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In faccia al destino

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Ero arrivato a tal punto d'insensibilità che i miei morti – mio padre e mia madre!.. – tornavano al mio pensiero, c'insistevano, ma io non ne avevo più il sentimento! Che io non pensassi nemmeno a mia madre morta quando nella morte scorgevo solo un fatto fisico, una trasformazione materiale, pazienza! Ma ora le ombre dei miei tornavano a me; e non parlavano più al mio cuore; come illusioni inutili! come niente! Ora io pensavo che la morte non fosse annientamento della coscienza, non fosse solo trasformazione della materia, nondimeno ogni affetto dei miei cari, anche ogni affetto dei miei cari era spento in me! Comprendete tutta la mia miseria?



Orribile! Se la scienza, non per effetto necessario ma per sola conseguenza occasionale, può avere condotto un uomo, un solo uomo, a tale estremo, sia pur maledetta la scienza!



– Buona passeggiata! – Proseguivo per l'erta via che congiunge Valdigorgo a Paviglio. Da Valdigorgo giungeva ancora, a quando a quando, un confuso murmure di voci e d'opere. Salivano donne fastidiosamente liete della vendita o della compera al mercato; transitavano carbonai e somieri: ai lati, ora spazi di campi, ora lembi di bosco, e verdi ripe, lente o scoscese; qua donne con le vesti succinte che ammucchiavano il fieno; là una mucca che pasceva, una pecora che sbucava da una macchia; più oltre una casupola nitida. Chioccolii nella fratta. Ma la vita che scorgevo e udivo intorno a me, no, non mi ridava l'anima! Tra due massi scaturiva un'acqua sorgiva che rigava d'una limpida vena un fossatello senza limo. Nè io avevo sete. Un birocciaio però, venendo con la biroccia carica di legna, lasciò procedere i muli, e gettatosi in ginocchio a terra, con la testa indietro e teso il collo, ricevette il zampillo nella bocca; avido, ingordo, d'un solo fiato. La gola riarsa si dilatava, palpitava al passar del liquido e della frescura.



Ristoro ineffabile! Splendevano gli occhi all'uomo quando si rialzò con un forte: – Ah!.. – E riafferrata la frusta mentre si asciugava la bocca col dorso dell'altra mano, egli la fe' schioccare, e mandò da lungi un grido alle sue bestie.



A me parve un uomo che avesse ricuperato la vita.



III

Si vedrà poi il perchè io mi costringa a raccontare la mia storia. Non la racconto, certo, per voluttà di dolorose rimembranze – le spasmodie romantiche han stancato il mondo, – nè per dilettantismo letterario – bel gusto parere un letterato ai medici e un medico ai letterati! – No, no; il mio intento è non so se più umile o più alto.



Ma poichè la prima cagione di un lungo soffrire fu l'infermità che mi condusse a Valdigorgo, bisogna pure che io accenni un po' più chiaramente a quel che avevo.



Medico non senza qualche nozione di psichiatria, facilmente io avrei saputo definire in altri il mio caso. In costui – avrei detto – ci sono indizi sicuri di «lipemania», c'è «atonia della sfera psichica», c'è «malinconia lucida». Se non dimostra egli stesso gravi anomalie o asimmetrie somatiche, il suo albero genealogico deve annoverare individui colpiti da pazzia degenerativa: costui è candidato al manicomio o al suicidio. – Così avrei detto di un altro; ma di me mi ostinavo a pensare diversamente, e non solo perchè mi mancavano di quelle tali anomalie o asimmetrie gravi, e non solo perchè il mio albero genealogico, da quante generazioni ne conoscevo, non aveva fruttato mai pazzi o lipemaniaci.



