grande non è questo – proseguì l'amico, che nel suo egoismo e ottimismo pensava prima di tutto a sè stesso. – Il guaio più grande sai qual è? Mio padre è rimasto scottato più di tutti ed è feroce anche contro di me e Marcella. Ne abbiamo una bella colpa noi se Moser l'ha ingannato!

– Moser – protestai di nuovo – ingannare? Eh via! La buona fede di Claudio è al di sopra d'ogni sospetto.

– Concedo – rispose Guido. – Ma con l'affare di Novara, l'anno scorso, mio suocero lusingò troppo mio padre; e mio padre ha fatto la figura d'imbecille a credergli. L'affare invece era magro; e crac!.. Dicono che si sarebbe potuto aggiustare ogni cosa con la società…

A questo punto l'amico ristette d'improvviso, come chi s'accorge di correre a un inciampo.

– Perchè non si è fatto la società?

– Eh! i creditori ne son stati dissuasi da Roveni, sembra… Dico sembra, perchè è tutto un pasticcio! Roveni sarebbe creditore anche lui di Moser, ma, viceversa, avrebbe cercato lui il suo proprio danno… Perchè? Ci capisci niente, tu?

– Forse… per vendicarsi di Ortensia?

Allora Guido non si sforzò più a dissimulare.

– Uhm!; forse il no di Ortensia gli brucia più del danno. Punf! paf! Ortensia ha fatto male a urtarlo, il padrone del mondo!

Io tacevo. Pensavo se mi fossi ingannato interamente a giudicar bene Roveni, o se piuttosto un uomo di tal tempra si fosse mutato di bene in male per l'ostacolo che aveva incontrato, più forte della sua volontà e della sua forza.

Guido continuò:

– Basta! Speriamo ancora che i creditori si accomodino; che Roveni non s'opponga…; ma per me, io vorrei prima di tutto che Marcella rassomigliasse un po' meno a… sua madre; prendesse un po' il mondo come viene… Bevi, Sivori!

– E Ortensia?

Avevo compreso nel pensiero di Learchi che il termine di confronto a Marcella era stato Ortensia, non la madre.

Ortensia, venuta pochi dì innanzi a Milano con Claudio, aveva rimproverato Marcella di non saper piegare il suocero al concordato dei creditori…

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