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In faccia al destino

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– Questo è inutile – interruppe Eugenia. – Basta che Sivori sappia la minaccia di tuo suocero…

– Appunto! Noi non lo dicevamo, ma mio suocero aveva minacciato di diseredare Guido. Avete capito? Odiava tutti; me più di tutti, e la mia creatura…

Necessariamente Guido non aveva potuto compromettersi ad aiutar Moser con quel pericolo addosso: che alla morte del padre gli rimanesse solo la parte legittima dell'eredità.

Ripigliò Eugenia: – Il vostro intervento, Sivori, ebbe anche l'effetto di mitigare quell'uomo… – E alla figliola: – Racconta tu…

– Adagio, mamma! Prima bisogna dire che cosa la signora Redegonda mi scrisse dopo che il marito ebbe recuperato il suo avere. Mi scrisse che quell'avaraccio riteneva il dottor Sivori un gran galantuomo e cominciava a ritenere l'ingegner Roveni una canaglia. Allora lei non lo lasciò più vivere; gli diceva sempre: – Bella figura avete fatto col dottor Sivori quando venne a trovarci! Bella stima avrà di voi il dottor Sivori a udire che odiate fin il vostro sangue!; – e così via.

Dopo aver disposto il marito a vergognarsi, un bel giorno la signora Learchi aveva detto di voler andare a Milano. Il marito rifiutava di accompagnarla. – Andrò sola – disse lei.

E sì che la signora Redegonda non aveva mai viaggiato da sola; non era uscita da Valdigorgo che due o tre volte in vita sua! Il marito dovè cedere; l'accompagnò; ma giurò che non avrebbe messo piede nella casa di suo figlio.

E la signora Redegonda: – Ci andrò sola. Mi aspetterete su la porta. – Ma quando furono su la porta giurò a sua volta che non sarebbe discesa finchè il marito non fosse salito a prenderla.

Di nuovo animosa e rapida Marcella riferiva la scena intercalando frequenti: avete capito? capite?

– Guido, capite? arriva a casa e vede… suo padre con nostro figlio in braccio!

Anche Eugenia rideva di gusto.

Già: Learchi era salito; era entrato in casa chiamando ferocemente:

– Redegonda! Andiamo via! Vado via!

Ma la moglie voleva desinare, prima. E si era messa ad apparecchiar la tavola, mentre Marcella fingeva di preparare in fretta il desinare già preparato.

Bebe piangeva a veder quel vecchiaccio; la signora Redegonda glielo pose in braccio perchè lo quietasse lui. Allora arrivò Guido.

– Bella scena! – ripetevo io.

Ma Learchi si era vendicato a tavola; perchè tra un boccone e l'altro non aveva risparmiato mortificazioni, e alla fine si era alzato dicendo al figlio:

– Il vino è amaro; ma ho mangiato bene… Buon pranzo; bella casa! Devi guadagnar molto.

Guido colse la palla al balzo:

– Guadagno abbastanza; se continuo così, in pochi anni pago i debiti.

Immaginarsi la faccia del Cerbero!

– Debiti! Debiti! Hai dei debiti?

Era una bugia credibile quella di Guido, giacchè Learchi ignorava gli aiuti che la signora Redegonda dava a Guido.

Marcella proseguì:

– Debiti! debiti! – urlava il vecchiaccio. – Andiamo via! Via! – Strappò seco la signora Redegonda, la fece sin piangere… alla sua maniera.

– Ride anche quando piange – notò Eugenia.

– In conclusione… Adesso parla tu, mamma…

(Eravamo al quia e Marcella perdeva l'animo tutto in una volta).

– In conclusione, qualche tempo fa la signora Redegonda ispedì a Guido una certa somma, quella lì sulla tavola, che ottenne dal marito perchè il figlio pagasse alcuni debiti. Oh non una gran somma! Ma per di più la buona donna annunciava che Learchi assegnava al figlio un tanto al mese, sempre per estinguere quei famosi debiti e non farne altri.

– Guido però ne ha abbastanza, per la famiglia, di quel che guadagna e dell'assegno materno…

– Guadagna davvero, Guido – asserì Marcella.

– … e Guido desidera assumersi lui il credito che avete voi con Claudio.

Me l'aspettavo!

