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Читать книгу: «Conferenze tenute a Firenze nel 1896», страница 18

Various
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E lo piombò sdegnosa in Acheronte.
 

(dimando io, se c'è bisogno di farsi imprestar questa roba!) e via di questo passo, il Monti non avrebbe mai fatto altro che un cibreo d'imitazioni felici, belle, armoniose, ma composto a un dipresso, come lo speziale, pigliando da tutti i barattoli, compone le ricette del medico.

L'idea madre della stessa Bassvilliana (che non è il meglio di certo di quel poema) si vuole tolta dal Klopstock. E ammettiamo pure che la Messiade sia il modello della Bassvilliana. Che cosa significa ciò? La macchina poetica, su cui adattare un soggetto particolare e contemporaneo, qual'è la morte del Bassville, un soggetto cioè, la piena realtà del quale è presente e a tutti nota, non ha la stessa importanza, che in una vasta creazione epica, com'è la Messiade, in cui deve rispecchiarsi qualche punto prominente della storia del genere umano, qualche punto vecchissimo di data, con pochi o molti fatti, la verità dei quali si perde o svanisce nel vago della tradizione e della leggenda e quindi lascia al poeta ogni libertà d'immaginare e di ricomporre.

V'ha qui uno stadio di premeditazione e di lunga gestazione organica, che non ha rapporto coll'improvvisazione, coll'estemporaneità d'una poesia d'occasione, com'è in sostanza la Bassvilliana del Monti.

D'altra parte qual è il poeta, anche fra i sommi, che nella scelta della sua macchina poetica non abbia attinto da quel fondo comune, che l'arte, la storia, gli ingegni colti e la fantasia popolare vengono tutti insieme accumulando e che in ogni tempo appresta, si direbbe, lo stampo, in cui il poeta getta le bellezze originali del proprio estro e dell'arte propria? A questa legge, benchè di tanto scemata di forza, di quanta n'ha acquistata nel tempo moderno l'individualità dell'ingegno, a questa legge s'è conformato anche il Monti.

V'ha anche al suo tempo col ravvivato studio di Dante, colla sazietà degli ideali arcadici, colla voga del preromanticismo fantastico del falso Ossian e sepolcrale del Gray e del Young un materiale poetico molto diffuso e forme molto comuni, nelle quali tutti incappano: il Bertola, Alessandro Verri, il Varano, non meno dell'Alfieri, del Monti e del Foscolo, e da qui procede in parte il meraviglioso anche delle più consuete macchine poetiche del Monti, quella sua quasi continua evocazione spiritica, quella sua folla di ombre, quel suo collocarsi fra cielo e terra, fra la morte e il misterioso al di là, quando non preferisce inforcare il vecchio Pegasèo e sparire in pieno olimpo mitologico.

Per ora gli toccherà fra poco di sparire soltanto da Roma. L'enfasi e le invettive della Bassvilliana contro gli eccessi della Rivoluzione francese non bastarono a smorzare i sospetti del Governo Pontificio. Ed ecco il Monti, il poeta di Bassville, che la notte del 3 marzo 1797 fugge nascostamente da Roma nella carrozza d'un aiutante di campo del generale Bonaparte, venutovi apportatore del trattato di Tolentino, e piomba prima a Bologna, indi a Milano in mezzo a tutto il bailamme delle repubbliche improvvisate dai Francesi.