Del mio male senza dubbio c'eran cause all'in fuori dell'ordine fisiologico. Quali cause, insomma? Vi dirò: immaginate un uomo che credè di poter volare al cielo… – «il sapere» disse Shakespeare «è l'ala con cui si sale al Cielo» – , e immaginatelo quest'uomo precipitato dall'alto del suo sogno in un abisso buio e freddo, con addosso l'irrisione di tutto l'universo e di sè stesso. Non comprendete? Oh come manifestarvi allora, in poche parole, la mia miseria? Io ero vittima del mio orgoglio e mi ritenevo nientemeno che una vittima del secolo scientifico. Nell'immenso, stupendo progresso delle scienze nel secolo XIX avevo sorprese certe relazioni forse sfuggite a tutti, certe comprensioni sintetiche sfuggite a tutti nell'abuso dell'analisi; e poggiando su di esse avevo preteso di superare i limiti della scienza… Il meglio della mia vita era stato sacrificato così, dolorosamente, ad apprendere la vanità de' miei sforzi. Eran stati lunghi anni di lotta. Avanti per la verità! avanti per la gloria!; e ogni giorno più dubitavo e soffrivo; finchè, al crollo del mio edifizio, caddi, vinto, nel nulla.

Nel nulla!



Forse fu ingiusta l'imprecazione di un filosofo: «Scienza, perchè arricchisci la mente a scapito del cuore?»; forse ciò non è vero. Ma io, che non ero più uno scienziato o che, avendo violentato il potere della scienza, non lo fui mai, io più spaventosamente d'ogni altro dovevo pagare il fio della mia insania: il mio cuore era esaurito;

non sentivo più nulla

. Ecco perchè non giudicavo quest'apatia un semplice caso di «atonia della sfera psichica».



Non basta. Negli esauriti o neurastenici è frequente la tentazione della morte e, insieme, l'orrore della morte. Ed io pure, uomo divenuto inutile a tutti, a tutto e a sè stesso, io pure desideravo morire e non osavo. Ma in me non c'era un avvilimento inconsapevole: io avevo voluto dimostrare con modo e metodo positivo che al di là della trasformazione del nostro organismo in dissoluzione l'anima sopravvive…; e da quel tentativo di confermare con la scienza l'antica fede mi era rimasta l'apprensione dell'

al di là

. Ecco perchè non mi credevo semplicemente un neurastenico. Mi credevo invece caduto non per stanchezza ma per disperazione; e nello stesso tempo mi vedevo pessimista insanabile non per «depressione del tono vitale», ma per la certezza che eran stati vani i miei sforzi e sarebbero sempre vani gli sforzi della scienza a varcare i limiti di ciò che si definì l'

inconoscibile

.



Non importa dire in che errasse, o quanto, la mia diagnosi: importa vedere com'era grande la mia miseria. Consideravo in me effetti e fenomeni diversi da quelli ben noti alla psichiatria, e pur scorgendone la somiglianza con quelli, li consideravo più paurosi, d'un'entità vaga e più vasta; la mia miseria era quindi più grande che quella di un medico che scorga in sè stesso una malattia incurabile, con fenomeni fisiologicamente chiari, patologicamente certi, senza tenebrose estensioni…



Eppoi… Eppoi, tiriamo innanzi!



IV

Tra i pochi che venivano alla villa Moser c'era per me una sola persona nuova; l'ingegnere che Claudio aveva assunto a dirigergli la fabbrica di laterizi. La fornace che era stata principio alla fortuna di Moser e che aveva dato aumento al lavoro degli operai in Valdigorgo, era divenuta una delle più rinomate nell'Italia settentrionale; a vigilarne l'andamento non bastò più la sola attività di Claudio da quand'egli si fu addossato altre imprese.



E soli assidui alla villa, per lo più di sera, erano i Fulgosi, i Learchi e le Melvi: pochi, perchè Moser pretendeva libertà e pace almeno in casa sua, nell'asilo del suo riposo, sebbene anche qui piuttosto che riposare egli svariasse la sua alacrità.



Profittando della distanza dal paese (la villa era a monte e il paese tre chilometri a valle), Eugenia sapeva accontentare il marito conservando buone relazioni con le famiglie paesane più notevoli senza che queste potessero, come forse desideravano, turbar la pace di lassù. Non la turbavano essi, i villeggianti prossimi e vecchi d'amicizia e di consuetudine. Ma nell'infermità dei miei tristissimi giorni come eran noiosi, insoffribili per me anche quei pochi e vecchi conoscenti!



