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Ora e per sempre

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Из серии: La Locanda di Sunset Harbor #1
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Читает Manuela Farina
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ORA E PER SEMPRE

(LA LOCANDA DI SUNSET HARBOR—LIBRO 1)

S O P H I E L O V E

Sophie Love

Fan da tutta la vita dei romanzi d’amore, Sophie Love è felice di presentare la sua serie di debutto: ORA E PER SEMPRE (LA LOCANDA DI SUNSET HARBOR—LIBRO 1). Visita il suo sito internet www.sophieloveauthor.com per scrivere a Sophie, entrare a far parte della mailing list, ricevere e-book gratis ed essere sempre al corrente delle ultime novità!

Copyright © 2016 di Sophie Love. Tutti i diritti riservati. Salvo per quanto permesso dalla legge degli Stati Uniti U.S. Copyright Act del 1976, è vietato riprodurre, distribuire, diffondere e archiviare in qualsiasi database o sistema di reperimento dati questa pubblicazione in alcuna forma o con qualsiasi mezzo, senza il permesso dell’autore. Questo e-book è disponibile solo per fruizione personale. Questo e-book non può essere rivenduto né donato ad altri. Se vuole condividerlo con altre persone, è pregato di aggiungerne un’ulteriore copia per ogni beneficiario. Se intende rileggere l’e-book senza aver provveduto all’acquisto, o se l’acquisto non è stato effettuato per suo uso personale, è pregato di restituirlo e acquistare la sua copia. La ringraziamo del rispetto che dimostra nei confronti del duro lavoro dell’autore. Questa storia è opera di finzione. Nomi, personaggi, aziende, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in modo romanzesco. Ogni riferimento a persone reali, in vita o meno, è una coincidenza. Immagine di copertina Copyright kak2s, utilizzata con il permesso di Shutterstock.com.

INDICE

CAPITOLO UNO

CAPITOLO DUE

CAPITOLO TRE

CAPITOLO QUATTRO

CAPITOLO CINQUE

CAPITOLO SEI

CAPITOLO SETTE

CAPITOLO OTTO

CAPITOLO NOVE

CAPITOLO DIECI

CAPITOLO UNDICI

CAPITOLO DODICI

CAPITOLO TREDICI

CAPITOLO QUATTORDICI

CAPITOLO QUINDICI

CAPITOLO SEDICI

CAPITOLO DICIASSETTE

CAPITOLO DICIOTTO

CAPITOLO DICIANNOVE

CAPITOLO VENTI

CAPITOLO UNO

Emily fece scorrere la mani lungo la seta nera del vestito, distendendone le pieghe per quella che doveva essere la centesima volta, quella sera.

“Sembri nervosa,” disse Ben. “Hai appena toccato la cena.”

Scoccò un’occhiata al pollo che per metà aveva lasciato nel piatto, e poi risollevò lo sguardo verso Ben, che le sedeva di fronte a una tavola meravigliosamente imbandita, con il viso illuminato dalla luce della candela. Per il loro settimo anniversario, l’aveva portata nel ristorante più romantico di New York.

Ma certo che era nervosa.

Soprattutto visto che la scatolina di Tiffany che aveva trovato nascosta nel cassetto dei calzini settimane prima non c’era più quando aveva controllato quella sera. Era sicura che quella sarebbe stata la sera in cui finalmente le avrebbe chiesto di sposarlo.

Pensarci le faceva battere forte il cuore dalla trepidazione.

“È solo che non ho molta fame,” rispose.

“Oh,” disse Ben, un po’ perplesso. “Quindi non vuoi il dolce? Io ho messo gli occhi sulla mousse al caramello.”

Il dolce proprio non lo voleva, ma d’un tratto le venne il timore che forse Ben avesse nascosto l’anello nella mousse. Sarebbe stata una proposta di matrimonio stucchevole, ma a questo punto le sarebbe andata bene qualsiasi cosa. Dire che Ben aveva paura di impegnarsi era minimizzare. Gli ci erano voluti due anni di relazione per lasciarle tenere uno spazzolino nel suo appartamento – e quattro per farla trasferire da lui.