Quando la Bassvilliana fu ideata e composta, essa rispondeva al sentimento più diffuso e comune allora in Italia. Ma gli avvenimenti successivi dal '93 al '97, l'anno in cui il Monti fuggì da Roma, lasciando interrotta la Bassvilliana, siccome interruppe sempre tutte le sue creazioni maggiori (altro segno grandemente caratteristico e dei tempi e di lui), ma gli avvenimenti successivi, dico, aveano mutata la faccia delle cose; aveano dato tutt'altro corso ai pensieri e alle speranze dei molti, che pur ripugnando agli eccessi, favorivano in cuore i principii della Rivoluzione francese; e il Monti, con quel bel senso di prudenza e di opportunità, che avea sortito da natura, e il Monti giù, a precipizio, per questa china, senza pensare un momento, se vi coglierà allori o legnate, se vi troverà in fondo un Campidoglio o una Rupe Tarpea. Ma egli nella sua testa dovea a un dipresso ragionare così: “non sono stati ben accolti nella Cispadana e nella Cisalpina tanti altri profughi di Roma? non vi sono il Gianni, il Lattanzi, stati ben più di me servili alla Curia Romana e per di più canaglie di tre cotte e tanto inferiori a me d'ingegno e di gloria? E il Cicognara, che ieri recitava in Arcadia il necrologio di Luigi XVI, non è ora Presidente del Comitato di difesa nella Cispadana? e il Salfi, che fino a ieri ha piaggiato i Borboni di Napoli, non è ora a Milano il giornalista più temuto e il portavoce del giacobinismo più puro? perchè dunque dovrebbero pigliarsela solo con me, non reo che d'aver detto in versi magnifici quello, che quasi tutti gli Italiani migliori pensavano e sentivano, allorchè composi la Bassvilliana?„

Ah, signore, era un gran furbo quel buon Monti e val proprio la pena d'esser uomo di genio per conoscere così bene il mondo, gli uomini, la vita, e ragionare a questo modo, dimenticando per di più che quei Gianni, quei Lattanzi erano suoi nemici giurati, da lui in Roma mille volte aizzati, scorbacchiati, flagellati, e che ora non avrebbero mancato di ripagarlo a misura di carbone! Ma non basta. Il Monti è anche più imbecille di così. Salta il fosso del tutto, anzi va a ruzzoloni al di là dell'altra sponda, e in un'ignobile lettera al Salfi sconfessa la Bassvilliana e nelle nuove sue cantiche: il Fanatismo, la Superstizione, il Pericolo e nell'inno per l'anniversario della decapitazione di Luigi XVI, traveste addirittura la nobile Musa della Bassvilliana in scapigliata e discinta tricoteuse de la guillotine; sfoghi sinceri forse, per quanto eccessivi, di sentimenti dovuti celare e comprimere troppo a lungo, ma che ad ogni modo sono la più brutta e dissennata pagina della vita del Monti.

Ne pagò il fio, non dubitate! E quantunque egli appartenesse in realtà alla parte più onesta, più saggia, più nobilmente liberale della Cisalpina, e forse anzi appunto per questo, non ebbe mai tregua nè mercè e più d'una volta parla in certe sue lettere disperate della tentazione di farsi saltare in aria le cervella.

La Cisalpina, già agonizzante (mentre il Bonaparte era in Egitto) per le violenze, le corruzioni, i ladronecci, le frenesie d'ogni guisa, sprofondò del tutto sotto la vittoriosa reazione Austro-Russa, ed il Monti esulò in Francia, fino a che la vittoria di Marengo non gli consentì d'intuonare lo splendido inno del ritorno e della redenzione sua e dell'Italia:

 
Bell'Italia, amate sponde,
Pur vi torno a riveder!
Trema in petto e si confonde
L'alma oppressa dal piacer.
 

Egli ricupera la patria e sè stesso e nella Mascheroniana vendica sublimemente la patria e sè stesso. “Molti, diceva, ne rimarranno scottati, ma è giunto il tempo di un'onorata vendetta e perdio me la voglio prendere, per istruzione della mia patria, lacerata da tanti birbanti.„ Sentitelo come descrive il leggiadro vivere della Cisalpina con quella potenza tremenda d'invettiva, per cui la poesia si eleva a storica e umana ad un tempo, è specchio cioè del presente e vaticinio e ammonimento solenne per altri tempi, che con quel presente avessero mai, per caso, qualche rassomiglianza:

 
Altri stolti, altri vili, altri perversi,
Tiranni molti, cittadini pochi
E i pochi o muti, o insidïati, o spersi.
Inique leggi e per crearle rochi
Sulla tribuna i gorgozzuli e in giro
La discordia co' mantici e co' fochi,
E l'orgoglio con lei, l'odio, il deliro,
L'ignoranza, l'error, mentre alla sbarra
Sta del popolo il pianto ed il sospiro.
Tal s'allaccia in senato la zimarra,
Che d'elleboro ha d'uopo e d'esorcismo;
Tal vi tuona, che il callo ha della marra;
Tal vi trama, che tutto è parossismo
Di delfica mania, vate più destro
La calunnia a filar che il sillogismo;
Vile! tal altro del rubar maestro
A Caton si pareggia e monta i rostri
Scappato al remo e al tiberin capestro.
Oh iniqui! E tutti in arroganti inchiostri
Parlar virtude e sè dir Bruto e Gracco
Genuzi essendo, Saturnini e mostri.
Colmo era insomma de' delitti il sacco;
In pianto il giusto, in gozzoviglia il ladro,
E i Bruti a desco con Ciprigna e Bacco.
 