– Capite? – interloquiva Marcella per aiutar la madre. – Non abbiamo più alcun timore per l'eredità… La belva è ammansata. Senza sacrificio possiamo mettere in disparte qualche cosuccia ogni anno…

– Eccovi intanto cinquemila lire in contanti – conchiuse Eugenia porgendomi il pacco, e quindicimila in cambiali in bianco, con la firma di Guido e della signora Redegonda.

Che dire?

– Non vi offenderete… – pregavano a una voce Eugenia e Marcella.

– Lo sa Claudio? – domandai.

– Sì; e trova giusta la cosa.

Allora dissi:

– Sia dunque fatta la vostra volontà! Ma vi dichiaro che non credo sia della signora Redegonda la parte principale di questa storia: è vostra, cara Marcella.

Ella rise, pur protestando:

– Ho detto la verità; credetemi.

Eugenia mi porse la mano.

– La restituzione della somma non ci sdebiterà con voi. La nostra gratitudine è anzi più grande perchè non ve ne avete a male.

Eh! Altro che avermene a male! Accettando, affrettavo la mia felicità. Infatti Marcella preparava il secondo tiro; e si valeva questa volta del fratello per lanciare una bomba a dirittura.

Mino in quel giorno di festa passeggiava e correva per ogni parte con un libro (chiuso) in mano; tanta aveva voglia di studiare! Con Marcella abbondava in carezze: a un certo punto si vide che le confidava le sue pene. Ne seguì un lungo colloquio; ma mentre fratello e sorella andavano a braccetto su e giù per la loggia, m'insospettirono le occhiate che il ragazzo mi volgeva di traverso. Poi, a un tratto, egli cercò Ortensia e le balzò al collo a baciarla senza dir nulla. La udivo gridare per liberarsene:

– Diventi matto?

Che diavolo mai gli aveva suggerito Marcella?

XII

Prolungando la nostra aspettazione e acuendo la nostra curiosità il cavalier Fulgosi accresceva l'importanza della notizia che ci aveva promessa.

– Cavaliere, la notizia? – La notizia, cavaliere?

Resistè fino a mezzo il desinare; poi solennemente, dall'alto della sua prosopopea cominciò:

– Signore e signori! Ho, non dico l'onore, non dico il piacere, ma la bonne chance di parteciparvi per primo che l'esimia artista di canto signorina Anna Melvi da qualche giorno ha giurato fede di sposa all'egregio giovane signor…

– Ingegner Arturo Roveni! – conchiuse precipitosamente Marcella.

A un oh! di stupore seguiron particolari commenti.

– Disgraziata! – fece Moser.

– Bene accompagnati! – mormorò Ortensia.

E Eugenia guardandomi:

– Così va il mondo!

Io tacevo. Provavo un senso di nausea e nello stesso tempo un'apprensione di malefizio.

– Che interesse ha avuto Roveni a legarsi a quella donna? – chiesi al cavaliere.

– Anna guadagna molto – Marcella disse ingenuamente. – Canta benissimo.

– Benissimo! – ripetè il cavaliere, che era rimasto deluso dalla consapevolezza di Marcella. – Ma se ella, signora mia, ha appreso dai giornali ciò che io ho appreso per partecipazione diretta, ella, mi consenta dirlo, non può sapere il perchè o i perchè di questo matrimonio. Io sono in grado di rispondere alle dimande del dottor Sivori.

Si fece assoluto silenzio; ma allora l'eloquenza del cavaliere arrembò dinanzi a una difficoltà non preveduta nel primo slancio. Bisognava parlare in modo da non offendere orecchie caste, e proprio allora non gli vennero in mente frasi inglesi che fossero del caso.

– Sono due le versioni che corrono di così inopinato avvenimento. Secondo l'una… ehm!.. si tratterebbe di… riparazione. Mi spiego? L'ingegnere… ehm! si sarebbe lasciato cogliere dalla signora Melvi madre…

– Basta! – esclamò Claudio. – Se continua, cavaliere, chi sa dove va a finire!

– Secondo l'altra versione, che ho da miglior fonte…

– Sentiamo! – interruppi io – ; perchè la prima è inverosimile. Roveni non è uomo da riparare!

– Secondo, dicevo, una miglior fonte, un gentleman inglese del Transvaal, capitato a Milano quando Anna cantava al Lirico, se ne sarebbe innamorato e…

– Avanti! – comandò Moser.

