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In faccia al destino

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– Non è vero…

– … e tu forse… – almeno io lo desiderai allontanandomi da te… – tu saresti stata felice!

Ella appuntò l'indice della sinistra verso i miei occhi.

– Vedete? Ecco come mi avete conosciuta! Pensate anche adesso che io avrei potuto amare un altro come amai voi! Anche adesso ignorate il bene che vi ho voluto… È una crudeltà! un'offesa! Mi difendo, ora! Dovete sapere tutto il male che mi avete fatto!

Sempre più concitata e pallida riprese:

– Sentite! Vi amavo fin da bambina! Per quello che udivo dire di voi da mio padre, da mia madre, vi avrei amato anche se non vi avessi mai visto; ma vi conoscevo. Ragazzetta, quando si parlava d'amori e di nozze, dicevo: «Voglio sposar Sivori». A diciassette anni, quando v'aspettavamo a Valdigorgo, dicevo: «Sono grande! sono una ragazza!, ma non voglio pensare a nessun altro che a Sivori, voglio pensare sempre a lui. Nessuna donna potrà mai dirgli, a Sivori, quel che gli dirò io un giorno: ho pensato sempre a voi; non ho mai pensato che a voi!» Veniste. Eravate così triste; infelice, malcontento di tutto. E mi diceste se volevo essere io la vostra sorella. Sorella! Avevo udito dirvi che bene sarebbe stato per voi quest'affetto; e mi parve una cosa sublime. Fui felice a scorgere il bene che vi facevo. Ma ero tanto inesperta! A poco a poco il mio affetto mutava, diveniva quale doveva essere, come era prima, ma più grande, molto più grande! E mi accorsi che anche voi mi amavate di più, in un altro modo. Oh allora! Il mio amore, diventò così grande che il bene di una sorella era nulla al confronto, era uno scherzo; un amore così grande che m'impauriva. Io vi amavo in modo che mentre sembravo così coraggiosa non osavo parlarvi, molte volte! molte volte tardavo a cercare di voi e avrei voluto nascondermi; e non potevo più vivere senza vedervi. Era un amore in cui entravano molte fanciullaggini, molte sciocchezze, forse; ma in cui c'era anche dell'orgoglio, della fede. Non pensavo più che poteste sposarmi: ve lo giuro! Mi bastava sapere che voi mi amavate. Non so esprimere quel che provavo: c'era in me una vita diversa, più forte… Io, tanto inesperta, ingelosivo del vostro passato, io dubitai di non amarvi abbastanza! Così vi amavo! E mi abbandonaste! Non aveste pietà di me… Speravate che io vi dimenticassi? Il martirio cominciò invece con la vostra partenza! Non trovavo ragione del vostro abbandono. Le parole che mi diceste di ritorno dalla messa erano state un pretesto… Come potevate credere, voi, che io potessi amare un altro? Un pretesto! Forse voi non volevate per moglie una giovinetta? Ma voi mi amavate: l'avevo visto! Il nostro amore, l'amore come io lo pensavo non doveva avere paure o riguardi: era un pretesto anche la differenza d'età! Perchè dunque? Voi nascondevate il vostro amore ai miei; pareva un delitto… Ebbi un dubbio…

– Quale? – domandai ansioso, con un brivido nelle vene. (Non era, forse, un dubbio suscitato dalla calunnia di Anna,: che io fossi stato l'amante di sua madre?..)

– Dubitai aveste, lontano, una donna amata… Mi sarei uccisa di rabbia; ma anche questo sospetto cadde. Il mio amore era superiore a tutto; doveva essere il solo, il vero amore anche per voi; e avrebbe dovuto infrangere ogni vincolo. Ridete! Mi appigliai a un'idea stupida: che mi aveste messo alla prova… Mia madre si maritò a diciott'anni; quando io avrei la stessa età, sareste tornato per chiedermi ai miei in isposa. Pazza addirittura: vi aspettavo per il dì del mio compleanno! In questa speranza avevo ore di tal gioia, di tal fede che mi pareva di essere felice come da bambina. Ma queste furon poche ore; quante ore invece furono atroci!

A questo punto Ortensia passò di nuovo la mano su la fronte e disse:

– No. Son cose che non posso, non debbo confessarvi!