Se lei introduceva l’argomento bambini, lui diventava bianco come un lenzuolo.

“Ordina pure la mousse se vuoi,” disse. “Io ho ancora il mio bicchiere di vino.”

Ben alzò le spalle e poi chiamò il cameriere, che portò via veloce il piatto vuoto e il mezzo pollo di Emily.

Ben allungò le mani e prese quelle di Emily nelle sue.

“Ti ho detto che sei bellissima stasera?” chiese.

“Non ancora,” rispose lei, sorridendo maliziosamente.

Sorrise anche lui. “Allora, sei bellissima.”

Poi infilò una mano in tasca.

Il cuore di Emily parve fermarsi. Ecco. Stava accadendo davvero. Tutti quegli anni di angoscia, di pazienza da monaco buddista, stavano finalmente per ripagarla. Stava per provare a sua madre che era in errore, sua madre che sembrava divertirsi a dirle che non sarebbe mai riuscita a far percorrere la navata a un uomo come Ben. Per non parlare della sua migliore amica, Amy, che aveva di recente sviluppato la mania dopo un bicchiere di vino di troppo di mettersi a implorare Emily di non sprecare altro tempo con Ben perché trentacinque anni non erano assolutamente “troppi per trovare il vero amore.”

Deglutì mentre Ben tirava fuori la scatolina di Tiffany dalla tasca e la faceva scivolare sulla tavola verso di lei.

“Che cos’è?” riuscì a chiedere.

“Aprila,” rispose con un largo sorriso.

Non si era messo in ginocchio, notò Emily, ma andava bene comunque. Non le serviva una proposta tradizionale. Le serviva un anello. Qualunque anello sarebbe andato bene.

Prese la scatolina, la aprì – e poi si accigliò.

“Cosa… diavolo…?” balbettò.

La guardò sotto choc. Era una bottiglia da trenta millimetri di profumo.

Ben sorrise, come estasiato dalla sua opera.

“Non sapevo che vendessero anche profumi,” rispose Ben. “Pensavo che vendessero solo gioielleria troppo costosa. Vuoi che te lo metta?”

Improvvisamente incapace di contenere le proprie emozioni, Emily scoppiò a piangere. Tutte le sue speranze andarono in pezzi. Si sentiva un’idiota anche solo per essersi permessa di pensare che quella sera avrebbe potuto chiederle di sposarlo.

“Perché piangi?” chiese Ben, corrucciato, improvvisamente addolorato. “La gente ci guarda.”

“Avevo pensato…” balbettò Emily, sfiorando con lo sguardo la tovaglia, “con il ristorante, e visto che era il nostro anniversario…” Era incapace a tirar fuori le parole.

“Sì,” disse Ben freddamente. “È il nostro anniversario e io ti ho preso un regalo. Scusami se non è abbastanza bello, ma tu non me l’hai neanche comprato.”

“Avevo pensato che mi avresti chiesto di sposarti!” urlò alla fine Emily, buttando il tovagliolo sulla tavola.

Nella sala il mormorio si zittì quando le persone smisero di mangiare per voltarsi a fissarla. A lei non importava più.

Gli occhi di Ben si spalancarono dalla paura. Sembrava anche più spaventato di quando lei parlava della possibilità di mettere su famiglia.

“Perché ti vuoi sposare?” chiese.

Emily venne colta da un momento di chiarezza. Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. Ben non sarebbe mai cambiato. Non si sarebbe mai impegnato. Sua madre, Amy, avevano avuto entrambe ragione. Aveva sprecato anni in attesa di qualcosa che ovviamente non sarebbe accaduto, e quella minuscola bottiglietta di profumo era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

“È finita,” disse Emily, senza fiato, gli occhi improvvisamente asciutti. “È davvero finita.”

“Sei ubriaca?” gridò Ben, incredulo. “Prima vuoi sposarti, e adesso vuoi rompere?”