Primo, il cavaliere Fulgosi. Un uomo invidiabile; uno di coloro a cui il mondo serve di sfondo e cornice per la loro figura, per la loro apparenza. Pensionato d'uno di quegli uffici che rendon l'uomo uniforme, preciso e sciocco come un regolamento, a sessant'anni poco o nulla differiva da quel che era stato a trenta: sempre elegante, cioè vano; sempre amabile in società, cioè fatuo. A Valdigorgo chi poteva competere con lui? Unico a far toilette due o tre volte al giorno; unico a portar in tasca lo specchietto e il pettinino per considerare ogni mezz'ora se gli scarsi capelli, d'un biondo bianchiccio e d'un biondo sporco, celassero, ben disposti, le lacune dell'età, e se i baffetti rilevassero l'esili punte su e contro il profilo della barbetta, e se la cravatta, a colori sentimentali, conservasse sempre il giusto mezzo; unico a contemplar in sè medesimo ora il candor delle unghie o la forma delle scarpe, ora i gemelli o i polsini o le armoniche tinte delle calze di seta; ora l'orecchia del fazzoletto, gentilmente colorato, fuor della tasca, o il brillar degli anelli nelle scarne dita. Per parlare egli s'era adornato della fraseologia e dei motti dei giornalisti brillanti; spropositava spesso nella pronuncia delle frasi inglesi, ch'eran le preferite, e ripescava, per di più, qualche sentenza scolastica o classica.



Con aria diplomatica discuteva troppo spesso in politica, poichè un'ambizioncella politica gli si era inacidita nel cuore, nè ancora aveva cessato di ripetere a se stesso:

j'attends mon astre

. Aveva il suo programma nel motto «ordine nella libertà e libertà nell'ordine» senza che paresse comprenderne egli stesso il pieno, solenne significato che pareva attribuirvi. Infatti questo amatore della libertà nell'ordine, questo amabile

gentleman

, era stato un tirannico capo-ufficio ed era adesso un petulante marito pensionato. Angustianti smorfie e

tic

 nervosi gli opponeva la signora Fulgosi; ma apostrofandolo «imbecille» in casa, la moglie non mancava mai di chiamarlo «cavaliere» fuori. Ella portava a Valdigorgo la correttezza dei modi e la scorrettezza dei pettegolezzi e degli isterismi aristocratici. Il loro figliuolo, Pieruccio, nato certo in conseguenza di un litigio, manifestava, ora più che sedicenne, com'erano inconciliabili anche in lui la natura materna e paterna. Fastidioso e incoercibile per metà del giorno; compassato e affettato la sera, dopo la

toilette

; antipatico sempre.

 



Involontario riscontro ai Fulgosi facevano i Learchi. Egli, Learchi padre, era un risaiolo arricchito. Aveva dunque il diritto d'insegnare agli altri la maniera di viver bene. In tutto si sarebbe dovuto fare come aveva fatto e faceva lui. Ignorante e testardo; gran mangiatore e non minore bevitore e fumatore di pipa. Ligio alle pratiche religiose, vi tranquillava la coscienza; si assicurava con esse a star di là, anche meglio che di qua, e frattanto sorreggeva il perfetto egoismo cattolico dicendosi clericale «e me ne vanto». Sua moglie, la signora Redegonda, era buona di cuore e sempre ilare; ma di testa piccola. L'universo per lei consisteva nella cucina, dove esercitava molt'arte, e con ingenua rozzezza stupiva a ogni altra cosa che non fossero manicaretti, pasticci, dolci d'ogni sorta. Felici entrambi dell'aver maritata bene, a un ricco, la figliola, aspettavano per di più la consolazione di aver dottore il figliolo. E questi – Guido – poteva piacere o spiacere al pari d'ogni cuor contento.



Quanto alle Melvi, la madre non riusciva a nascondere a me l'ipocrisia e la malignità della paesana che non potè mai uscir di paese e che in paese vuol sembrar amica di tutti perchè invisa a tutti. Lingua iniqua! Ma quante esclamazioni, espansioni d'affetto! La bontà si sarebbe detto trasudasse da tutti i pori della sua piccola e grassa persona; la virtù in lei sembrava tanta da permetterle di congratularsi a ogni nuovo matrimonio che s'annunciasse o celebrasse a Valdigorgo, quando la rodeva l'invidia, la tormentava il dubbio di non poter accalappiare un marito per la sua Anna;, la sua Anna, irresistibile, per lei, di vezzi e più di carne. Ed Anna… Che dire di

Anna Melvi

: come esprimere quel che io provo ora, scrivendo queste due parole?