– Parla! – gridai io riafferrandole la mano e dimostrando con che passione l'ascoltavo. – Debbo saper tutto il male che t'ho fatto!

– Ma non tutto il male che m'han fatto gli altri.

Col brivido di pocanzi insistetti:

– Gli altri: chi? Anna Melvi? L'ho immaginata la sua perfidia… Parla; di' tutto!.. Voglio saper tutto!

– No! – ripetè. – La perfidia di Anna aveva del resto, lo stesso motivo del mio dolore, della mia disperazione. Anche per lei c'era un mistero. Perchè mi abbandonaste?

Gli occhi d'Ortensia mi fissavano con intensità.

Vedevo orrore nelle sue rimembranze le pensai ch'ella mi rinnovasse quella dimanda, conoscendo interamente la malignità di Anna. La fissai a mia volta, e adagio, con voce divenuta sicura, e con la forza della coscienza, le dissi:

– Ortensia! Io sono un miserabile risorto alla vita. Ma non si risorge alla vita senza riacquistare una fede. Almeno questo credo: che mia madre non sia morta del tutto. Il suo spirito aleggia forse intorno a noi. Ella forse mi ode. Ebbene: per l'anima di mia madre che io credo m'accompagni oggi teco, come in un consenso d'amore, per l'anima di mia madre io ti giuro, Ortensia, che t'abbandonai solo perchè il mio amore non ti rendesse infelice, perchè tu fossi un giorno sposa felice d'un altro!

Un sorriso o uno spasimo prevenne su le labbra di Ortensia, queste altre parole:

– Ne io nè Anna potevamo credere a tanta generosità, a una rinuncia per beneficenza! Io avevo desiderato di morire… Avevo messo l'amore a pari della morte: non potevo metterlo a pari dell'interesse! E Anna… Oh Anna spiegava le cose dal punto di vista della sua bassezza… – Così dicendo chinò il viso e si strinse convulsamente le mani, per frenarsi. Ma non potè non soggiungere: – Io non l'ascoltavo, Anna; però l'udivo e le sue parole eran veleno che m'entrava nel sangue… Voi credete d'avere indovinato qualcuna delle sue insinuazioni? Che! furono piccoli morsi, soltanto, nei primi mesi. Dopo, diventarono ferite che mi squarciarono il cuore.

Tacendo di nuovo Ortensia accrebbe in me l'impressione del suo strazio.

Ma d'un tratto, con l'eccitazione a cui già l'avevo vista abbandonarsi a Valdigorgo, proruppe:

– Sì: avete ragione! Dovete saper tutto! Il vostro giuramento accresce i miei rimorsi, ma c'è la vostra parte di colpa da chiarire! Anna – sentite – mi diceva: «Sivori ti ha abbandonata?» Non le rispondevo; scuotevo le spalle. Essa sorrideva. Eppoi, dopo qualche tempo: «Sivori è rimasto fedele a qualche antica fiamma». Il mio interrogarla, conoscere la verità a prezzo del mio stesso dubbio! E che ne sapeva lei? Avrei voluto sangue; e tacqui sempre. Essa lasciò passare qualche tempo, eppoi: «Hai finalmente scoperto il mistero?» O mi compiangeva ridendo: «Povera bambina!» Finchè disse: «Hai scoperto che l'antica fiamma di Sivori non è a Berlino?», e disse questo in un modo, in un modo… Alludeva a persona vicina, a persona che io conoscevo. A chi? a chi? Un'«antica fiamma»… Ah un pensiero orribile mi attraversò la mente! Non volli più vederla, colei, perchè ogni sua parola mi richiamava quell'idea orribile… Mi accordai con Marcella per allontanare Anna da casa nostra. Ma incominciò la lotta che doveva durare non solo giorni; dei mesi! Pensavo: Sivori dice che il mondo è fango. C'è tanta cattiveria al mondo che Anna forse… s'è intesa d'infamare mia madre? È impossibile! Chi non conosce che donna è mia madre? Con tutta l'anima respingevo il sospetto… il solo sospetto che si potesse infamar mia madre. Capite? Questo solo sospetto! Ed era nulla! Temei, sperai impazzire perchè una voce diabolica mi suggeriva tutto quello che dicevate voi, esperto del mondo: al mondo tutto è brutto; tutto è finzione, menzogna! Ma se questo era vero… Ecco, Sivori, a che fui condotta! Orribile! Era un'idea che mi balenava coi ricordi del vostro pessimismo, della vostra sfiducia di tutto e di tutti. «Se il mondo è fango… non potrebbe esser vero… quel che sembra dir Anna?» Che martirio! Se mia madre avesse visto, allora il mio martirio! Ma l'idea assurda, atroce dava la spiegazione del mistero: «Ecco perchè Sivori m'ha abbandonata!» Quante volte mi gettai nelle braccia della mamma per accarezzarla, per sentire il suo cuore, che mi perdonasse! E quante volte vi avrei scritto: – Carlo! impazzisco… Tornate!.. – Mi pareva che al solo vedervi mi sarei purificata l'anima e vi avrei perdonato tutto il male che mi avevate fatto, tutto il male che mi avevate insegnato!