“Non sono ubriaca,” disse Emily. “Solo che non sono più cieca. Tutto questo – io e te – non è mai stata una cosa buona.” Si alzò, gettando il tovagliolo sulla sedia. “Me ne vado da casa tua,” disse. “Per stanotte starò da Amy, e domani verrò a prendere la mia roba.”

“Emily,” disse Ben, cercando di toccarla. “Possiamo parlarne, per favore?”

“Perché?” replicò. “Così puoi convincermi ad aspettare altri sette anni prima di comprarci una casa nostra? E altri dieci prima di avere un conto in banca in comune? Diciassette anni prima che tu possa anche solo considerare l’idea di prendere un gatto insieme?”

“Per favore,” diceva Ben sottovoce, guardando il cameriere che si avvicinava col dolce. “Stai facendo una scenata.”

Emily sapeva di fare una scenata, ma non le importava. Non avrebbe cambiato idea.

“Non c’è nient’altro di cui parlare,” disse. “È finita. Goditi la tua mousse!”

E con queste ultime parole, si precipitò fuori dal ristorante.

 

CAPITOLO DUE

Emily fissava la tastiera, desiderando che le dita si muovessero, che facessero qualcosa, qualsiasi cosa. Apparve un’altra email nella sua casella di posta, e la guardò con aria vuota. Le chiacchiere dell’ufficio attorno a lei le entravano da un orecchio e uscivano dall’altro. Non riusciva a concentrarsi. Si sentiva stordita. La nottata completamente in bianco che aveva passato sul bitorzoluto divano di Amy non migliorava di molto la situazione.

Era al lavoro da un’ora intera ma non era riuscita a fare molto altro che accendere il computer e bere una tazza di caffè. Aveva la mente del tutto consumata dai ricordi della sera precedente. Il viso di Ben continuava a tornarle in mente. Si sentiva spaventata ogni volta che riviveva quella terribile serata.

Il telefono si illuminò, guardò lo schermo e vide il nome di Ben che lampeggiava per l’ennesima volta. Chiamava, ancora. Emily non aveva risposto a una sola delle sua telefonate. Che cosa c’era da dire adesso? Aveva avuto sette anni per decidere se volesse stare con lei o meno – un tentativo dell’ultimo minuto per salvare la situazione non sarebbe servito adesso.

Squillò il telefono dell’ufficio e lei fece un balzo sulla sedia, poi lo afferrò.

“Pronto?”

“Ciao, Emily, sono Stacey del quindicesimo piano. Ho qui un appunto che dice che saresti venuta alla riunione di stamattina e volevo sapere perché non ti sei presentata.”

“CAZZO!” urlò Emily, buttando giù il telefono. Si era completamente dimenticata della riunione.

Saltò su dalla scrivania e attraversò di corsa l’ufficio fino all’ascensore. La sua agitazione sembrava divertire i colleghi, che si misero a bisbigliare come bambini scemi. Quando raggiunse l’ascensore, schiacciò il palmo della mano contro il bottone.

“Muoviti, muoviti, muoviti!”

Ci volle un’eternità, ma alla fine l’ascensore arrivò. Quando le porte si aprirono, Emily si precipitò fuori solo per scontrarsi con qualcuno che stava arrivando. Mentre indietreggiava, senza fiato, si accorse che la persona con cui si era scontrata era il suo capo, Izelda.

“Mi scusi tanto,” balbettò Emily.

Izelda la squadrò da capo a piedi. “Per cosa, esattamente? Per essermi venuta addosso o per aver saltato la riunione?”

“Tutte e due,” rispose Emily. “Ci stavo andando adesso. Mi è completamente passata di mente.”

Sentiva ogni singolo occhio dell’ufficio puntato sulla schiena. L’ultima cosa di cui aveva bisogno adesso era una dose di umiliazione pubblica, qualcosa che Izelda amava molto dispensare.

“Ce l’ha un calendario?” disse Izelda freddamente, incrociando le braccia.

“Sì.”

“E lo sa come funziona? Come ci si scrive sopra?”