 
Dal calzato allo scalzo le fortune
Migrar fur viste e libertà divenne
Merce di ladri e furia di tribune.
V'eran leggi; il gran patto era solenne,
Ma fu calpesto…
Vôta il popol per fame avea la vena;
E il viver suo vedea fuso e distrutto
De' suoi pieni tiranni in una cena.
Squallido, macro il buon soldato e brutto
Di polve, di sudor, di cicatrici,
Chiedea plorando di suo sangue il frutto:
Ma l'inghiottono l'arche voratrici
Di onnipossenti…
 
 
Sai come s'arrabatta esta genìa,
Che ambizïosa, obbliqua entra e penètra
E fora e s'apre ai primi onor la via.
 

Il poeta, signore, ha sfogato il suo nobile sdegno e si calma, perchè è da sperare che questa tregenda d'infamie sia finita. Sia finita? Oh sì! Quando finirà l'uomo!

E un altro entusiasmo ora trascina il Monti. Ma chi glielo inspira? Napoleone! E chi vuole accusare il Monti pei suoi poemi napoleonici, il Prometeo, il Bardo, la Spada di Federico e la Palingenesi politica, rientri in sè o si guardi attorno e dica se spesso non ha visto gente più spassionata e di più astuto cervello del Monti scalmanarsi per personaggi centomila volte minori! Fossero pure falsi miraggi gli splendori del vice-regno napoleonico, ma certo è che fra quei miraggi la nostra coscienza politica ed un partito nazionale si venivano formando. Si vorrà forse dire che ciò non apparisce nei versi del Monti? Lo dirà chi non gli ha letti, perchè mai il nome sacro d'Italia suonò più alto che nei versi e nelle prose di lui e ad ogni occasione, anche quando allo stesso dominatore francese quel nome cominciava a dar ombra. Nella prolusione alle sue lezioni universitarie di Pavia nel 1803 (prolusione, che si direbbe lo schema del futuro libro del Primato di Vincenzo Gioberti) parlò sì alto e sì libero anche contro i Francesi, che la censura non ne permise la stampa, se non mutilata e mutata.

Riunitosi nel 1815 il Congresso di Vienna, che spartì i popoli come branchi di pecore, il Monti trovò ancora accenti nobili e degni, ma poco dopo cantò per l'Imperatore d'Austria il Ritorno d'Astrea, e questa è senza dubbio, al pari della lettera al Salfi, una delle sue mancanze di carattere più ripugnanti. Non c'è scusa che tenga a tale viltà, ma non mi par giusto, ripeto, in mezzo ad un moto così grande di reazione Europea qual'è quello del '15, e mentre in Italia il regno napoleonico cadeva senza rimpianti e peggio fra vendette nefande e applausi, non di sola plebaglia prezzolata, agli alleati liberatori, non mi par giusto, dico, imprecar solo al Monti, quasi rappresentasse egli solo tanto stolta rapidità d'ingratitudine, d'obblìo e di nuove speranze.

Ben presto esso e gli altri dovettero ricredersi, e quanto al Monti in particolare, esso nel consacrare, alcuni anni dopo, al marchese Trivulzio uno de' suoi ultimi canti chiudeva così:

 
… E s'ei dimanda
Come del viver mio si volga il corso,
Di' che ad umil ruscello egli è simìle,
Su le cui rive impetuosa e dura
I fior più cari la tempesta uccise.
 