Di rado tutti costoro, nei primi giorni del mio ritorno lassù, si eran trovati insieme alla villa. Di solito l'una e l'altra mamma saliva da Eugenia, e sol talvolta, quando Eugenia riposava, le ragazze e i giovani si erano raccolti nell'ampia sala a terreno, o nella terrazza, ai loro giochi di pegni, mentre Moser si divagava aizzando il cavalier Fulgosi contro il Learchi padre. Io per lo più avevo cercato scampo nella mia camera, col pretesto di dormire.



Ma venne la buona novella; il medico curante, pago della mia approvazione non che del buon effetto delle sue cure, annunciò che a giorni permetterebbe alla convalescente d'alzarsi.



Eugenia era in piena convalescenza. Ed io?.. La sera della buona novella andavo per la casa cercando invano di raccogliere in me il senso di quella letizia che vedevo fuori di me. Non potevo fingere un piacere che mi sfuggiva; avrei voluto fuggire accusandomi quale un amico indegno; neppur mi commoveva la gioia di Claudio!



Egli fece portare due bottiglie nel salotto, per gli amici; e mi attendeva con Fulgosi e Learchi. Dovetti entrare.



– 

Lupus in fabula!

 – esclamò il cavaliere. – E Claudio: – Sentite questa! Quando eravamo all'Università a Bologna, io agli ultimi anni e Sivori ai primi, facevamo qualche scappata a caccia nelle risaie di Molinella. Ci accompagnava un omicciattolo, un falegname soprannominato il Biondo… Ah! il Biondo! ma par di vederlo! Aveva uno schioppo che pareva un catenaccio; mirava chiudendo gli occhi, e non sbagliava un colpo. È vero?



Accennai di sì col capo; non celando la poca voglia di riudire aneddoti della mia biografia. Ma Claudio proseguì:



– Dunque mentre io e il Biondo stavamo alla posta delle anitre, e non pensavamo che alle anitre, quel bel matto lì (e accennava a me) era spesso colla testa nelle nuvole e metteva giù lo schioppo per guardare al libro che portava in tasca. Una bella maniera d'andare a caccia! Non si sarebbe accorto d'un rinoceronte quando leggeva. Ma un giorno che ritornavamo in barca – era d'autunno inoltrato – io gli prendo il libro e glielo scaravento in mezzo all'acqua. Cosa fa lui? Spicca un volo e gli va dietro alla pesca.



– Non fu così – interruppi fiaccamente.



– Così! Proprio così! Il Biondo è ancor vivo e sano, e sebbene sia il tuo fittavolo, adesso, è un galantuomo capace di testimoniare la verità… Bene! noi sudammo a pescar lui, l'amico; lo tirammo su sporco e fracido come si meritava; e con la tremarella addosso. Io gli davo quanti pugni potevo, più per sfogare la rabbia che m'era venuta che per mantenergli la circolazione del sangue, e Sivori, lo credereste?, si lamentava: – Il mio libro!.. Il mio libro… Non ho capito una cosa!.. – Non vi dico altro! Quasi quasi si era affogato solo perchè non aveva capito una cosa!



– Non è vero! – brontolai. – Era un'edizione pregevole…



Nessuno mi badò. Ridevano tutti, e più di tutti rise il piccolo Mino, che era venuto in cerca di me. Non desiderando di meglio che sottrarmi alla filosofia del buon senso, chiesi al ragazzo che cosa voleva.



– Se mi comperi i burattini, ti racconto una bella favola.



Ripigliò Moser: – Sublimi poi erano le discussioni col Biondo falegname! Sivori sosteneva che ammazzare una quaglia era uno strappo all'anima universale, come diceva lui; il Biondo invece sosteneva che Domineddio non avrebbe creato le quaglie se non dovessero essere mangiate arrosto. Avevano così diversi punti di vista che Sivori con cinquanta colpi non strappava nulla, e il Biondo – lo confesso, lo ripeto – tirava meglio di me! Ma le quaglie chi le mangiava? chi le gustava di più? Ah quei bocconcini di anima universale! Altro che Spinoza eh, Sivori?



Risero di nuovo. Finchè Mino tirandomi per la giacca mi forzò ad appartarmi con lui in un angolo. Ivi solennemente prese a raccontare:



– «Castelli in aria»… Beppe andava per il bosco.