Non resse più oltre; nascosto il viso con le palme, Ortensia singhiozzò. Io la pregavo, la scongiuravo di perdonarmi; non potevo dir altro: – Perdonami.

Ma furon pochi istanti; senza badarmi, volle pur dire come nel suo cuore aveva salvata la virtù di sua madre.

– Lottai; vinsi. Mi svegliai dal sogno. Avevo sognato che la vita, brutta per tutti, sarebbe stata bella per noi, per il nostro amore. In realtà, voi non mi avevate amata; mi eravate affezionato soltanto: sorellina! Non era stato dunque un abbandono, una fuga: era stata semplicemente una partenza, la vostra. E la malignità di Anna non aveva altro scopo che affliggermi per la simpatia che mi dimostrava Roveni. In realtà, io ero stata malata, ero malata; ma guarirei. Povera mamma! Una santa! Però dovevo imparare anch'io a stare al mondo! Non dovevo toglier subito ogni speranza a Roveni; e cercai di sopportare le sue maniere; di vincere l'antipatia che a poco a poco suscitava in me. Ma quando tentò d'imporsi con le minacce, quando tentò di profanare il segreto dell'anima mia, gli risposi no! Ricaddi; lottai di nuovo; dubitai di non guarire mai più e invocai una sventura. La desideravo per sottrarmi a quel martirio; per avere un dolore diverso… Vi ho amato?

– Povera Ortensia! – io mormorai, con un nodo alla gola.

– La sventura venne. Voi tornaste. E io vinsi ancora: con la coscienza tranquilla potei chiamarvi fratello… Non avreste dovuto esser altro per me; non sareste più altro. Così avevate voluto voi un giorno, così vi ripetei. Lo stesso vi ripeto oggi… Dunque che pretendete?

– Che tu mi perdoni…

– Vi ho già perdonato.

– Non mi basta!

 

– Io ho per voi la gratitudine di una sorella che vi deve più della sua vita!

– Non mi basta! – gridai affannoso, fuori di me. – Non mi basta perchè io t'amo come tu mi amavi un tempo; e tu devi amarmi come io ti amo! Per il mio amore devi amarmi; per tutto quello che m'hai fatto soffrire, e non sai; per tutto quello che t'ho fatto soffrirei! Devi amarmi per queste lagrime; per le ferite che m'hai inferte oggi; per la debolezza che un tempo mi faceva temere e desiderare la morte e per la forza con cui oggi ti chiamo alla vita! Io debbo la vita a te; ma tu non hai il diritto di togliermela: me l'hai data non solo a prezzo d'amore, ma di dolore! Quando l'esistenza m'era divenuta un peso inutile, per te riacquistai la facoltà di amare; ma appresi anche che c'è qualche cosa di più alto dell'amore: il dolore. Mi sollevò il dolore; mi diede forza il dolore, mi diede fede e bontà il dolore! Ecco perchè devi amarmi come ti amo, come mi amavi!

Scuoteva il capo. Senza guardarmi mormorò:

– Sono forse in preda di una malìa? Mi pesa sul capo una maledizione? Credetemi, Carlo! non posso più amare così; non sono più degna di essere amata così! Nel cuore alle volte mi par d'avere una pietra, un pezzo di ghiaccio; mi pare di essere condannata a un'eterna tristezza. Quei fiori che abbiamo visti laggiù come son belli!: ma non per me. Oggi è una giornata meravigliosa: ma non per me. Voi siete buono: ma non per me… Ho nell'anima la vostra tristezza d'un tempo; la vostra disperazione.