Di quel po' che avea raggranellato, durante il regno italico, avea salvato appena qualche briccica. A sentir certuni, si direbbe essersi esso, nei nove anni, che quel regno durò, tuffato sino alla gola in tutte le voluttà sardanapaliche, che aveano ammollito e corrotto i proconsoli e i marescialli napoleonici, legittimi precursori di quelli, che nei disastri francesi del 1870 si consolavano dicendo: “c'est égal! nous nous sommes bien amusés!„ In quella vece che cos'era stato il Monti in realtà? Un segretario senza segreti, un consulente non consultato, un professore senza cattedra, uno storiografo senza storia, un poeta Cesareo con un Cesare troppo affaccendato da badare a' poeti.

Contuttociò, dopo la Restaurazione, la carriera, anche letteraria, del Monti, si può considerare come finita, perchè poetò per piccole occasioni o in difesa della vecchia arte sua, come nell'elegantissimo sermone sulla Mitologia, o s'abbaruffò coi Cruscanti su quell'eterna questione della lingua, che gli Italiani, come se non avessero niente altro di meglio da fare, rinnovano quasi ad ogni età della loro storia. Ma nè a compire i poemi interrotti potea pensare, nè a tentarne di nuovi, e tutt'al più si deliziò, coll'incontentabilità del vecchio artista, d'andar sempre accarezzando e perfezionando le linee della Feroniade, il solo poema, che trascinò dalla gioventù fino ai suoi ultimi anni, senza compir mai neppur questo.

Bisogna dire però che la grande nomea del suo ingegno e la popolarità della sua gloria poetica non fossero stato punto oscurate presso i contemporanei dalle sue metamorfosi politiche, delle quali menarono tanto scalpore critici e biografi posteriori, se il romanticismo lombardo, che era la forma letteraria del liberalismo nascente e dell'opposizione alla letteratura officiale, gli profferiva di diriger esso il Conciliatore, il famoso giornale-programma dell'arte nuova nel 1818; se due giovani, caldissimi d'amor patrio, come Silvio Pellico ed il Berchet, lo stimolavano ad entrar con essi nella setta dei Carbonari; se il Leopardi ed il Manzoni cercavano la sua approvazione ed il suo appoggio; se finalmente la Polizia Austriaca l'avea in sospetto e facea sorvegliare la sua corrispondenza col conte Giulio Perticari, suo genero, anch'esso in voce d'aderente alle cospirazioni marchigiane e romagnole.

Ma ormai il povero Monti non era più che l'ombra di sè stesso. Ogni speranza, ogni dolcezza, ogni gloria si concentravano per lui nella moglie e nella figlia Costanza, sposata nel '12 al Perticari, e per le cui nozze i poeti d'Italia incomodarono tutti i vecchi Dei dell'Olimpo.

La moglie però, Teresa Pickler, bellezza giunonica, e che il Cantù chiama ironicamente fior di virtù, nelle acerbe polemiche letterarie e politiche, combattute dal Monti, non fu risparmiata, e forse non era senza torti, se è vero che non fu del tutto insensibile alle marziali eleganze degli ufficiali francesi; se è vero che fu l'eroina della prima redazione dell'Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, e che l'avarizia e l'avidità di lei furono cagione di più d'una delle debolezze politiche di Vincenzo Monti.

Comunque (e questo è l'importante) esso l'amò sempre tenerissimamente e la immortalò in quei versi soavissimi:

 
… La stella
Del viver mio s'appressa
Al suo tramonto: ma sperar ti giovi
Che tutto io non morrò: pensa che un nome
Non oscuro io ti lascio, e tal che un giorno
Fra le italiche donne
Ti fia bel vanto il dire: “io fui l'amore
Del cantor di Bassville,
Del cantor che di care itale note
Vestì l'ira d'Achille.„
 

I disseppellitori implacabili di carte vecchie, i quali al primo brano di lettera un po' calda, in cui s'imbattono, d'una donna celebre ad un uomo celebre altrettanto, s'esaltano subito d'aver messa la mano su grandi arcani d'amori proibiti (sono i piccoli carnevali dei topi d'archivio e di biblioteca) fantasticarono, fra gli strappi del Monti alla fedeltà coniugale, anche di suoi amori colla baronessa di Staël, da lui conosciuta in Italia nel 1805; ma per poco che si conosca dell'indole e delle abitudini epistolari della famosa autrice di Corinna, si vedrà che non trattasi se non di frasi e della passione consueta di quell'illustre donna di trarsi dietro aggiogati al suo carro trionfale tutti i più notevoli uomini del suo tempo e d'aver dato a tutti inspirazioni, consigli, conforti; specie di mecenatismo femmineo, civettuolo ed inconcludente, che di rado poi valica ne' suoi benefici certi confini.