Intanto udivo Learchi sentenziare, vuotato il bicchiere:



– La filosofia sta nel seguir la volontà di Dio, ricordandosi però che lui dice: «Aiutati che t'aiuto!»; e quando la coscienza è tranquilla, tutto va bene a questo mondo!



– Il mondo bisogna farselo! – ribatteva Moser. – Farsi una, famiglia; lavorare per la propria famiglia e non pensare ad altro!



– Io sono fatalista – avvertiva il cavalier Fulgosi. – «Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce…»



Tratto dall'astuccio il piccolo pettine, il cavaliere si pareggiò i baffi, si mirò allo specchietto; poi aggiunse che io ero uno di quelli nati apposta per far camminare il mondo.



– Senza filosofia, caro signor Learchi, il mondo non camminerebbe. È la scienza delle scienze, che innalza l'umanità. Excelsior!



– Il mondo andrebbe benone lo stesso! – urlava Learchi. – Religione, fede per sopportare i guai; e basta!



Mino tornò da capo:



– … Beppe andava per il bosco, e trovò un pulcino. Lo portò a casa e lo mise a dormire nella stoppa. Beppe diceva: Quando il pulcino sarà grande, diventerà una gallina; e la gallina farà le ova e comprerò un'agnellina. E l'agnellina diventerà una pecorina, e la pecorina farà le ova…



Le ova della pecorina? Mi sovvenne delle mie opere. Il pulcino morto nella stoppa della scienza? Il mio ingegno!.. Questa, questa, o esimio cavalier Fulgosi, questa è la morale della favola!



… Non mi sarei dunque stancato mai d'interporre sempre, da per tutto, la mia accidia? Con stento ero entrato là nel salotto a udir parlar di me; con stento ascoltavo il ragazzo…; ma appunto perciò avrei dovuto avvertire un risveglio nella mia volontà. In me c'era già stato qualche mutamento notevole. Non seguirebbe questi mutamenti, sebbene lievi, una riscossa dell'anima? Come in un barlume riflettei su le mie impressioni e le mie azioni dei giorni innanzi.



Già Mino era riuscito a farmi guardar il mondo attraverso un vetro color rosa e a farmi dire con lui che così il mondo era più bello; mi aveva costretto a inventare e a narrargli una favola, che ora ricambiava con: «Castelli in aria» e con le ova della pecorina. Già la timida Marcella mi aveva veduto salir più spesso a trovar la madre e a sorprender lei nell'ansietà delle faccende domestiche, la cui importanza ironicamente esageravo. Ortensia poi aveva ripresa con me tutta la confidenza d'un tempo, di quando era la mia «piccola amica». Ah se avessero potuto immaginare che fatica mi costava tutto ciò! Ma intanto io mi domandavo perchè non approfitterei del loro aiuto a ricuperare il dominio della mia volontà. Volli restar con Mino; volli vedere che facevano gli altri… Mi affacciai alla porta della sala dove la signora Fulgosi cominciava a tempestar un

waltzer

 sul pianoforte; le ragazze e i giovani le facevan chiasso d'intorno. Quand'ecco tonò una voce gioconda.



Era l'ingegnere preposto da Moser a dirigere la fabbrica di laterizi.



– Arrivo! Pazienza! – egli rispose alle voci che lo chiamavano.



Ma prima corse a consegnar delle carte a Moser, a dargli notizie, a prender ordini. Di sulla porta io l'osservavo.



L'ingegner Roveni quando parlava d'affari era parco nelle parole, immobile, attento. Aveva risposte pronte. L'antipatia che mi separava da tutti gli estranei non poteva resistere contro di lui; anzi dal primo giorno che l'avevo visto non mi era spiaciuto quel giovane dalla fisionomia decisa: non bella per il naso breve un po' all'insù, ma abbellita da due folti baffi biondi; e dalla persona robusta e a mosse un po' dure, quasi di macchina non ben levigata e non in piena attività, eppure in un perfetto equilibrio di tutte le forze alla regola dell'arbitrio. Per una inesplicabile contraddizione non mi spiaceva quell'uomo, ambizioso, si vedeva, fin dal modo di camminare.



Passandomi accanto egli mi salutò con un franco:



– Buona sera, dottor Sivori! – e andò difilato a prender Anna Melvi per ballare il

waltzer

.



Io mi riaccostai agli uomini seri.



– Che fibra! – disse Claudio, che ora parlava di Roveni. – Tutto il giorno lavora per me e la notte studia per sè.



Aggiunse che Roveni s'occupava con passione in studi d'elettricità.



Quindi disse:



– Io penso con dolore al giorno che dovrà abbandonarmi.



Una risposta mi venne al pensiero e alle labbra: – «Hai un mezzo molto semplice per trattenerlo: dagli in moglie una delle tue figliole».



Ma sarebbe stato come dire a uno che possegga un tesoro: – dallo al tale – , o almeno sarebbe stato come proporre un sacrificio intempestivo; perchè nel sereno egoismo del suo amor famigliare, Moser non s'era ancora accorto che le figliole pervenivano all'età da marito. Perciò tacqui.



E feci bene. Rientrando poco dopo nella sala dove ballavano, scorsi d'improvviso che la maggiore delle sorelle Moser e la più adatta al Roveni (il quale era sui ventotto anni), aveva già disposto del suo cuore.



Sì: la timida Marcella… con Guido Learchi… Mentre con Roveni ballava Anna Melvi e Ortensia con Pieruccio Fulgosi, Marcella e Guido si dicevano meno parole con le labbra che cogli occhi; vedevano l'uno negli occhi dell'altra la propria felicità. Non ne mostravano meraviglia nè la Melvi madre nè la signora Learchi, che assistevano da presso il pianoforte. Meravigliato rimasi io; poi disgustato per un turbamento strano; poi, preso da una voglia anche più strana di ridere, ridere d'ironia. – Forse per rivivere vivendo con questi ragazzi dovrei fare all'amore anch'io? – mi chiesi; e fissai Guido ridendo.



Egli venne da me rosso in faccia, con l'indice al naso:



– Zzz… zitto, per carità!



– Oh! credi che anche gli altri non abbiano gli occhi per vedere?



– Gli altri fingono di non vedere e non dicono nulla – rispose con voce dolente. Sorrideva anche lui, ma per timore. Ed io per spasso quasi crudele chiamai Marcella:



– Debbo dar retta a Guido?



Ella era divenuta più rossa di lui; si provava a fingere, a nascondersi.



– Perchè? che vuol dire?



– Debbo aiutarvi?



– Non so… non capisco… Mi lasci andare!



Invece la strinsi al braccio e le chiesi piano:



– Gli vuoi molto bene? – ; e la guardavo negli occhi come per impedirle di sfuggirmi. Sentiva essa la punta della cattiveria nelle mie parole e nei miei modi apparentemente scherzosi? Ah io volevo distrarmi: volevo sottrarmi a me stesso: interpormi meschinamente alla vita che vedevo fuori di me, e che mi sfuggiva!



– Non è vero!..; non so… Chi gliel'ha detto? – rispondeva la poverina, cedendo a poco a poco.



– E tua madre lo sa?



Abbassò gli occhi, esitando ancora:



– Sì… credo di sì; ma il babbo, no! – Mi scongiurava con i begli occhi.



– Il babbo presto o tardi dovrà saperlo!



– Oh per amor di Dio non dica nulla! È tanto buono lei! Non ci comprometta, Sivori! Guai, guai, se il babbo lo sapesse ora! – Pregava apertamente; sperava nella sua preghiera ed in me, e appariva ancor timorosa del pericolo. Soave creatura!

 



Anna Melvi, rasentandoci, ammiccò; fece: – Zzz… – e ruppe in una bella risata; e i due colombi, Guido e Marcella, mi scapparono.



Passavano davanti a me, intanto che Anna afferrava Pieruccio e si slanciava con lui, Roveni e Ortensia. Forse anche questa una coppia amorosa? Mi sembrarono estranei l'uno all'altra. L'ingegnere era tutto intento a condur giusto il passo e a non farsi scorger peggior ballerino di quel che era; e Ortensia non dimostrava che il piacere della danza: in un pieno abbandono d'ogni energia al ritmo; con ogni energia raccolta e diffusa nel giacere che le vibrava nel sangue, tutta la persona di lei esprimeva giovinezza lieta, e solo gioia e grazie ignare. Nondimeno allorchè ella cessò il ballo e venne a me, io le dissi con intenzione maligna:



– Bel giovane, Roveni…



Oh! essa non si turbò per nulla! Rise domandando:



– Lo dice a me?



– A chi dovrei dirlo, piuttosto?



– Ad Anna.



– E due! – esclamai persuaso che Ortensia intendesse svelarmi in Anna e nell'ingegnere il secondo paio d'innamorati.



Appunto allora Roveni, il quale conversava e scherzava ugualmente con le vecchie e con le giovani, lasciava la Melvi madre e la Learchi, e come avrebbe parlato a qualsiasi altra delle ragazze domandò a Ortensia: – Sarà lei che farà ballare il dottor Sivori? – Ma Ortensia non fece in tempo a rispondergli, perchè Anna si staccò d'un tratto da Pieruccio, lo piantò e si porse a Roveni; e via.



Pieruccio rimase intontito là dove l'aveva lasciato Anna; con quegli occhi bovini rivolti verso di noi, anzi verso Ortensia. A questa susurrai, col solito sarcasmo:



– Quell'infelice soffre; e si direbbe che soffre per te.



– No – ella rispose – : soffre per il colletto. – L'alto e rigido colletto l'attanagliava infatti; l'affogava.



In questo mentre la Melvi accresceva l'esitazione di Roveni e l'induceva a stringerla più forte mancando al tempo o cadendo in contrattempi: gli s'abbandonava affaticata e liberava una mano per risollevare i capelli che le si erano sciolti; ansimava e rilevava il petto turgido alla inspirazione frequente. Poscia di fronte a Pieruccio Fulgosi sorrise a lui, lusinghiera insieme e beffarda. Civettava con l'ingegnere e nello stesso tempo si burlava del giovincello. Ma questi era degno figlio di suo padre, e con l'aplomb di un uomo di spirito s'avvicinò ad Ortensia:



– Permette?.. Posso?



Ella accondiscese senza dir nulla; rivolse a me un'occhiata che diceva quanto colui era antipatico anche a lei, e riprese dopo pochi passi quella letizia ingenua che nel ballo dimostrava con ogni compagno.



Io tornai ad osservar Marcella. Più di Ortensia la vista di lei tratteneva la mia attenzione perchè Marcella, che, a guida di Roveni e di Fulgosi danzava in maniera scolastica e fredda, la vedevo ora, che ballava di nuovo con Learchi, quasi arrisa tutta dal lume de' suoi occhi: era la felicità di un rapimento, l'accondiscendenza di un'anima pura alla felicità dell'anima che la rapiva seco. Ugualmente per Guido. Inconsci di quanto poteva essere di materiale e d'umano nel commotivo sollazzo, trasalivano in rapidi giri con un desiderio di sollevarsi, guardandosi così, lungi agli uomini, fuori del mondo, liberi da quello stesso contatto dei corpi che li inebbriava e li intimidiva a vicenda. E quando Learchi accompagnò Marcella a sedere, egli ristette in piedi presso di lei senza parole; ambedue in un'attitudine quasi dolorosa: quel distacco repentino, quel ritorno al riposo materiale, era uno strappo alle loro anime che, accomunate nel piacere, non avrebbero voluto o potuto dividersi subito così.



A tal vista io provavo un rancore, un astio di cui non avrebbe dato sufficiente ragione neppure l'invidia, se l'invidia fosse stata possibile in me.



– Che fa lei qui? – mi chiese Anna Melvi.



– Studio – risposi, per dir qualche cosa.



Mi fissò per un attimo e disse:



– Ne imparerà delle belle!



Avrei voluto pungerla, ferirla quella ragazzaccia sguaiata; ma Ortensia la chiamò. Salivano da Eugenia. Quando rientrarono, Ortensia tornò subito a me dicendomi, felice:



– La mamma dorme… Vedesse! È queta queta.



Ma fin quella tenerezza filiale mi amareggiava! Senza badare che il mio turbamento, di una tristezza oscura e profonda, era pur esso indizio di risveglio psichico, io, di fronte alla affettuosa espansione della giovinetta, ebbi vergogna di me e provai il bisogno di dissimulare. Finalmente cercai parole che sembrassero buone.



– Dunque presto la porteremo in giardino, tua madre?



– Sì! E lei starà sempr

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