Dietro di lei, Emily riusciva a sentire gli altri reprimere le risate. Il suo primo istinto fu di appassire come un fiore. Essere presa in giro davanti a un pubblico era la sua idea di incubo. Ma proprio come al ristorante la sera precedente, uno strano senso di chiarezza la assalì. Izelda non era un’autorità da ammirare per forza e ai cui capricci adattarsi. Era solo una donna amareggiata che sfogava la rabbia su chi poteva. E quei colleghi che sparlavano non avevano nessuna importanza.

Un’improvvisa ondata di consapevolezza la inondò. Ben non era l’unica cosa che non le piaceva della sua vita. Odiava anche il suo lavoro. Quella gente, quell’ufficio, Izelda. Era bloccata lì da anni, così come era rimasta bloccata con Ben. E non aveva più intenzione di sopportarlo.

“Izelda,” disse Emily, chiamando il suo capo per nome per la prima volta, “Sarò sincera. Non sono venuta alla riunione, mi è sfuggito di mente. Non è una tragedia.”

Izelda la guardò torva.

“Come si permette!” sbottò. “La farò rimanere inchiodata alla scrivania fino a mezzanotte per il prossimo mese finché non avrà imparato che significa essere sollecita!”

Con quelle parole, Izelda la sfiorò passando, spingendole la spalla, come per andarsene infuriata, con lo sguardo che diceva che la questione era chiusa.

Ma quello di Emily diceva altrimenti.

Emily la raggiunse e la afferrò per la spalla, fermandola.

Izelda si voltò e le fece una smorfia, scostando le mani di Emily come se fosse stata morsa da un serpente.

Ma Emily non cedette.

“Non avevo finito,” continuò Emily, tenendo la voce completamente calma. “La tragedia è questo posto. Sei tu. È questo stupido, insignificante, alienante lavoro.”

“Prego?” urlò Izelda, il viso rosso di rabbia.

“Mi hai sentita,” rispose Emily. “A dire il vero, credo proprio che tutti mi abbiano sentita.”

Emily guardò i colleghi, che la fissavano di rimando, sbalorditi. Nessuno si aspettava che la tranquilla e accondiscendente Emily scattasse così. Le venne in mente che Ben le aveva detto che stava facendo “una scenata” la sera precedente. Ed ecco che ne faceva un’altra. Solo che questa volta si stava divertendo.

“Puoi prendere il tuo lavoro, Izelda,” aggiunse Emily, “e ficcartelo su per il culo.”

Poteva praticamente sentirli rantolare dietro di lei.

Spintonò via Izelda per infilarsi in ascensore, poi ruotò sui talloni. Premette il pulsante del piano terra per quella che, come realizzò con assoluto sollievo, sarebbe stata l’ultima volta della sua vita, poi guardò la scena dei suoi scioccati colleghi che la fissavano mentre le porte si chiudevano e li lasciavano fuori. Sospirò profondamente, sentendosi più libera e più leggera di quanto si fosse mai sentita prima.

*

Emily corse su per le scale che portavano al suo appartamento, accorgendosi che quello non era il suo appartamento – non lo era mai stato. Aveva sempre sentito di vivere in casa di Ben, di dover essere il più piccola e il più discreta possibile. Rovistò in cerca delle chiavi, grata che Ben fosse al lavoro e di non dover averci a che fare.

Entrò e guardò la casa con occhi diversi. Niente era di suo gusto lì. Tutto sembrava aver preso un altro significato: l’orribile divano per cui lei e Ben avevano litigato al momento dell’acquisto (litigio che aveva vinto lui); lo stupido tavolino da caffè che lei voleva buttare via perché una delle gambe era più corta delle altre e traballava sempre (ma al quale Ben era legato da “ragioni sentimentali” e che quindi era rimasto); l’enorme tv che era costata decisamente troppo e che occupava troppo spazio (ma di cui Ben aveva insistito di aver bisogno per guardare lo sport perché era “l’unica cosa” che lo rilassava). Afferrò un paio di libri dallo scaffale, notando che i suoi romanzi rosa erano stati relegati nell’ombra dello scaffale più basso (Ben si preoccupava sempre che i suoi amici lo avrebbero giudicato poco intellettuale se avessero visto dei romanzi rosa sullo scaffale – lui preferiva i saggi accademici e filosofici, anche se sembrava non leggerli mai).

Stava guardando al di sopra delle fotografie sulla mensola per vedere se ci fosse qualcosa che valesse la pena prendere, quando la colpì il fatto che in ogni sua foto lei era insieme alla famiglia di Ben. Al compleanno della nipote di Ben, al matrimonio della sorella di Ben. Non c’era una sola fotografia di lei con sua mamma, l’unica persona della famiglia di Emily, e tanto meno di Ben con loro due. D’un tratto fu colpita dal fatto che era una straniera nella sua stessa vita. Aveva seguito la strada di qualcun altro per anni invece di costruirsi la sua.

Prese d’assalto l’appartamento e finì in bagno. Qui c’erano le sole cose di cui a lei importava davvero – i suoi prodotti per il bagno e i trucchi. Ma anche questi costituivano un problema per Ben. Si era sempre lamentato di quanti prodotti avesse, rammaricandosi per lo spreco di soldi.

“Sono i miei soldi che spreco!” urlò Emily al suo riflesso nello specchio buttando tutti i suoi averi in una capiente borsa.

Sapeva di avere l’aria di una pazza, a sfrecciare su e giù così per il bagno gettando bottiglie mezze vuote di shampoo nella borsa, ma non le importava. La sua vita con Ben era stata solo una bugia, e voleva uscirne il più presto possibile.

Poi corse nella camera accanto e afferrò la sua valigia da sotto il letto. La riempì velocemente con tutti i vestiti e le scarpe. Finito di raccogliere le sue cose, portò tutto fuori in strada. Poi, come gesto simbolico finale, tornò nell’appartamento e pose la sua chiave sul tavolino da caffè “sentimentale” di Ben, poi uscì, per non tornare mai più.

Fu solo lì in piedi sul cordolo del marciapiede che Emily prese coscienza di ciò che aveva fatto. Aveva perso il lavoro e la casa nello giro di poche ore. Diventare single era una cosa, ma perdere tutta la sua vita era decisamente un’altra.

Piccoli palpiti di panico cominciarono a percorrerla. Le mani le tremavano mentre tirava fuori il cellulare e componeva il numero di Amy.

“Ehi, che c’è?” chiese Amy.

“Ho fatto una cosa stupida,” rispose Emily.

“Dimmi…” la sollecitò a continuare Amy.

“Ho lasciato il lavoro.”

Sentì Amy sospirare dall’altra parte della cornetta.

“Oh, grazie a Dio,” disse la voce della sua amica. “Pensavo che mi avresti detto di essere tornata con Ben.”

“No, no, tutto il contrario. Ho fatto le valigie e ho lasciato la casa. Sto qui per la strada come una barbona.”

Amy cominciò a ridere. “Mi hai dipinto proprio una bella scena.”

“Non è divertente!” replicò Emily, più spaventata che mai. “Cosa faccio adesso? Ho lasciato il lavoro. Non riuscirò a trovare un appartamento senza un lavoro!”

“Devi ammettere che un po’ divertente lo è,” rispose Amy sogghignando. “Porta tutto qui,” aggiunse con nonchalance. “Lo sai che puoi restare da me finché non sistemi le cose.”

Ma Emily non voleva. Praticamente aveva trascorso anni della sua vita vivendo in casa di qualcun altro, costretta a sentirsi un’ospite nella sua stessa casa, come se Ben le stesse facendo un favore ad averla intorno. Non voleva più vivere così. Aveva bisogno di costruirsi la sua vita, di stare in piedi da sola.

“Apprezzo l’offerta,” disse Emily, “ma devo occuparmi di me stessa per un po’.”

“Lo capisco,” rispose Amy. “E allora che fai? Lasci la città per un po’? Ti schiarisci le idee?”

Le fece venire in mente una cosa. Il padre di Emily aveva una casa nel Maine. Ci avevano trascorso le estati quando lei era piccola, ma era rimasta vuota da quando vent’anni prima era scomparso. Era vecchia, decisamente particolare, ed era stata fantastica a un certo punto, in una specie di modo storico; era più come un contorto Bed and Breakfast di cui suo padre non sapeva che farnese, che una casa.

All’epoca aveva un’aria appena passabile, ed Emily sapeva che non sarebbe stata presa bene adesso, dopo vent’anni di abbandono; e non le avrebbe dato la stessa sensazione di vuoto – non ora che non era più una bambina. Senza pensare che non si era proprio in estate. Era febbraio!

Eppure l’idea di trascorrere qualche giorno seduta sul portico, a guardare l’oceano, in un luogo che era suo (più o meno) all’improvviso le sembrò molto romantica. Lasciare New York per il weekend sarebbe stato un buon modo per chiarirsi le idee e cercare di decidere cosa fare dopo.

“Devo andare,” disse Emily.

“Aspetta,” rispose Amy. “Prima dimmi dove vai!”

Emily fece un respiro profondo.

“Vado nel Maine.”

CAPITOLO TRE

Emily dovette prendere molte metropolitane per raggiungere il parcheggio a lungo termine a Long Island City dove si trovava la sua vecchia, abbandonata e malconcia auto. Erano passati anni da quando l’aveva guidata, perché Ben aveva sempre preso su di sé tutte le responsabilità dell’autista per esibire la sua preziosa Lexus, e mentre Emily attraversava a piedi l’enorme parcheggio pieno di ombre, trascinando la valigia dietro di sé, si chiedeva se fosse ancora in grado di guidare. Era un’altra di quelle cose che si era lasciata scivolare via nel corso della sua relazione.

Già il viaggio per arrivare lì – a quel parcheggio nei sobborghi della città – era sembrato infinito. Mentre si avvicinava alla macchina, mentre i suoi passi riecheggiavano nel parcheggio freddo, si sentiva quasi troppo stanca per andare avanti.

Stava commettendo un errore? si chiese. Sarebbe dovuta tornare indietro?

“Eccola.”

Emily si voltò e vide l’addetto al garage che sorrideva alla sua auto malconcia, sembrava con pietà. Allungò un braccio e le porse le chiavi.

 

Il pensiero di avere ancora otto ore di viaggio davanti era soverchiante, impossibile. Era già esausta, fisicamente ed emotivamente.

“Ha intenzione di prenderle?” chiese l’uomo alla fine.

Emily sbatté le palpebre, non rendendosi conto di aver avuto la testa da un’altra parte.

Se ne stava lì, in piedi, sapendo che quello era un momento decisivo, per certi versi. Sarebbe crollata, sarebbe tornata di corsa alla sua vecchia vita?

O sarebbe stata abbastanza forte da andare avanti?

Emily alla fine si riscosse dai pensieri inquietanti e si costrinse a essere forte. Almeno per adesso.

Prese le chiavi e si avviò trionfante verso la macchina, cercando di mostrare coraggio e fiducia in se stessa mentre si allontanava, ma segretamente innervosita dall’idea che l’auto non sarebbe neanche partita – e che se anche l’avesse fatto, lei non si sarebbe neanche ricordata come guidare.

Sedette nell’auto fredda, chiuse gli occhi e accese il motore. Se partiva, si disse, era un segno. Se non partiva, poteva tornare indietro.

Odiava ammetterlo con se stessa, ma segretamente sperava che non partisse.

Girò la chiave.

Partì.

*

Fu una bellissima sorpresa e un conforto per Emily vedere che, pure in modo un po’ bizzarro, conosceva ancora le basi della guida. Tutto quello che doveva fare era dare gas e guidare.

Era liberatorio guardare il mondo sfrecciarle accanto, e lentamente si riscosse dal cattivo umore. Accese perfino la radio, ricordandosene.

Con la radio che faceva chiasso, i finestrini giù, Emily stringeva il volante forte tra le mani. Nella mente si vedeva come un’affascinante sirena dei film in bianco e nero degli anni Quaranta, con il vento che le scompigliava la perfetta messa in piega. In realtà, la gelida aria di febbraio le aveva colorato il naso di rosso bacca e le aveva increspato i capelli.