Basti questo aneddoto. Il Monti e la Staël si scambiarono un giorno il dono d'un libro. Nel giorno stesso il Monti capita in visita dalla contessa Cicognara e ve lo depone, dicendo che sarebbe tornato a riprenderlo. Di lì a poco eccoti la Staël, che, dicendo lo stesso, vi depone il suo; ma tutti e due quei libri rimasero alla contessa Cicognara, e nè la Staël, nè il Monti si ricordarono mai più di ridomandarglieli.

Ben più della moglie del Monti è notevole figura di donna la sua figlia Costanza, che fu veramente il suo idolo. Era ingegnosa assai e un vero miracolo di bellezza, e con questi pregi ereditò anche il destino del padre d'essere fatta segno a molti amori di certo, ma anche ad odii feroci, perocchè alle colpe della mediocrità, che non dà ombra, s'usa misericordia, non a splendori d'ingegno e di bellezza, dai quali troppa gente si sente offuscata. Restò vedova nel 22 e fu accusata persino d'avere avvelenato il marito. Era una calunnia infame, ma fu creduta, e dovettero scolparnela solennemente i suoi amici e vendicarnela il padre ne' suoi ultimi versi.

Il Monti morì nel '28, Costanza nel '40; e di tutte queste vicende del poeta, che ne' suoi versi, nella sua vita e in quella pure della sua famiglia rispecchiò più caratteristicamente d'ogni altro le vicende del suo tempo, il Niccolini faceva, non volendo, l'epilogo in una lettera al Maffei con queste parole: “in breve tempo il Monti, la sua moglie, la sua figlia sono spariti: pochi ne parlano, e i più di questi ne dicono male. Oh vanagloria delle umane grandezze!„

UGO FOSCOLO
(1778-1827)

CONFERENZA
DI
Giuseppe Chiarini

Signore, Signori,

Fatemi grazia, cioè lasciate ch'io faccia grazia a voi, del preambolo, ed entri senz'altro in materia.

Ugo Foscolo canta nel Carme alle Grazie:

 
Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi,
Era ne' colli suoi l'ombra de' boschi
Sacri al tripudio di Diana e al coro;
Nè ancor Nettuno al reo Laomedonte
Muniva Ilio di torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto! A lei versan tesori
L'angliche navi, a lei dall'alto manda
I più vitali rai l'eterno sole;
Limpide nubi a lei Giove concede,
E selve ampie d'ulivi, e liberali
I colli di Lieo. Rosea salute
Spirano l'aure, dal felice arancio
Tutte odorate, e dai fiorenti cedri.
 

Chi scrisse questi versi era nato poeta, avea nelle vene il sangue della greca poesia. L'isola natale che così sonante gli rifioriva nel verso eraglisi trasmutata dal vero in questa splendida visione, per la lettura degli antichi poeti. Il paganesimo, che nella maggior parte degli scrittori contemporanei d'Ugo si componeva di reminiscenze di scuola e di precetti accademici, era in lui un sentimento così vivo e profondo, che egli allorchè, parlando dei suoi colli materni, diceva: “Ivi fanciullo – La Deità di Venere adorai„, diceva una cosa essenzialmente vera; tanto vera, che gli effetti di quella soverchia adorazione lo tormentarono per tutta la vita.

L'isola di Zante, dove egli non vedeva che riso azzurro di cieli, selve d'ulivi e vigneti, dove non sentiva che profumo d'aranci e di cedri, e nei boschi il tumulto e lo strepito delle caccie di Diana, quell'isola di Zante era ai tempi suoi poco più che un nido di selvaggi e di briganti.