L'oratore proseguì di corsa:

– … l'inglese avrebbe offerto un impiego nelle miniere all'ingegner Roveni, altro ammiratore della diva, e l'ingegnere avrebbe sposata la diva per compenso, e tutti e tre en bon ménage sarebbero partiti da Milano alla volta del Transvaal. Mi sono spiegato?

Moser rispose: – Anche troppo!

– Questo è certo che gli sposi sono già in viaggio.

Dopo una pausa Fulgosi mi domandò se la seconda versione mi pareva più verosimile ed io risposi che la credevo nel vero. Era uno scandalo degno dei personaggi!

– … Per savoir vivre – il cavaliere concluse senza più timore di pericolare – bisogna savoir faire. La fortuna il più delle volte è soltanto ruse.

Ora bisogna sapere che quando il cavaliere parlava, Mino l'ascoltava con ammirazione manifesta. Che brav'uomo!, pareva dire il ragazzo ad ogni vocabolo francese o inglese ch'egli non capisse.

Ma di ciò che non capiva Mino non aveva mai chiesto schiarimento; forse per una riverenza quasi religiosa che gli imponeva di non sciupare l'efficacia del misterioso eloquio, o forse perchè pensava: verrà il giorno che ti comprenderò anch'io! Se non che a quella parola ruse, o fosse per la sua propria singolarità di suono o fosse per il modo perfettamente parigino con cui il cavaliere la pronunciò, il ragazzo rimase sbigottito. Che conseguenza ebbe questo sbigottimento! Produsse lo scoppio della bomba che Marcella aveva predisposta e affidata al fratello, dopo colazione.

– Ruse – Mino si provò a ripetere. – Cosa vuol dire?

Io, che avevo visto negli occhi di Eugenia e di Ortensia quant'esse disdegnavano la teoria del cavaliere e che sentivo il bisogno di sfogarmi, risposi:

– Ruse, nel significato che vi attribuisce il cavalier Fulgosi, vuol dir accortezza per far quattrini a prezzo dell'infamia; vuol dire sguazzare nel fango senza affogarvi; vuol dir l'abilità di contaminare la virtù, l'onore, la dignità umana senza incorrere in alcuna pena.

 

Il cavaliere s'inchinò esclamando: – Bravo!

Ma tant'è la significazione che può assumere una parola, che Moser rivolto a Mino aggiunse per conto suo:

– Quella parolaccia vuol dire anche che non sempre chi ha ingegno, è bravo, ha voglia di lavorare, è un galantuomo. Chi poi non ha nemmeno voglia di studiare…

Ne prevedesse, del tutto o in parte, la conclusione morale Mino interruppe il padre con un'affermazione che gli pareva incontestabile:

– Io sono un galantuomo!

– No – ritorse l'altro, inquieto. – Chi non ha voglia di studiare non è un galantuomo!

Ma Mino non tacque. Consultò, guardandola, Marcella, e nel modo di chi medita tra sè e sè, disse:

– Adesso dovrò studiare più di due ore al giorno perchè non ci posso più andare, in collegio.

– Eh?!

A quell'eh?! paterno ma feroce io e Ortensia ci scambiammo un'occhiata che diceva «ci siamo», e invano Ortensia cercò di trattenere il fratello chiamandolo a nome; anzi fu peggio.

– In collegio non ci vado più! – il ragazzo rispose, risoluto, a suo padre.

Questi con uno sguardo più feroce che mai gli imponeva di chiarire il perchè di così nuova oltracotanza; e la spiegazione precipitò mentre Marcella abbassava gli occhi sul piatto.

– Chi ci resta con te e la mamma se Ortensia sposa Sivori?

Che cosa accadde alla rivelazione? Non è difficile immaginarlo. Io feci una risata sciocca; Ortensia, rossa rossa, gridò: – Ma Mino! – ; Mino gridò: – È stata Marcella! – ; Marcella gridò: – Non è vero! – in modo da confermare l'accusa; Eugenia sorrideva guardandomi e il cavaliere era già in piedi col bicchiere in mano e un toast sulla punta della lingua, aspettando che Claudio deponesse la forchetta. Perchè Claudio faceva paura, in parola d'onore: i suoi occhi partendo da Mino avevano scrutato foscamente ogni volto intorno alla tavola e a scorgere gli indizi di una complicità universale egli era rimasto con la bocca aperta, non per ricevere il boccone che la forchetta tratteneva a mezz'aria, ma per lasciar passare un'esclamazione tremenda che non voleva uscire. Per fortuna dovè pensare che era impossibile infilzarci tutti quanti se prima non liberava la forchetta d'ogni impedimento, e ingoiò il boccone; e il boccone respinse in gola l'esclamazione tremenda; sicchè, dopo, Claudio non seppe più che dire.