Presto uscì dalla città, e più a nord andava più le strade erano costeggiate da sempreverdi. Si prese il tempo di ammirarne la bellezza mentre le superava. Quanto era stato facile farsi prendere dalla frenesia e dal trambusto della vita di città. Per quanti anni era scivolata in avanti senza fermarsi davvero ad ammirare la bellezza della natura?

Ben presto le strade si allargarono, il numero di corsie aumentò, ed eccola in autostrada. Accelerò, spingendo il suo macinino ad andare più veloce, sentendosi viva e rapita dalla velocità. Tutte quelle persone nelle loro auto che partivano per viaggi da qualche altra parte, e lei, Emily, che alla fine era una di loro. L’eccitazione le batteva dentro mentre faceva correre la macchina in avanti, aumentando la velocità fino a quanto osava.

La fiducia in se stessa si librava a mano a mano che le gomme mangiavano le strade. Quanto superò il confine di stato con il Connecticut, aveva davvero raggiunto l’obiettivo di andarsene. Il lavoro, Ben, si era finalmente liberata di tutto quel bagaglio.

Più a nord andava più faceva freddo, ed Emily alla fine dovette ammettere che era troppo freddo per tenere i finestrini aperti. Li chiuse e si strofinò le mani, desiderando di avere addosso qualcosa di più appropriato per il tempo. Aveva lasciato New York in uno scomodo completo, e in un altro momento di impulsività aveva scagliato la giacca aderente e le scarpe con tacco a spillo fuori dalla finestra. Adesso indossava solo una camicetta e le dita dei piedi nudi sembravano essersi tramutate in blocchi di ghiaccio. L’immagine della star del cinema degli anni Quaranta andò in pezzi quando guardò il suo riflesso sullo specchietto retrovisore. Era un disastro. Ma non le importava. Era libera, e quello era tutto ciò che contava.

Passarono ore, e prima che se ne rendesse conto si era lasciata alle spalle il Connecticut, che era ormai un ricordo passato, solo un luogo che aveva attraversato sulla sua strada verso un futuro migliore. Il paesaggio del Massachusetts era più aperto. Invece del fogliame verde scuro dei sempreverdi, gli alberi ora avevano cambiato le foglie estive e svettavano come scheletri allampanati su ogni lato, rivelando accenni di neve e di ghiaccio sul terreno duro ai loro piedi. Sopra Emily il cielo cominciò a cambiare colore, dall’azzurro al grigio umido, ricordandole che sarebbe stato buio quando avrebbe raggiunto il Maine.

Attraversò Worcester, molte case erano alte, rivestite di pannelli di legno e dipinte di varie tonalità pastello. Emily non poteva fare a meno di pensare alle persone che vivevano lì, di porsi domande sulle loro vite e sulle loro esperienze. Era solo a poche ore da casa ma già tutto le sembrava alieno – tutte le possibilità, tutti i diversi posti dove vivere ed essere e da visitare. Come aveva fatto a trascorrere sette anni vivendo un’unica versione della vita, continuando la vecchia e familiare routine, ripentendo la stessa giornata all’infinito, aspettando, aspettando, aspettando qualcosa di più. Per tutto quel tempo aveva aspettato che Ben crescesse in modo che lei potesse dare inizio al nuovo capitolo della sua vita. Ma per tutto quel tempo, lei stessa aveva avuto il potere di essere la forza motrice della sua storia.

Si trovò ad attraversare un ponte, seguendo la Route 290 che diventava la Route 495. Erano scomparsi gli alberi di cui meravigliarsi, rimpiazzati adesso da rocce scoscese. Lo stomaco si mise a brontolare, ricordandole che l’ora di pranzo era arrivata e passata e che lei non se ne era preoccupata. Pensò di fermarsi a un autogrill ma l’impulso di raggiungere il Maine era troppo grande. Poteva mangiare una volta arrivata là.

Passarono altre ore, e attraversò il confine per il New Hampshire. Il cielo si aprì, le strade erano ampie e numerose, le pianure si distendevano su ogni lato fin dove poteva vedere. Emily non riusciva a fare a meno di pensare solo a quanto grande fosse il mondo, a quante persone contenesse in realtà.

L’ottimismo la portò fino dopo Portsmouth, dove gli aeroplani scendevano in picchiata oltre la sua testa, con i motori che rombavano mentre si avvicinavano alla pista di atterraggio. Accelerò, superò il paese successivo dove le gelate coprivano le banchine su ogni lato dell’autostrada, poi avanti attraverso Portland, dove la strada correva a lato della ferrovia. Emily colse ogni dettaglio, sbalordita dalla grandezza del mondo.

Corse lungo il ponte che portava fuori Portland, desiderando disperatamente di fermare la macchina e godere della vista dell’oceano. Ma il cielo si stava facendo scuro e sapeva di doversi muovere se voleva raggiungere Sunset Harbor prima della mezzanotte. Erano almeno altre tre ore di viaggio da lì, e l’orologio sul cruscotto segnava già le 21. Lo stomaco protestò di nuovo, rimproverandola per aver saltato la cena, oltre che il pranzo.

Tra tutte le cose che non vedeva l’ora di fare una volta arrivata alla casa, la prima era dormire per tutta la notte. La stanchezza cominciava a farsi sentire; il divano di Amy non era stato particolarmente comodo, per non parlare del subbuglio emotivo che l’aveva tormentata tutta la notte. Ma ad aspettare Emily nella casa di Sunset Harbor c’era il bellissimo letto a baldacchino di quercia scura che si trovava nella camera matrimoniale, quello che i suoi genitori avevano condiviso in tempi più felici. Il pensiero di averlo tutto per sé la spronava ad andare avanti.

Sebbene il cielo minacciasse neve, Emily decise di uscire dall’autostrada fino a Sunset Harbor. Suo padre adorava guidare lungo la strada meno frequentata – una serie di ponti che scavalcavano la miriade di fiumi che scorrevano fin nell’oceano in quella parte del Maine.

Lasciò l’autostrada, sollevata almeno di rallentare. Le strade sembravano più pericolose, ma il panorama era stupendo. Emily fissava le stelle che occhieggiavano sull’acqua chiara e scintillante.

Restò sulla Route 1 lungo la costa, aprendo la mente alla bellezza che le offriva. Il cielo passò dal grigio al nero, e l’acqua ne rifletteva l’immagine. Le sembrava di guidare attraverso lo spazio, puntando all’infinito.

Puntando all’inizio del resto della sua vita.

*

Sfinita dal viaggio lunghissimo, sforzandosi di tenere gli occhi infiammati aperti, si riprese quando i fanali illuminarono finalmente un cartello che le diceva che stava entrando a Sunset Harbor. Il cuore le batté più veloce di sollievo e dalla trepidazione.

Oltrepassò il piccolo aeroporto e guidò sul ponte che l’avrebbe condotta a Mount Desert Island, ricordando, con una stretta di nostalgia, di quando si trovava nella macchina di famiglia mentre attraversava questo stesso ponte. Sapeva che si trovava solo a dieci miglia dalla casa, che le ci sarebbero voluti non più di venti minuti per raggiungere la destinazione. Il cuore si mise a martellare dall’agitazione. La stanchezza e la fame sembrarono sparire.

Vide il piccolo cartello di legno che le dava il benvenuto a Sunset Harbor e sorrise a se stessa. Alti alberi costeggiavano entrambi i lati della carreggiata, ed Emily si sentì confortata dal sapere che erano gli stessi che guardava da bambina quando suo padre guidava lungo questa stessa strada.

Pochi minuti dopo attraversò un ponte su cui ricordava di aver passeggiato da bambina in una bellissima sera d’autunno, con le foglie rosse che scricchiolavano sotto le scarpe. L’immagine era così vivida che riusciva anche a vedere le muffole di lana viola che indossava mentre si teneva per mano con suo padre. Non doveva aver avuto più di cinque anni all’epoca, ma il ricordo la colpì tanto chiaramente che sembrava essere stato ieri.

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