Ugo stesso quando, mortogli nel 1788 il padre, si condusse con la madre e il rimanente della famiglia a Venezia, era (e rimase sempre) un po' selvaggio anche lui. Qualche anno innanzi, a Spalatro, dove suo padre era stato ufficiale sanitario dal 1784 in poi, avea fatto la scuola di Umanità. Dove e come proseguisse gli studi a Venezia, s'ignora; ma che quivi la giovinezza sua fosse tutta negli studi, lo mostrano i ricordi ch'egli stesso ne lasciò fra le sue carte, e i versi che compose fra i quattordici e i diciannove anni, dal 1792 al '97.

Da quei ricordi e da quei versi balza fuori, piena di ardore, la figura del greco giovinetto, assetato di gloria, smanioso di farsi conoscere, di far parlare di sè. E Venezia era campo propizio a quelle giovanili ambizioni.

Quando egli arrivò là con la madre, la famiglia era così povera, che andò ad abitare in una delle contrade più sudicie della città, e non si cibava d'altro che di pane e riso.

“La casa, o per dir meglio catapecchia, scrive Mario Pieri, ove si alluogò, era sì miserabile che nelle finestre non avea vetri, ma bensì le impannate. Quel giovane per altro (è sempre il Pieri che parla) ben lontano dal lasciarsi avvilire a quella intollerabile povertà, scherzava, potrebbesi dire, con essa, e sfidavala, e quasi se ne compiaceva, superbo del proprio talento, e consolato dalla speranza di gloria che i suoi studi gli promettevano.„

“Rossi capelli e ricciuti, ampia fronte, occhi piccoli e affossati ma scintillanti, brutte e irregolari fattezze, color pallido, fisionomia più di scimmia che d'uomo; curvo alquanto, comecchè bene aiutante della persona; andatura sollecita, parlare scilinguato ma pieno di fuoco; mettea meraviglia il vederlo aggirarsi per le vie e pei caffè, vestito di un logoro e rattoppato soprabito verde, ma pieno di ardire, vantando la sua povertà infino a chi non curavasi di saperla, e pur festeggiato da donne segnalate per nobiltà ed avvenenza e dalle maschere più graziose e da tutta la gente.„

Il Pieri scrive ciò riferendosi al 1797, nel quale anno conobbe appunto il Foscolo, ch'era già divenuto famoso, che avea già composto l'ode Bonaparte liberatore, che avea già dato al teatro la sua tragedia, Il Tieste, accolta da applausi incredibili e recitata ben dieci sere, affinchè tutti i 150.000 abitanti della laguna potessero sentirla.

Com'è che il giovine greco avea penato così poco a conquistarsi la fama?

Al gusto e al giudizio nostro tutto il fardello delle sue poesie giovanili, fino all'ode e alla tragedia inclusive, pesa ben poco; dirò di più, in quei primi versi non c'è affatto la promessa del poeta che pochi anni dopo dovea scrivere alcuni sonetti e le due odi famose. Ma certo noi giudichiamo le poesie giovanili del Foscolo con criteri molto diversi da quelli dei suoi contemporanei, e non abbiamo sotto gli occhi il poeta giovinetto che con la sua singolarità e la sua stessa povertà attirava sopra di sè l'attenzione, destava l'interesse del pubblico.

Al ritratto di lui lasciatoci dal Pieri aggiungiamo qualche pennellata presa alla tavolozza di altri scrittori contemporanei. Odoardo Samueli, che aveva sentito il Foscolo recitare un canto di Dante, scrive di lui:

 
Quand'io ti vidi rabbuffati i crini
Con rauca voce e fiammeggianti sguardi
Cantar in suon feroce i sacri ond'ardi
Del tuo padre Alighier carmi divini;
 
··············
 
Cingi, o Italia, gridai, le fulve chiome
Del non tuo figlio col natio tuo serto;
E ne scolpisci ne' tuoi fasti il nome.
 

Queste fulve chiome nei versi di un altro scrittore contemporaneo diventano ignite; e lo scrittore vede il nome del poeta con le chiome ignite galleggiare, lucente, altero, su l'addensata notte dei secoli,

 
Quasi cometa per nemboso piano.
 

Si capisce a questi indizi lo stupore che il giovane Jonio avea destato, fino dal suo primo apparire, nel pubblico veneziano. E quello stupore, che non si produce mai durevolmente senza forti qualità dell'ingegno, ci spiega il rapido sorgere della sua fama, alla quale, come dissi, le condizioni di Venezia si porgevano favorevoli.