Disse:

– M'avete preso, tutti quanti, per un imbecille?

Nessuno rispose; o meglio, per timore del proverbio «chi tace conferma» credemmo meglio ridere tutti in una volta.

– Dunque è vero? – urlò egli con l'arma rivolta verso il principale colpevole, che ero io e tacevo.

Chi tace conferma: sì, è vero non che tu sei un imbecille, ma che io sono felice!

E Ortensia mi salvò. Si alzò; venne a susurrare non so quali portentose parole all'orecchio del padre. Vittoria! Claudio mosse all'indietro la testa per attingere dagli occhi della figliola una conferma e, persuaso alla fine che essa diceva sul serio, si diè per vinto benchè gridasse:

– Son brutti scherzi!.. Una congiura!.. Un tradimento! – E con voce già malsicura: – Ma se è vero… Cavaliere, faccia pure il brindisi!

– Bene auspicando… – Etcetera: il brindisi si prolungò in un'orazione che ebbe per termine il motto sursum corda! S'alzarono invece i bicchieri, ma al tocco di essi parve proprio che si toccassero i cuori.

Quando ci levammo da tavola io non pensai affatto a disingannare Claudio; il quale, sempre per uscir dal dubbio d'essere quel che aveva detto, borbottava: – Un tradimento! Tutti d'accordo… anche Mino! È stato un tradimento!

Io ero ansioso di giustificarmi con Eugenia.

Ella parlò prima di me.

– Lo sapevo da un pezzo che vi volevate bene… Ma se l'avessi saputo anche prima, quando – vi ricordate? – vi dissi, lassù, delle intenzioni di colui…

– Il mio silenzio d'allora – esclamai – ; la mia dissimulazione fu la mia colpa. Voi saprete perchè tacqui?

– L'ho immaginato: Ortensia era tanto giovane! Eppoi, non volevate ammogliarvi…

Non bastava a mia scusa; e la buona donna cercò togliermi ogni traccia di rimorso:

– La colpa, del resto, fu più mia che vostra. Io, io avrei dovuto accorgermene… Ma è un destino che in certe cose io sia come Claudio: non abbiamo occhi per vederle al momento opportuno. E forse…; io lo credo, Carlo: credo che voi e lei siate stati provati così duramente per essere più felici adesso.

Era una felicità troppo grande?

Eugenia sembrò leggermi negli occhi la dimanda e non potè non dire di Roveni e della Melvi:

– Ora quei due… se ne vanno lontani; non abbiamo più nulla da temere.

Marcella udì queste parole. E poichè io mi accompagnavo a lei, nel prato, per ringraziarla del suo tiro birbone, anche lei prevenne quel che volevo dirle, e scampando in altro discorso, disse sommessamente:

– È strano! Un'impressione, di ieri…; e me ne son ricordata solo poco fa. Quando a Bologna, fummo scesi dal treno, e cercavamo l'uscita, mi parve di veder uno che rassomigliasse a Roveni in una carrozza di coda… Un'impressione, vi ripeto. Non poteva esser lui. Ma è strano che non ci abbia più pensato affatto.

Io… Ah io l'avevo ancora la spina nel cuore!

– Che hai? – mi chiedeva Ortensia.

– Finalmente! – risposi soltanto all'anima mia.

Finalmente potevam dirci che tutti sapevan del nostro amore. Però nessuno al mondo immaginava quanto ci amavamo!

Ma appena l'aria si fu rinfrescata io presi a braccio il cavalier Fulgosi (che era ancora insolitamente rosso e faceva complimenti a Marcella fin in Milanese) e lo sottoposi a un'inquisizione.

– Da chi aveva appreso che i Roveni eran già in viaggio?

Aveva la prova in tasca; e mi esibì un biglietto di Anna datato da Milano e scritto press'a poco in questi termini: «Sul punto di partire per Genova e per altri lidi sento il dovere di ringraziarla di quanto fece per me, anche a nome di mio marito». Il marito aveva aggiunto di proprio pugno: «Saluti dal suo dev. Roveni».

– In relazione?.. Ecco: si era imbattuto in Anna un giorno, sotto la Galleria… Essa gli aveva annunziato il suo imminente matrimonio.

Come evitare di mandarle un bouquet il dì delle nozze? Era stato lui, il cavaliere, a introdurla al Lirico

– E dal giorno dell'incontro non s'eran più riveduti?

– No: in fede di gentiluomo!

– E quel giorno avevan parlato d'altro? dei Moser?

– Anna aveva chiesto: I Moser sono a Bologna, è vero?

(Il cavaliere ebbe una reticenza).

– Dovevo non dire di sì?

– Soltanto? Non aveva detto qualche cosa di più?

– Anna aveva domandato, sempre con aria di semplice curiosità: «Lei andrà a trovarli?» Ed egli s'era schermito con un «forse». Null'altro, in fede di gentiluomo!

Ma ahi! Anche i gentiluomini possono dimenticare qualche parola di poca importanza. – Il cavaliere, per esempio, potè dimenticarsi d'aver risposto, invece, che andrebbe a trovare i Moser «forse… tra qualche giorno».

Io però, allora, mi tenni pago, anzi contento dell'inchiesta. – Non c'era dubbio! Marcella senza dubbio si era ingannata! I coniugi Roveni navigavano per altri lidi.

XIII

E alla Rita…

Lasciatemi indugiare in questi grati ricordi. Sono di un uomo che per troppo tempo aveva sol visto, in tutti e in tutto, infelicità e tristezza.

Fino il sorriso che i miei poveri ammalati trovavano al mio saluto, mi era, in questi giorni, d'augurio; e tornando dalle loro case ristavo al rezzo dei pioppi.

Nei fossati scorrevano limpide le acque; nei maceri, già ripuliti della canepa, si specchiavano nitidamente case e alberi; nei campi le glebe riflettevano il sole dal netto taglio dell'aratro e le grida che incitavano i buoi passavan lente ma non sgradevoli, quali voci di tranquilla pazienza; dalla terra dissodata, dalle vigne cariche d'uva e dalle acaciaie sorgevano festose schiere di passeri e storni, e invisibili nel più cristallino cielo di settembre, le allodole s'inebriavano di voli, di trilli e di sole. Osservavo e ascoltavo… Né io potevo più sentir punture della spina che mi restava nel cuore, se Dio con tanto impeto di vita mi penetrava nel cuore. – Dio, Dio mi voleva felice! Dio doveva aver attutito la vendetta nel cuore del perfido, che ora navigava dimentico…

E alla Rita dissi che, che secondo l'usanza del paese, mi preparasse presto gli zuccherini nuziali. Non mi credeva, credeva scherzassi. Ma poichè insistetti, mi domandò se la sposa sarebbe quella che s'intendeva lei, la figliola del signor Claudio?

– Certo! Chi vuoi che sia?

Non scherzavo; e la vecchia cominciò a urlare:

– Biondo, correte! Correte!

Il Biondo sapeva che la moglie da cinque mesi giuocava, ogni settimana, più numeri che con cabala sapiente aveva ricavati dalla gran disgrazia dello zingaro, e perciò egli trottò verso di noi domandando:

– Son venuti? Ambo o terno?

I quattrini fan sempre piacere! Ma la moglie rispondeva:

– L'ha avuto lui, il signor Carlo, il terno secco! Meglio di un terno secco ha avuto! Non vedete che faccia? Non ve lo dicevo: date tempo al tempo?

E così via; finchè il Biondo ebbe appreso che la mia sposa era proprio quella che s'intendeva lui:

– La figliola del signor Claudio!

Si trasse la berretta e alzando la testa e le braccia al soffitto cantò, col più sincero fervor religioso: Te Deum laudamus!

Ma dopo, per tutto quel giorno, il Biondo tenne le palpebre abbassate. Chi gliele avesse alzate avrebbe forse aperta la strada a due lagrimoni. E non segò nè piallò, quel giorno; nè andò nel campo a guardar all'uva; non andò in paese a comprar tabacco. Solo fece fretta alla moglie che mi preparasse la cena e, n'avessi voglia o no, fui condotto a cenare mezz'ora prima del solito. Mentre io cenavo il vecchio veniva sempre a farmi compagnia. Quella sera però egli taceva, e invano cercava un pizzico nella tabacchiera. A un tratto mi diresse uno sguardo di sottecchi e contemporaneamente una domanda, che mi fece ridere!

– Me lo sa dire lei perchè il Signore non m'ha dato un figlio?

In verità io non potevo sapere quel che ignoravano lui e la Rita!

Ma egli non attese alla celia, e adagio adagio, come soleva, mi disse che se il Signore non gli aveva dato un figlio poteva ben dargli un figlioccio; e che un figlioccio sperava d'averlo se il primo figlio che mi nascerebbe glielo lascerei tenere al battesimo. Fui per rispondere: è un onore!; perchè mio figlio o mia figlia (egli si contentava anche di una figlioccia) non avrebbe potuto desiderare per santolo un galantuomo più galantuomo del Biondo. Parve invece che troppo onore fosse concesso a lui e che egli avesse studiato il modo di meritarlo. Riprese a dire che non poteva dimenticarsi dei miei vecchi, da cui aveva ricevuto del bene; e che io e lui eravamo senza parenti degni, e che la sua donna aveva quel tal nipote sciupone e vizioso; e la sua donna poteva chiamare erede anche il nipote se così le piaceva; e che lui, a sua volta, nominerebbe erede chi più gli piacerebbe. In sostanza, il podere che era stato dei miei vecchi potrebbe tornar proprietà della mia famiglia e dei miei discendenti.

– Dipende da lei – concluse il Biondo, tabaccando senza tabacco fra le dita.

Io gli espressi la mia gratitudine scherzando ancora.

– Ah! dipende da me? Dunque se tu non ne hai avuti dei figlioli…

Comprese dove sarei andato a parare; scrollò il capo e il fiocco della berretta; mi minacciò con la mano e rise, e trottò via leggero a comperar il tabacco. Rimasi a considerare quel che un tempo io aveva pensato del Biondo; liberale, lo credevo, soltanto nel regalar le casserelle per i piccoli morti; galantuomo sì, ma non alieno dallo sfruttarmi per avarizia.

Dalle quali considerazioni non favorevoli anch'esse alla mia psicologia, ne sorgeva un'altra contraria del tutto al mio antico pessimismo.

Alla generosità con cui mi ero prestato per Moser facevan riscontro la generosità della signora Redegonda per un verso, e la generosità del Biondo per l'altro.

Sarebbe vero che chi semina bene raccoglie bene?

XIV

Ma quale fu il mio stupore allorchè, giungendo due giorni dopo alla Ca' Rossa, Ortensia mi venne incontro e mi disse tranquilla, sebbene un po' pallida:

– Anna mi ha scritto!

– Non è partita! – esclamai; e pensai: «Marcella non s'ingannò! Roveni era a Bologna».

– È partita – Ortensia continuò. – Ti confesso che ho voluto leggere alcune righe della sua lettera infame e stupida prima di stracciarla. Diceva in principio: «Quando riceverai questa mia, sarò molto lontana.» Era la lettera che io aveva temuta da tanto tempo!; la lettera della calunnia e della vendetta: solo che Roveni, invece di mandarla anonima, aveva voluto che sua moglie, con ardimento degno d'entrambi, affermasse o confermasse lei ad Ortensia la colpa della madre e mia.

 

– E tua madre, sa?..

– No. Per fortuna la mamma era entrata in casa allora, quando il portalettere mi fece segno, mi chiamò dal cancello. Non gridò, come al solito, «posta!»

«Ecco perchè – pensai – Roveni venne a Bologna». E chiesi:

– Che data aveva la lettera? Hai visto? – insistetti io.

– Sul timbro di Genova c'era un quindici: son certa.

– Già; alla metà d'ogni mese partono molti vapori da Genova…

Rapidamente facevo tra di me questo calcolo: il nove od il dieci settembre Anna aveva inviato al cavaliere il biglietto datato da Milano; l'undici Fulgosi e Marcella erano alla Ca' Rossa.

Mentre Anna partiva per Genova, Roveni aveva potuto seguir Marcella e il cavaliere a Bologna; prendervi disposizioni perchè la lettera andasse a posto, proprio in mano d'Ortensia, essere il quattordici a Genova; dettare e spedir la lettera, e imbarcarsi colla moglie. Tutto ciò era possibile; verosimile, vero. Era vero dunque che i nostri nemici navigavano per altri lidi! Finalmente m'era tolta del tutto la spina del cuore!

Infatti Ortensia diceva:

– Un'infamia stupida! Ho visto che Anna mi dava la notizia del suo matrimonio, eppoi:

«E tu, Ortensia, quando ti sposi? Bando agli scrupoli!..»

Nel riferire queste parole Ortensia ebbe il volto improntato del velenoso sorriso che Anna aveva dovuto avere scrivendole. Ma si ricompose; tornò lei, fiera e cosciente della sua fierezza: – Non ho letto altro! Ho stracciato…; non ho voluto un nuovo rimorso. Il solo rimorso che mi resta sai quale è? Quello d'aver ascoltato il giuramento che tu mi facesti a Molinella. Per me doveva essere inutile!

– Io, io, – esclamai – non avrei dovuto giurare quel che non è dubbio: che il sole passa sul fango e non s'imbratta! La virtù di tua madre è limpida come il sole! Ma io cercavo il momento di prevenire l'ultimo colpo, che mi aspettavo, che è venuto; io cercavo, piuttosto che difendermi, difenderti da una nuova offesa…

– Povero Carlo, avesti ragione: ma adesso siamo tranquilli per sempre. Nessuna ombra turberà più la nostra felicità!

Oh nel dirmi questo che luce Ortensia aveva negli occhi!.. Eppure libero da ogni dubbio, io aveva tuttavia bisogno di schiarirmi l'azione di Roveni.

Aveva potuto credere che in tanti mesi non avessi preso alcuna precauzione contro la sua vendetta? Rispondevo ch'egli era convinto che io fossi stato l'amante di Eugenia. E la sola precauzione di sicura efficacia che io avrei potuto prendere sarebbe stata appunto quella di predisporre Ortensia a respingere l'odiosa accusa assicurandola con un giuramento. E Roveni non mi credeva uomo da giurare il falso. Dunque sperava certo l'effetto da lui sperato nella lettera di Anna.

Ma Roveni non avrebbe dovuto prevedere che Ortensia straccerebbe la lettera accusatrice? No – mi rispondevo – Roveni sa che Ortensia è fiera e forte. Chi è fiero e forte straccia prima di leggerla un'anonima; non la lettera di un nemico. – E infatti Ortensia aveva letto quanto a parer di lui sarebbe bastato al suo fine.

Così mi dicevo. – Eppure nella vendetta del nostro nemico sentivo ancora qualche cosa di inferiore, di meschino; mi pareva inferiore alla sagacia di lui quella sua gita di lui a Bologna per poi fare impostare la lettera a Genova e studiare qua il modo più sicuro perchè la lettera andasse a posto.

Ma la smania della vendetta rende gretti l'animo e l'intelligenza. E che torbidi commovimenti doveva dare la passione a un uomo come Roveni!

Pensavo: quando egli possedeva Ortensia nella sua immaginazione, attendendo di possederla in realtà, che cosa lo tratteneva dal cedere alle seduzioni di Anna Melvi? Il confronto fra Anna e Ortensia. Le delizie che gli promettevano la bellezza di Ortensia superavano di tanto le tentazioni della Melvi che lui uomo sensuale, resistette; non si compromise. Ora fra le braccia di Anna quel confronto sarà tornato alla sua mente, e quale tempesta avrà suscitato nella sua mente e nel suo animo! Quale disgusto avrà egli di quella donna, e quale amarezza gli darà il pensiero del bene perduto! Anna, che non ha mai amato, Anna da cui ha un aiuto ignobile, l'accompagnerà da per tutto per rimprovero continuo della sua bassezza; Anna già lo vincola per pena della sua sconfitta, lo stringe per incitamento ai rimorsi…

Che castigo sarebbe questo se Roveni non trovasse lenimento nella vendetta! E perciò si capisce quello studio, quella cura a far pervenire ad Ortensia, con assoluta certezza, la infame lettera. Ma Roveni ha commesso un errore più grande del mio! Io non conobbi lui; ma lui non ha conosciuto Ortensia. – Così mi dicevo.

Ma no: anche con tutto questo, troppo, troppo in basso mi pareva che Roveni fosse precipitato! La immagine di lui s'affoscava ancor più nella penombra in cui egli stesso aveva sempre cercato d'involgersi. Qualcuno o qualche cosa al di fuori della volontà sua mi pareva dover averlo spinto a tale abiezione.

Il destino? Forse il destino si era valso di Roveni quasi di uno strumento cieco? Sì: forse era stato necessario che quell'uomo attraversasse il nostro cammino e si comportasse in tali modi perchè io, dopo uno stato d'infelicità morbosa e con l'amore, l'errore, il rimorso, riuscissi a concepire altrimenti la vita; perchè Ortensia, dopo tanti patimenti ed affanni e con l'energia del suo animo, fosse risollevata a quella fede nella vita ch'ella sola aveva saputo ridarmi.

Ma se così era, oh io potevo finalmente guardare al destino senza più trepidare! Chiaramente ora vi leggevo il perchè della umana necessità del soffrire: per l'elevazione dello spirito umano. La nobiltà, la redenzione del dolore, ecco quel che cominciavo a leggere in faccia al Destino!

XV

E perchè la vecchia Rita faceva bagnar dalla guazza e imbiancar dal sole la tela più fina ch'essa tessè al tempo delle sue materne speranze? Un corredo di tovaglie e tovaglioli era forse il dono che destinava alle mie nozze. – E perchè il Biondo si era dato a rilevar di scalpello sul legno, lavorando zitto e cheto e accarezzando l'opera con sguardo d'artista, di dietro gli occhiali e di sotto le cateratte? Non componeva una delle solite casserelle: forse una culla?..

Solo affliggeva il povero Biondo il prossimo obbligo d'indossare, per la prima volta in vita sua, un vestito pienamente nero. – Il sarto, che glielo faceva, andava propalando per tutto il paese che sarebbe appunto il Biondo uno dei testimoni al matrimonio del dottor Sivori. Sempre fortunato quel vecchio!

È già nella tabella delle pubblicazioni matrimoniali, appesa nell'atrio del Municipio, si leggevano insieme il mio nome e quello di Ortensia. Se non che a non pochi quel cognome di Moser urtava i nervi; le ragazze di Molinella si chiamano più alla buona; nè perciò ve n'era alcuna disposta a ritenersi inferiore per bellezza a una straniera, francese o inglese o tedesca che fosse, e per bella che fosse! Intanto Ortensia ripeteva: – Sono contenta! – , con la stessa vivacità d'una volta. Era contenta perchè avevo acconsentito che si celebrassero le nozze non a Milano o a Bologna, ma al mio paese; era contenta perchè un giardiniere disegnava aiuole nel prato della mia vecchia casa, e perchè nelle vecchie camere si rinnovavano le tinte e le stampe senza mutarle…

– Ma tu, mamma, non sei contenta?

– Che vuoi? – Eugenia le rispose una sera. – Stento a credere che devi lasciarmi anche tu.

Per abituarsi a questo pensiero Eugenia si pose al collo il vezzo di perle che portava lei quand'era fidanzata…

Ed io benedicevo il giorno che nacqui, se fin da quel giorno m'era destinata la felicità che m'attendeva imminente; benedicevo le tristezze della mia fanciullezza pensosa e della mia adolescenza solinga; benedicevo le audacie e gl'inani sforzi della giovinezza ambiziosa e le rodenti invidie e le frenesie dell'orgoglio, indomito prima e poscia abbattuto, se per tutti questi mali avevo meritato il bene che mi attendeva; benedicevo la mortificazione delle energie fisiche in cui m'ero annichilito e l'intorbidamento della mente e l'abbassamento dello spirito, se m'erano stati mali necessari affinchè tanta gioia mi venisse con la guarigione, la purificazione e l'elevazione di tutte le mie facoltà; benedicevo la scienza che pur dopo le ruinose delusioni m'aveva serbato tanto di sè da lasciarmi intendere, ai dì della gioia, armonie segrete e remote bellezze della vita e del mondo; benedicevo il sentimento religioso che dai miei umili avi mi era disceso nel sangue e che avevo rinnegato nei più oscuri giorni, e che adesso mi rifluiva liberamente al cuore come per un aumento di fiducia e di gaudio rivelandomi totalmente l'amore.

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