Con le mani nei capelli esclamai:

– Adesso capisco tutto il male che ti ho fatto! – Vedevo la distruzione di quell'anima; irreparabile.

Meglio morire!

Oh morire tutti e due!..; travolgerla meco nel lago!..

Essa disse:

– A mio padre gli han confitto le spine nella fronte, ma poi gli han detto: sei una vittima. A mia madre le han gettato il fango addosso; ma lei lo ignora. Io sì che ho ingoiato tutto il fiele… Come potrei amare? Che moglie, che madre sarei io? Che dovrei insegnare, io, ai miei figlioli? A odiare! Ho l'odio nel sangue, Carlo! Non posso più piangere… E volete che ami!

… Travolgerla meco nel lago. Finire!

Di contrasto il pensiero mi ricorse a Eugenia.

– Tua madre… Tua madre sa… di me?

– Sa il bene che vi volli…

– Dunque anche tua madre benedirebbe il nostro amore!

Ortensia sembrò non udirmi. Immobile, tendeva lo sguardo, come perduto innanzi a sè, all'orizzonte. Il sole calava sanguigno e l'acqua ne rendeva quel rossore di sangue. A un tratto…

– Ortensia! – gridai – Ortensia! – l'invocavo ebbro di gioia. Non m'ingannavo!

I suoi occhi risplendevano dell'antica luce…

Disse piano:

– Vi ricordate, quand'ero ragazzetta, quel giorno che ci sorprendeste sul prato del convento? Vi lasciammo lassù, solo. Ma io tornai da voi… Era un tramonto così… Come ero felice, allora!

Scoppiò in pianto dirotto. Salva! Io la trassi al mio petto, al mio cuore: salva!

E i miei baci ricuperarono quell'anima.

VIII

In piedi su la porta di casa, con le mani ai fianchi, la Rita era contemplata di sottecchi dal marito, che col naso e i bargigli più rossi del solito e la berretta un po' disorientata, le sedeva di fronte.

In quell'accordo idilliaco i coniugi aspettavano tornassi dall'aver accompagnati gli ospiti alla ferrovia per ammettermi al discorso, che ad essi suggeriva un'idea contemporaneamente venuta al loro pensiero.

Non sospettavano che la stessa idea fosse venuta anche a me; e a meravigliarli già bastava il fatto di esserne illuminati ambedue in una volta. Anzi la combinazione avrebbe avuto del miracolo se in essi fosse stata minor opinione della loro furberia e pratica del mondo. Però anche ai furbi bisogna prudenza quando hanno da aprir gli occhi a chi li tien chiusi di sua propria volontà.

E per aprir gli occhi a me, lui, il Biondo dagli occhi soppiattati, cominciò a dire alla moglie:

– Il signor Claudio dimostra più anni di quel che ha.

La moglie assecondava.

– Sicuro!; lo dico anch'io; è sempre un matto allegro; ma ha fatto i capelli bianchi… Eh, a stare al mondo!..

– Un uomo troppo buono. Lo so io se ha del cuore! Quando gli ho detto della vedova dello Zingaro è andato subito al portamonete… M'ha dato troppo, vi dico!

– Il Signore gliene renderà merito; gli farà crescer bene il figliolo; gli mariterà bene anche quest'altra figliola.

Pausa. Eppoi il Biondo, accomodandosi la berretta e sollevando le palpebre verso di me:

– Che bella ragazza!

– Bella e buona – aggiunse la Rita.

Io domandai:

– Come fate a saperlo che è buona?

– Si vede!

– È figlia di suo padre!

– Sta a vedere che il signor Carlo verrà a dirci lui, adesso, che è cattiva!

La Rita, così dicendo, rideva.

Proseguivano:

– Ha degli occhi che parlano.

– Ehm! Non vorrei io che invece di lei, poverina, fosse cattivo qualchedun altro con lei!

– Cosa intendete dire? – domandò, furbo, il marito.

– Niente! niente! Una mia idea…

– A Molinella – affermò il Biondo – non c'è mai capitata l'uguale. Ce n'è, qui, delle ragazze che hanno una bella dote? Ma tutte bùggere! aria! fumo!

– La più bella dote sta nell'affezione…

– Bene! Ho un'idea anch'io, se volete saperla: che l'affezione c'è, a quest'ora, e come! Con quegli occhi che parlano… Si vede!

– Ma siete matti da legare! – gridai io, finalmente. Press'a poco con lo stesso tono avevo dato un giorno dello sciocco al cavalier Fulgosi.

E la Rita: – Non ve l'ho detto che il cattivo questa volta è lui, il signor Carlo?

– Ma non sapete – gridai di nuovo – che potrei essere suo padre?

A questo grave argomento la Rita oppose un proverbio: «Se il marito non è in età, la moglie giudizio non ha». E il Biondo oppose un'argomentazione che tagliava la testa al toro, meglio dei proverbio:

– Se lei, signor Carlo, avesse i miei anni, poh! avrebbe ragione di pensarci su; ma se io avessi suoi… ah! corpo di…! non ci penserei su tanto!

Quindi la Rita avanzò di due passi verso me parlando più seriamente che mai.

– Vuol campar sempre solo come un cane? Quando siam morti noi, chi ci ha più, al mondo?

– Dove vuol trovarla una ragazza così a ragione? – insistette il Biondo alzandosi e avvicinandosi anche lui per stringermi con la moglie come in una tanaglia.

Io finsi un principio di resa.

– E se la ragazza non mi volesse?

Peggio che peggio! Non concepivano nemmeno che una donna potesse rifiutar la fortuna di essere posseduta da me.

– Se questo fosse – disse il Biondo – mi sbattezzerei, quant'è vero Dio!

E la Rita scuotendo le spalle e abbandonandomi alla mia cattiveria:

– Ma lasciatelo cantare! Credete che non lo sappia che è innamorata cotta, la poverina?

Però il Biondo e la Rita sarebbero stati meno entusiasti di Ortensia quando avessero conosciuta questa lettera, che ricevevo il giorno dopo:

Carlo!

Vi ho promesso di scrivervi, ierisera, ma non vi ho detto il perchè.

Io vi voglio bene, vorrei correre da voi, dirvi: sono vostra per sempre e saremo felici!

Ma per quanto saremmo felici? Con quali dolori saremmo condannati a scontare la nostra felicità? Non di voi diffido! non di voi! Diffido di me e del destino. Non è debolezza che mi trattiene, credetemi, Carlo! È forza, è resistenza; perchè io non voglio veder soffrire per me, per causa mia!

Mi direte che saremo più infelici a non essere congiunti, a vivere separati così, poichè ci vogliamo bene; direte che io non vi amo come mi amate voi. Invece io sono orgogliosa del vostro amore e vorrei abbandonarmi a voi senza più temere, per la vita e per la morte!

Ma ora sento d'aver fatto più male io a voi che voi a me e temo di dovervene fare ancora. Temo, temo… e vi scongiuro Carlo: riflettete! non sono più quella di una volta. Che non dobbiate pentirvi! Ve ne scongiuro piangendo, ora che posso piangere!

Ah per voi due, Biondo e Rita, questa ragazza ha meno giudizio di quel che pareva? Per voi, quando una ragazza ha chi le discorre di buon animo e lei gli vuol bene, non ci dovrebbero più essere tante dubbiezze?

Ortensia non dovrebbe piangere, ma cantare a squarciagola, come ai vostri vent'anni, o Rita?

Ebbene; sentite, cari vecchi! Io vi assicuro che Ortensia diventerà mia moglie!

················

(E Roveni?)

IX

La mia gran fede, che aveva riscossa e commossa quell'anima, la riscaldava a poco a poco.

Diverse espressioni ricorsero nelle sue lettere che significavano in lei il prossimo, compiuto ritorno a sè stessa. Questa, per esempio:

Ho sognato che mi passavi una mano su la fronte e così mi toglievi ogni antico male, ogni brutto ricordo. La dolcezza del sogno m'è rimasta tutt'oggi nelle vene; mi è parso di sognare tutt'oggi e di vivere in uno splendore.

Le mie visite non erano frequenti. Essa mi imponeva lo stesso riserbo che per il passato. Perchè?

Diceva: – Voglio aver la consolazione di dire io al babbo: «Io sono più ostinata di te, ma Sivori è più ostinato di noi due insieme! Si è messo in testa di sposarmi, e bisognerà cedere!»

Quando direbbe ciò?

Oh anche in questo indugio, che sembrava un capriccio, c'era tanta delicatezza! Prima di tutto io comprendevo tacitamente il perchè voleva rivelar lei al padre il nostro segreto.

Per quanto ottimista, Claudio come resterebbe se la notizia gli venisse da me o se Eugenia gli dicesse: – Sivori domanda la mano di Ortensia? – D'un amico come me non era da dubitare gli domandassi in moglie la figliola in compenso dei quattrini che mi doveva; ma, insomma, per quei maledetti quattrini gli potrebbe essere amareggiata una gioia che Ortensia sperava piena e perfetta se lasciassi fare a lei.

Poi Ortensia non aveva torto del tutto quando esclamava:

– Abbiate pazienza, signor dottore! Volete che i miei credano che sono tornata buona solo per voi? che torno allegra, solo per voi, che non penso che a voi?.. Ho dei rimorsi – aggiungeva più piano. – Con mio padre, quando si sforzava di nascondere il suo dolore, ero sgarbata e urtante; avrei voluto vederlo soffrire come soffrivo io. E con la mamma, quando mi ribellavo alle sue parole di conforto, alla sua rassegnazione? Mi ricordo di certe sue occhiate che adesso mi sembrano quelle di una povera creatura ferita a morte, tant'ero irritata, cattiva!.. No, Carlo: è troppo presto dire a lei e al babbo che sono disposta ad abbandonarli. Lasciamo passare almeno qualche mese, che s'avvezzino un po' a questi luoghi, a questa solitudine…

– Ma credi che tua madre non ci legga in faccia il nostro segreto e non ne goda? – le dicevo io.

– Non importai Vorrei anzi che indovinasse tutto; anche la nostra riserbatezza. Così si abituerà meglio all'idea del mio abbandono.

… Io andavo alla Ca' Rossa due o tre volte la settimana.

O di giorno o di sera, erano ore di felicità.

Ivi, alla Ca' Rossa, avanzando l'estate, mi ristoravo in quella frescura spirituale che v'infondeva la novella quiete.

Ortensia m'appariva più bella nella veste umile, con il lungo grembiule attinente alla persona ardita e disinvolta; e la gola, che sorgeva bianca dal corpetto un po' scollato, e la nuca scoperta sotto l'onda dei capelli copiosi strettamente raccolti, davan cenno di forme che la salute rifiorendo renderebbe in breve tempo perfette. Più era lieta se colta in faccende di massaia o di giardiniera. Perchè già il lazzeruolo proteggeva una corona di molti vasi in cui era solo da temere l'eccesso dell'acqua che Mino v'impartiva; ed erano questioni con la sorella, che pareva averli inventati lei i garofani e i gelsomini e l'arte di coltivarli!

Dall'altro lato della casa schiamazzavano galline in un piccolo recinto, e Ortensia sperava ricavar tante ova da farne spedizione fin a Milano; ma un cocodè poco naturale rivelava spesso che Mino a ber le ova cantava con la stessa gioia che le galline a farle. Ah quel Mino! A sentir lui non gli piacevan solo le ova fresche; gli piaceva anche l'astronomia. Nell'infinito riscintillamento di una sera senza luna accennai ad Ortensia massaia che anche in cielo passeggiava una chiocciola con un drappello di pulcini; e Mino cominciò a pretendere gli dicessi i nomi di tutte le stelle: tutte!

Infatti, oltre che la Stella Polare gli insegnai a riconoscere la smeraldina Vega e il rubicondo Antares, Arturo e il Delfino, e, benchè pianeti, Marte e Giove.

Disgraziatamente gli esami di Mino pretendevano ben altro!; e durante il giorno egli faceva altro che studiar grammatica, aritmetica e storia: martellava, inchiodava, impiastricciava dei più vivi colori certi fogli che avrebbero sbigottito fin un pittore impressionista. Incarcerato nella sua camera, vi declamava per cinque minuti i verbi irregolari o la costituzione di Servio Tullio; poi governava una tribù di formiche restìe ai suoi ordini. Redarguito, rispondeva piangendo d'aver appreso a scuola che chi studia troppo, muore; e poichè il troppo è relativo all'indole e al giudizio delle persone, asseriva in coscienza che studiare due ore al giorno era per lui uno sforzo; e gliene doleva sinceramente perchè avrebbe voluto diventar ingegnere navale o ufficiale d'artiglieria.

 

Di conseguenza, a luglio fu bocciato agli esami in tutte le materie (in astronomia non l'interrogarono). Dopo di che gli pesò addosso la minaccia di essere messo in collegio se non riparasse in autunno.

Perciò avrebbe studiato in luglio e in agosto più di due ore al giorno, a costo di morire, se per distrarsi dalla pesante minaccia del collegio non avesse anche studiato la marcia reale al suono di un'ocarina di terracotta, e se non avesse dovuto perfezionarsi al tiro al bersaglio per divenire un bravo ufficiale d'artiglieria.

Mio buon Mino!

X

… L'8 settembre, giorno di festa, Ortensia mi scriveva:

Sono felice, oggi! Se tu fossi qua, Carlo, saresti felice come me a vedere che oggi io sono proprio quella d'una volta. Domandalo alla mamma se non corro e canto e non l'abbraccio così forte che essa è costretta a dirmi, come allora, cervellina! Tutto il brutto è passato; non mi ricordo più di altro che ti voglio molto bene, che vi voglio tanto bene a tutti e che… Zitto, signor dottore! Mi guardo nello specchio; vediamo la sposa… Poh!; non c'è male… Il merito sai di chi è? dell'aria e della festa. Non senti anche tu che la festa è nell'aria, oggi? Dottore, se vi vedessi sorridere da incredulo mi dispiacerebbe, perchè io alla messa ho pregato per la nostra felicità e perchè sento proprio che la mamma ha ragione; bisogna aver fede. In questi luoghi cantano le litanie in un modo malinconico; eppure quando le donne e i ragazzi hanno finito il canto, mi pareva che tutti dovessero essere felici come me.

Quando siamo tornati dalla chiesa io e Mino, il babbo ci è venuto incontro tutto allegro anche lui e mi ha domandato: – Sivori viene oggi?

Tu forse sospetti che egli cominci ad aprir gli occhi? No, no! sta sicuro! Solo non può ammettere che si stia allegri in casa senza la tua presenza. Gli ho detto che verrai domenica.

– Domenica non è oggi, – ha brontolato lui – e mi pare anche a me che questo sia vero.

Oggi avresti dovuto esser qui! Ma chi sa che prima di sera… Se giungi, dico tutto al babbo, oggi…

P. S. Invece di te è arrivata una lettera di Marcella che annunzia per sabato o domenica la sua venuta con Bebe e con… Non te lo dico con chi verrà invece di Guido; no e no!

La venuta di Marcella mi darà più forza per aprir gli occhi al babbo e per salvar Mino dal collegio.

Non voglio che restino qui soli, quest'inverno, i nostri vecchi!

E chi pensava più a Roveni?

XI

Colui il quale invece di Guido accompagnò Marcella a trovare i suoi era, manco a dirlo, il cavalier Fulgosi. Ma per che complesse vicende famigliari la gelosa signora Fulgosi se n'era andata in licenza a Varezze con il tenente Piero suo figliolo, lasciando o relegando il marito a Valdigorgo? Forse la sua fosca gelosia s'era spenta al brillare delle spalline figliali? O la gloria delle figliali imprese l'inteneriva come l'avevano inasprita un tempo quelle del marito, e lui, il cavaliere, godeva di una relativa e nuova libertà? O con quali finezze diplomatiche giustificava egli le sue scappate da Valdigorgo a Milano e meritava il permesso d'accompagnar Marcella a Bologna?

Non so e non m'importa rispondere; so che il cavaliere m'accolse alla Ca' Rossa con tutti gli antichi segni di deferenza e ammirazione. Mi avvertì subito che la scienza aspettava ansiosamente il profitto dei miei studi sulla malaria, o la pellagra, o il tifo, o il socialismo, o qualche altra malattia fisica o morale o sociale per cui mi fossi umiliato a medico condotto a Molinella.

Io intanto ammiravo lui. Con risoluzione eroica egli aveva raso dal mento e dalle ganasce la stopposa barbetta, conservando solo, per un più adeguato uso della tintura, gli esili baffi; e i capelli lasciati crescere dove ce n'erano e appiccicati a ricoprire, con economia, la lacuna nel bel mezzo del cranio, gli facevan da parrucca. Rideva ora a bocca un po' più stretta per attenuare la novità di qualche dente. E anche l'abito bigio, attillato, e il gilet bianco e il ventaglietto, che gli risparmiava troppe assidue contemplazioni di sè medesimo nello specchio del pettinino, gli conferivano un'aria di baldanza tra giovanile ed estiva.

Marcella, la florida Marcella, trovò opportunità a narrarmi che partendo da Milano il cavaliere s'era messo in mente d'apparire, agli occhi dei viaggiatori ignari, quale suo marito e padre del bimbo. In vagone egli aveva discorso in modo da evitare l'uso del lei, e fino a un certo punto c'era riuscito. Ma quando Marcella aveva udito uno dei compagni di viaggio susurrare a un altro: – Che moglie giovane ha quel vecchietto! – aveva essa rotto l'incanto dicendo, per una dimanda qualsiasi: – Scusi, cavaliere…

Egli però si era consolato ad ogni stazione con l'esporre dallo sportello il bambinone, che accarezzava paternamente senza timore di passare per nonno.

A dir vero la timida Marcella, che rideva così di gusto, si era fatta ardimentosa! Ne diede prova anche più vivace mentre io e Ortensia ci rubavamo il suo Bebe. Ortensia pareva divorarlo a baci fragorosi, ed io glielo rapii.

– Tivovi! Tivovi!

– Vuoi più bene a Sivori o alla zia? – gli chiese la madre.

Risposi io ch'egli voleva più bene a Tivovi, perchè lo baciava meno forte e non gli faceva male e lo faceva trottare su di un ginocchio.

– Già! – esclamò Ortensia fingendosi irritata meco: – io faccio del male anche quando faccio del bene? Cattivo! Oh come è cattivo Sivori!

E Marcella:

– Chi non vi conoscesse direbbe che siete cane e gatto, voi due!

Dimandò Ortensia:

– Ci conosci, tu?

– E come! Tutti e due… (si battè coll'indice in mezzo alla fronte per dire che avevamo entrambi poco giudizio). Se vi metteste d'accordo, una buona volta!

– Faremmo una pazzia sola – io dissi ridendo.

– Ma la fareste finita: sarebbe ora!

Guardai Ortensia. Ella esclamò:

– Io non voglio, farla finita! Sempre cane e gatto noi due! E il gatto sono io!

Soffiava contro al bambino e lo minacciava con le unghie.

Egli mi sfuggì, per rincorrerla.

Allora Marcella mi susurrò:

– Se il babbo non fosse cieco, o io potessi parlare…

– Zitta!

– Sì, sì: starò zitta; ma è ora di finirla! Aspettatevi un tiro birbone, Sivori!

Ed io m'aspettai il tiro birbone. Chi m'avrebbe mai detto che Marcella me ne giocherebbe non uno ma due, e uno più ardito dell'altro?

Dopo colazione, Bebe e il cavaliere – che ci promise una grande, strepitosa notizia per l'ora del desinare, entre la poire et le fromage – andarono a godersi un meritato riposo; e mentre Ortensia attendeva a faccende e Claudio e Mino conversavano fuori all'ombra con Cleto l'ortolano, Eugenia mi disse che lei e Marcella avevano una cosa da dirmi.

Marcella m'aspettava nella camera da pranzo. Su la tavola era un piccolo pacco e a quello ricorsero gli sguardi delle signore, che sorridendo l'una all'altra non mi celavano un grande imbarazzo.

– Parlo io o parli tu? – chiese Eugenia alla figliola.

– Tu, mamma. Sivori mi mette sempre un po' di soggezione.

– Poco fa non si sarebbe detto – osservai io, ridendo. E Marcella:

– Ma adesso si tratta di tutt'altra cosa!

– Che cosa mai?

Eugenia cominciò:

– La notizia, che il cavaliere ci ha promessa speriamo sia bella, ma è più bella questa che vi diamo noi ora. Grazie a Dio, Learchi s'è riconciliato con Guido.

La figliola scosse il capo:

– No, mamma; non cominci da quello che importa di più a me e a Guido.

E rivolgendosi a me:

– Anche voi dovete esservi meravigliato che Guido non facesse nulla per mio padre, quando avvenne la disgrazia. Allora tutti i rimproveri cadevano su di me. Ortensia…

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