*

Mentre l'Europa tremava sbigottita sotto il peso degli avvenimenti della rivoluzione francese, che le intimavano giunta l'ora del rinnovarsi, Venezia si divertiva. In una società come quella, in cui il principale scopo della vita era godersi la vita, inutile dire che la libertà dei costumi toccava la licenza. E in una società cosiffatta inutile dire che il regno apparteneva alle belle donne.

Fra le più belle (e bellissima possiamo giudicarla veramente, più che dagli attestati dei suoi adoratori, dal ritratto che di lei rimane, opera di una pittrice insigne) era Isabella Teotochi Marin; la quale, con poco piacere del marito, che pure pizzicava di letterato e di poeta, avea fatto della sua casa il ritrovo di tutti gli uomini più o meno illustri che dimoravano o capitavano a Venezia: notevoli fra i più noti il Cesarotti, il Bettinelli, il Pindemonte, il Bertola. Quando e come vi fosse introdotto il giovine Foscolo non saprei dire; ma è facile intendere ch'egli dovea sentirsi quasi istintivamente attirato verso quella società letterata, e che quella società letterata doveva essere molto curiosa di conoscerlo e desiderosa di attirarlo: alla padrona di casa sopra tutti, greca anche lei, dovea sorridere l'idea di prendere sotto la sua protezione ed allevare con le briciole del suo affetto il greco poeta.

Ugo dovette fare la conoscenza dell'Isabella fra il 1794 e il '96, quando essa, già divisa dal marito, stava per ottenere, o avea ottenuto il divorzio.

Vi figurate, o signore, o signori, questo brutto e ardente giovinetto di pelo rosso, ostentante con aria di superiorità il suo logoro e rattoppato soprabito verde, entrare ardito nelle aristocratiche sale, dove la greca bellezza esponevasi all'ammirazione dei suoi adoratori? E la greca bellezza accoglierlo con un sorriso pieno di grazia, che fece, io credo, balzare con violenza nuova il cuore del selvaggio isolano? A lui che fin da fanciullo adorava Venere nei materni suoi colli, dovette sembrar di vedere la Dea in persona, salvo che un po' più vestita. – E che cosa pensate voi, che avvenisse per questo incontro? – Io penso che il poeta s'innamorò senz'altro della bella signora; nè mi fa ostacolo ch'egli avesse diciassette o diciotto anni, e lei trentaquattro o trentacinque.

Amori di questo genere sono comunissimi nei poeti; ed anche nei non poeti. Nè la signora, io penso, per quanto vicina a passare a seconde nozze col nobile uomo Giuseppe Albrizzi, si adontò dell'amorosa offerta che il giovine poeta le fece del suo cuore.

Se questo ch'io penso è vero, la saggia Isabella sarebbe probabilmente la Laura cantata dal poeta nelle Rimembranze, e fors'anche la celeste Temira del romanzo autobiografico. Comunque sia di ciò, in questo amore del poeta per Laura è indubbiamente il germe primo del Jacopo Ortis.

Venezia, ho detto, si divertiva; ma, fra mezzo al tripudio dei giuochi, delle mascherate e dei balli, l'eco delle magiche parole liberté, égalité, fraternité, con le quali la Francia rivoluzionaria avea chiamato alla riscossa i popoli, e il suono delle vittoriose armi francesi, avevano anche a Venezia smosso qualche cosa. Anche in Venezia, come nelle altre parti d'Italia, era venuto sorgendo un partito democratico, e s'era formato un comitato rivoluzionario, in corrispondenza coi repubblicani di fuori. Ugo fece parte dell'uno, e forse anche dell'altro, spiegando nell'opera di agitatore politico tutto l'impeto della sua ardente giovinezza e della sua bollente natura; onde, sospettato e perseguitato dal Governo, dovè nell'aprile del 1797 abbandonare Venezia. Riparò nella Cispadana, e si arruolò cacciatore volontario in uno squadrone che si andava formando a Bologna.

Di lì a poco (12 maggio 1797) il Governo di Venezia cadde ignominiosamente abdicando. Gli successe un Governo provvisorio democratico; ed Ugo, appena avutane notizia, si affrettò a tornare. Furono, per lui, e per gli altri come lui amanti sinceri della libertà, giorni pieni d'illusioni; ma giorni soltanto. Si fecero feste e luminarie, si fecero sciocchezze e pazzie per celebrare la rigenerazione della patria; si piantò nella piazza di San Marco (6 giugno) l'albero della libertà; e intorno ad esso ballarono, cantando il canto della democrazia, vecchi, donne, fanciulli, sacerdoti, magistrati. Il Foscolo ebbe un ufficio presso il Governo provvisorio, e pubblicò la sua ode Bonaparte liberatore.

Intanto Bonaparte liberatore stava cedendo Venezia agli Austriaci.

Inutile dire lo scoppio d'indignazione dei liberali sinceri alla dolorosa notizia.

Nell'animo d'Ugo essa fece una ferita immedicabile. Quando stavano per entrare i nuovi padroni, egli capì che quella di Venezia non era più aria per lui, e scappò a Milano, dove nei primi del 1798 diresse il Monitore italiano (giornale ch'ebbe pochi mesi di vita), e vi pubblicò alcuni frammenti sullo stato d'Italia, i quali poi ricomparvero nell'Ortis.

L'anno appresso (1799), Ugo, ristampando l'ode, vi premetteva la famosa lettera dedicatoria, con la quale, invitando il conquistatore a tornare in Italia, gli diceva, fra le altre cose: “tu sei in dovere di soccorrerci, non solo perchè partecipi del sangue italiano, e la rivoluzione d'Italia è opera tua, ma per fare che i secoli tacciano di quel trattato che trafficò la mia patria, insospettì le nazioni e scemò dignità al tuo nome.„

Un giovinotto di ventun anni, povero e quasi sconosciuto fuori del veneto, che cercava un impiego dal Governo della repubblica cisalpina, parlare così al conquistatore francese, che era il fondatore di quella repubblica, che stava per toccare l'apogeo della sua fortuna e della sua gloria, fu certo ardimento non piccolo. In questo contrasto fra il bisogno che lo costringeva a importunare di domande i potenti e la fierezza della sua natura che lo induceva a rimproverar loro arditamente le loro colpe e i loro vizi, sta una parte notevole della vita e del carattere del Foscolo.

*

Io vi ho abbozzato, o signori, la giovinezza di quella vita; ora dobbiamo vedere l'uomo, e nell'uomo considerare tre persone, il soldato, il poeta, l'uomo propriamente detto.

Del soldato ci sbrigheremo brevemente; basterà ch'io vi legga il suo stato di servizio, uno stato di servizio veramente onorevole.

Lo tolgo da un rapporto del Ministro della guerra al Vice Presidente della Repubblica cisalpina, che porta la data del 30 ottobre 1802. “Dalle carte presentate, dice il rapporto, risulta che il Foscolo fu cacciatore a cavallo fino dall'anno 1797, e che ebbe un brevetto onorario di tenente dalla Giunta di difesa generale Cispadana; che combattè valorosamente a Cento, e fu ferito; che a Forte Urbano fu prigioniero; che combattè alla Trebbia e a Genova, dove per attestati, e per testimonianza del generale Massena (che lo nomina nel suo rapporto stampato), ebbe gran parte nella importante vittoria, dei due fratelli, e che fu nuovamente ferito; che fece le campagne della Romagna e della Toscana, e che ha sempre dimostrato negli stati maggiori dove ha servito per tre anni consecutivi tutto il coraggio ed i lumi che caratterizzano un uffiziale. La sua nomina di Capitano aggiunto ha origine da un ordine del generale in capo Massena, che a Genova lo impiegò a richiesta dell'aiutante generale Fantuzzi.„

Nei cinque anni dei quali parla il rapporto (1798-1802), è la parte più considerevole della vita militare del Foscolo. Dopo il 1802, egli non si trovò più a nessun fatto d'armi. Dalla primavera del 1804 ai primi di marzo del 1806 appartenne alla Divisione italiana mandata in Francia al Campo di Saint-Omer; poi tornò a Milano, dove rimase a disposizione del Ministero della guerra.

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12+
Дата выхода на Литрес:
01 ноября 2017
Объем:
410 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain