Il regno dei draghi

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Passò l’oggetto a Devin, che lo prese con cura. Scartandolo, poté vedere che era… beh, non proprio una spada. Un lungo coltello, una coltella a due mani, giaceva lì, troppo lungo per essere un vero coltello ma non abbastanza da essere una spada. Era a un solo taglio, con un’elsa che sporgeva solo da un lato, e un punto cuneiforme. Era un’arma da contadino, da tempo rimossa dagli spadoni e dalle spade d’armi dei cavalieri; ma era leggera, letale e bellissima. Devin poteva vedere a colpo d’occhio, mentre la faceva ruotare e brillare alla luce, che poteva essere molto più svelta e fatale di qualsivoglia spada vera e propria. Era un’arma invisibile, subdola e veloce; era perfetta per la corporatura leggera e la giovane età di Devin.

“Non è finito,” disse Nem, “ma so che puoi terminarlo meglio di me e l’acciaio è buono, giuro.”

Devin la fece oscillare per testarla, sentendo la lama tagliare l’aria. Voleva dirgli che era troppo, che non poteva accettarlo, ma era evidente quanto Nem desiderava che lo prendesse.

“Grazie, Nem,” disse.

“Avete finito voi due?” disse Gund. Guardò Devin. “Non posso dire di non essere dispiaciuto di vederti andare via. Sei un gran lavoratore e uno dei fabbri migliori qui dentro, ma non puoi restare se questo ci si ritorce contro. Devi andartene, figliolo. Adesso.”

Devin voleva ribattere ancora, ma sapeva che era inutile e aveva appena realizzato di non voler più stare lì. Non voleva rimanere in un luogo dove non era desiderato. Quello non era mai stato il suo sogno. Quello era stato un modo per sopravvivere. Il suo sogno era sempre stato diventare un cavaliere, e adesso …

Adesso sembrava che i suoi sogni racchiudessero cose molto più strane. Doveva capire di cosa trattavano.

Il giorno in cui la tua vita cambierà per sempre.

Poteva essere questo ciò che intendeva lo stregone?

Devin non aveva scelta. Non poteva capovolgere le cose, non poteva tornare alla ferriera per rimettere tutto nel posto in cui doveva stare.

Al contrario, uscì nella città. Nel suo destino.

E nel giorno tanto atteso che aveva davanti.

CAPITOLO SESTO

Nerra camminava da sola per i boschi, scivolando fra gli alberi e godendosi la sensazione della luce solare sul volto. Immaginava che chiunque al castello si fosse ormai accorto che era uscita di soppiatto, ma sospettava anche che non gliene sarebbe importato molto. Avrebbe solo ostacolato i preparativi delle nozze con la sua presenza.

Lì, nella natura, era a suo agio. Si attorcigliava fiori fra i capelli scuri, lasciando che si unissero alle sue trecce. Si tolse gli stivali, legandoseli insieme sulle spalle, in modo da sentire la terra sotto ai piedi. La sua figura sottile compariva e scompariva fra gli alberi, quasi eterea in un vestito dai colori autunnali. Era a maniche lunghe, ovviamente. Sua madre le aveva inculcato che non potesse essere altrimenti molto tempo addietro. La sua famiglia poteva essere a conoscenza della sua infermità, ma nessun altro lo era.

Amava stare fuori. Amava vedere le piante e riconoscerne i nomi, campanula e panace, quercia e olmo, lavanda e fungo; ma sapeva più dei loro nomi, perché ciascuna di esse aveva proprietà specifiche, cose nelle quali potevano aiutare o danni che potevano arrecare. Una parte di lei desiderava poter trascorrere tutta la sua vita là fuori, libera e in pace. Forse poteva; forse poteva persuadere suo padre a lasciarle costruire la sua casa là fuori, nella foresta, per mettere a servizio del mondo ciò che sapeva, guarendo gli ammalati e i feriti.

Nerra sorrise al pensiero, perché nonostante sapesse che era un bel sogno, suo padre non le avrebbe mai permesso di realizzarlo e, ad ogni modo… aveva accantonato quell’idea per il momento, ma non avrebbe potuto farlo per sempre. Forse neanche avrebbe vissuto abbastanza a lungo da costruirsi un qualsiasi tipo di vita. La malattia l’avrebbe uccisa, o trasformata, troppo in fretta per farlo.

Nerra staccò un frammento di corteccia di salice, che le avrebbe placato i dolori, e lo ripose nella tasca che aveva in vita.

Ne avrò forse bisogno molto presto, suppose. Quel giorno non era afflitta dal dolore ma, se non lei, poteva esserlo il bambino della Vedova Merril, giù in città. Aveva sentito che aveva la febbre e Nerra sapeva più di chiunque altro come trattare i malati.

Voglio trascorrere un giorno senza doverci pensare, rifletté Nerra fra sé e sé.

Quasi come se quel conflitto mentale si fosse somatizzato, Nerra si sentì pian piano svenire e dovette allungarsi verso uno degli alberi per trovare un supporto. Ci si aggrappò, aspettando che il capogiro passasse, sentendo il respiro ispessirsi mentre lo faceva. Poteva anche avvertire il battito nel suo braccio destro, pizzicare e pulsare, come se qualcosa le stesse lottando sotto alla pelle per liberarsi.

Si sedette a terra e, lì, nella privacy della foresta, fece ciò che non avrebbe mai azzardato nei pressi del castello: si arrotolò la manica, sperando che la frescura dell’aria della foresta le avrebbe giovato come niente aveva mai fatto.

L’intreccio di segni sul suo braccio era ormai familiare, nero e venoso, risaltava sul pallore quasi traslucido della sua pelle. Quei segni erano cresciuti ancora dall’ultima volta che li aveva guardati? Era difficile dirlo, perché Nerra evitava di guardarli se poteva e non osava mostrarli a nessun altro. Neanche i suoi fratelli e le sue sorelle sapevano tutta la verità, erano al corrente solo dei suoi svenimenti, ma non del resto della malattia. Quello era riservato a lei, ai suoi genitori, al Maestro Grey e all’unico medico a cui suo padre aveva confidato la questione.

Nerra conosceva il perché. Quelli con l’intreccio di squame venivano esiliati, o peggio, per paura che la condizione si propagasse e per paura di ciò che poteva significare. Coloro con la malattia a squame, la storia narrava, prima o poi si trasformavano in cose che erano tutt’altro che umane, e letali per coloro che restavano.

“E quindi devo stare da sola,” disse ad alta voce, ritirandosi giù la manica perché non poteva più sopportare la vista di ciò che le deturpava quel tratto di pelle.

Il pensiero di stare da sola la infastidiva altrettanto. Per quanto amasse la foresta, la solitudine era dolorosa. Persino da bambina, non aveva potuto farsi degli amici stretti, né aveva avuto la schiera di domestiche e giovani nobildonne che circondavano Lenore, perché una di loro avrebbe potuto vedere. Non aveva neanche ricevuto alcuna promessa da parte di innamorati o pretendenti; per una ragazza che era senza dubbio malata era inverosimile. Una parte di Nerra sperava di poter avere tutto ciò, immaginando una vita in cui fosse normale, stesse bene e fosse al sicuro. I suoi genitori avrebbero potuto trovarle un giovane nobiluomo che chiedesse la sua mano, come avevano fatto per Lenore. Si sarebbero creati una casa e una famiglia; Nerra avrebbe potuto avere degli amici e aiutare le persone. Invece… c’era solo questo.

Adesso ho fatto intristire persino la foresta, pensò con un altro sorriso stanco.

Si alzò e riprese a camminare, determinata a godersi almeno la preziosità della giornata. Ci sarebbe stata una battuta di caccia l’indomani, ma troppe persone avrebbero partecipato perché potesse godersi appieno l’esterno. Avrebbe dovuto ricordarsi come parlare con chi vedeva del valore nell’uccidere le creature dei boschi, come fosse una virtù, e il rumore dei corni da caccia sarebbe stato straziante.

Nerra udì qualcos’altro poi; non era un corno da caccia, ma pur sempre il suono di qualcuno molto vicino. Pensò di aver scorto qualcuno fra gli alberi, un giovanotto forse; era difficile dirlo con certezza. Si ritrovò avvolta dalle preoccupazioni allora. Quanto aveva visto?

Forse non era niente. Nerra sapeva che dovevano esserci delle persone da qualche altra parte nella foresta. Forse erano carbonai, boscaioli, o magari bracconieri. Chiunque essi fossero, se avesse continuato a procedere, era probabile che vi si sarebbe imbattuta di nuovo. Non le piaceva quell’idea, non le piaceva il rischio che vedessero più di quanto dovevano, quindi si mise in marcia in una direzione diversa, quasi a caso. Riusciva sempre a cavarsela nel bosco, perciò non aveva paura di perdersi. Continuò a vagare, avvistando adesso agrifogli e betulle, celidonie e rose selvatiche.

E qualcos’altro.

Nerra si fermò quando avvistò una radura, sulla quale sembrava essere passato qualcosa di enorme, rami rotti, terreno calpestato. Era stato un cinghiale, o magari un branco di cinghiali? C’era forse un orso da qualche parte sul territorio, abbastanza grande da rendere la caccia necessaria, dopotutto? Nerra non vedeva impronte d’orso fra gli alberi però, né qualunque altro elemento suggerisse che qualcosa aveva battuto quel sentiero a piedi.

A quel punto vide un uovo, giaceva al centro della radura, posato da una parte sull’erba.

Gelò, meravigliata.

Non può essere.

Si raccontavano storie, certo, e le gallerie del castello avevano delle versioni pietrificate, inanimate.

Ma quello… non poteva essere vero…

Si fece strada per avvicinarsi a esso e adesso poteva iniziare a fare sue le impressionanti dimensioni dell’uovo. Era enorme, abbastanza grande che le braccia di Nerra avrebbero a malapena potuto avvolgerlo se avesse provato ad abbracciarlo. Abbastanza grande che nessun uccello avrebbe potuto deporlo.

Era di un intenso blu profondo, quasi nero, con venature dorate che lo percorrevano come fasci di luce in un cielo notturno. Quando Nerra allungò una mano più esitante che mai, per toccarlo, sentì che la superficie era calda in modo strano e differente da qualsiasi altro uovo. Quello, come qualsiasi altro suo aspetto, confermò ciò che aveva trovato.

 

Un uovo di drago.

Era impossibile. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che qualcuno aveva visto un drago? Persino quelle storie tramandate dal passato riguardavano grandi bestie alate che volavano nei cieli, ma non uova. I draghi non erano mai piccole cosette indifese; erano grandi, terrificanti e intrattabili. Ma a Nerra non veniva in mente nient’altro che potesse essere.

E adesso la scelta è mia.

Sapeva di non potersene semplicemente andare adesso che aveva visto l’uovo lì, abbandonato e senza alcun segno di un nido, dove un uccello lascerebbe la sua covata. Se l’avesse fatto, era probabile che qualche predatore sarebbe prima o poi passato di lì e lo avrebbe divorato, distruggendo la creatura al suo interno. Oppure l’avrebbe trovato un umano e non aveva dubbi che sarebbe stato venduto, oppure demolito per paura. Le persone potevano essere crudeli, a volte.

Non poteva neanche portarselo a casa, però. Immaginò la scena di lei che attraversava i cancelli del castello con un uovo di drago tra le mani: suo padre glielo avrebbe sottratto in un attimo, magari per farlo studiare dal Maestro Grey. Nella migliore delle ipotesi, la creatura lì dentro si sarebbe ritrovata ingabbiata e punzecchiata; nella peggiore… Nerra sussultò al pensiero dell’uovo che veniva dissezionato dagli studenti della Casa del Sapere. Persino il Dottor Jarran l’avrebbe fatto a pezzi per esaminarlo.

Dove allora?

Nerra provò a pensare.

Conosceva la foresta bene quanto i corridoi che portavano ai suoi alloggi. Doveva esserci un posto che fosse migliore di uno spazio così aperto...

Sì, sapeva quale fosse.

Avvolse l’uovo fra le braccia, con quel calore misterioso contro al corpo mentre lo sollevava. Era pesante e, per un momento, Nerra temette che le scivolasse, ma riuscì a stringere le mani insieme e si incamminò verso i boschi.

Le ci volle un po’ per trovare il punto che stava cercando, prestando attenzione per scorgere i pioppi tremuli che segnalavano il piccolo spazio in cui si trovava la grotta antica, formata da pietre vetuste, data la borracina che le ricopriva. Si apriva su un lato di una piccola collina nel mezzo della foresta, e Nerra poteva vedere dal terreno attorno a essa che niente aveva deciso di usarla come tana. Questo era positivo; non voleva portare il suo premio in un luogo che lo avrebbe esposto a un pericolo imminente.

La radura suggeriva che i draghi non facevano nidi, ma Nerra ne creò comunque uno per il suo uovo, raccogliendo rami e ramoscelli, erba e cespugli, e poi intrecciando tutto con cura in un cerchio irregolare, sopra al quale lo adagiò. Spinse il tutto indietro, nella metà buia della grotta, sicura che nulla avrebbe potuto vederlo da fuori.

“Eccoci,” gli disse. “Sarai al sicuro adesso, almeno finché non avrò capito cosa fare con te.”

Trovò rami e fogliame, e li usò per nascondere l’entrata. Prese delle pietre e le fece rotolare sul posto, ciascuna così grande che riusciva a malapena a spostarle. Sperava che bastasse a tenere lontane tutte le cose che avrebbero potuto provare ad accedere.

Stava giusto finendo quando udì un rumore e si girò di soprassalto. Lì, fra gli alberi, c’era il ragazzo che aveva intravisto prima. Era in piedi a fissarla, come cercasse di elaborare ciò che aveva visto.

“Aspetta,” gli gridò Nerra, ma quell’urlo bastò a spaventarlo. Si voltò e iniziò a correre, lasciandola a chiedersi cosa avesse visto di preciso e a chi l’avrebbe detto.

Ebbe il brutto presentimento che fosse troppo tardi.

CAPITOLO SETTIMO

La principessa Erin sapeva che non avrebbe dovuto essere lì, a cavalcare nella foresta, diretta a Nord, verso lo Sperone. Avrebbe dovuto essere al castello, a farsi prendere le misure per il vestito da mettere alle nozze della sua sorella maggiore, ma la sola idea bastò a farla sussultare.

Le portava troppi pensieri di cosa poteva aspettarla dopo e del perché se n’era andata. Come minimo, avrebbe preferito stare lì, in sella al suo cavallo e con indosso una tunica, un farsetto e dei pantaloni alla cavallerizza, piuttosto che a farsi mascherare, mentre Rodry si prendeva gioco di lei con i suoi amici, Greave gironzolava avvilito e Vars… Erin trasalì. No, meglio stare lì fuori, fare qualcosa di utile, qualcosa che avrebbe dimostrato che era più di una figlia a cui cercare marito.

Cavalcò nella foresta, connettendosi con le piante ai lati del sentiero mentre passava, anche se quelle affascinavano più Nerra di lei. Galoppò oltre un’ampia quercia e una betulla, osservando le ombre che creavano e cercando di non pensare agli ottimi nascondigli che costituivano.

Suo padre si sarebbe forse arrabbiato con lei per essere uscita senza scorta. Le principesse dovevano essere protette, le avrebbe detto. Non vagavano tutte sole in luoghi di quel genere, dove gli alberi sembravano accerchiare il visitatore e il sentiero era poco più che accennato. Si sarebbe arrabbiato con lei anche per altro, senza dubbio. Forse pensava che non avesse sentito la conversazione con sua madre, quella che l’aveva in pratica fatta fuggire verso le stalle.

“Dobbiamo trovare marito a Erin,” aveva detto la donna.

“Marito? È più probabile che chieda qualche lezione di spada,” aveva risposto suo padre.

“Ed è questo il punto. Una ragazza non dovrebbe fare certe cose, mettersi in quel genere di pericoli. Dobbiamo trovarle marito.”

“Dopo il matrimonio,” aveva detto suo padre. “Ci saranno un sacco di nobili qui per il banchetto e la battuta di caccia. Forse riusciremo a trovare un giovane che possa essere il marito giusto per lei.”

“Potremmo dovergli offrire una dote.”

“Allora lo faremo. Oro, un ducato, ciò che meglio si adatta a mia figlia.”

Il tradimento era stato istanteo e assoluto. Erin si era diretta a grandi passi nei suoi alloggi per raccogliere le sue cose: la sua roba, i suoi vestiti e uno zaino pieno di provviste. Aveva giurato a se stessa che non ci sarebbe stato un ritorno.

“Inoltre,” disse al suo cavallo, “Sono abbastanza grande da fare ciò che voglio.”

Poteva essere la più giovane di tutti i suoi fratelli, ma aveva pur sempre sedici anni. Poteva non essere tutto ciò che voleva sua madre, troppo mascolina con i capelli scuri tagliati alle spalle dove non le avrebbero dato fastidio, mai incline a ricamare, fare riverenze o suonare l’arpa, ma restava comunque più che capace di badare a se stessa.

O almeno pensava di esserlo.

Avrebbe dovuto esserlo, se voleva unirsi ai Cavalieri dello Sperone. Il solo nome del loro ordine le faceva sussultare il cuore. Erano i guerrieri più valorosi del reame, ognuno dei loro nomi apparteneva a un eroe. Servivano suo padre, ma uscivano anche fuori al galoppo, per rimediare a torti e affrontare nemici che nessun altro avrebbe potuto sconfiggere. Erin avrebbe dato qualsiasi cosa per unirsi a loro.

Per questo stava cavalcando a nord, verso lo Sperone; ed era sempre per questo che stava facendo quella strada, attraverso aree della foresta estese e pericolose.

Galoppò, interiorizzando quel luogo. Qualsiasi altra volta, sarebbe stato bellissimo, ma, d’altra parte, qualsiasi altra volta, non sarebbe stata lì. Al contrario, si guardò attorno, con occhi guizzanti, ben consapevole delle ombre da entrambi i lati del sentiero; il modo in cui i rami la sfioravano mentre cavalcava… era un luogo dove poteva immaginare qualcuno scomparire e mai ritornare.

Nonostante ciò, era la strada che doveva percorrere se voleva raggiungere i Cavalieri dello Sperone e, soprattutto, se voleva impressionarli quando sarebbe arrivata a destinazione. Confrontata con l’obiettivo, la sua paura non aveva importanza.

“Perché non ti fermi lì?” disse una voce da un punto più avanti nella foresta.

Erin si sentì percorrere da un fugace brivido di paura a quelle parole, il fremito le corse su per la pancia. Fece fermare il suo cavallo e poi balzò giù dalla sella con un movimento fluido. Quasi come un ripensamento, tirò giù il suo bastone corto, con le mani guantate che lo tenevano senza difficoltà.

“Adesso, che cosa credi di fare con quel bastone?” disse l’uomo più in giù lungo il sentiero della foresta. Uscì, con indosso vestiti tessuti in modo grossolano e un’ascia fra le mani. Altri due uomini sbucarono dagli alberi dietro a Erin, uno con in mano un lungo coltello e l’altro con una spada d’armi che suggeriva che un tempo poteva aver combattuto per conto di un nobiluomo.

“In un villaggio da cui sono passata,” rispose Erin, “mi avevano parlato dei banditi della foresta.”

Non sembravano ritenere strano che fosse andata lì comunque. Erin poteva sentire la paura dentro di sé. Aveva fatto bene ad avventurarsi fin lì? Aveva fatto un sacco di allenamenti di combattimento, ma quello… quello era diverso.

“Pare proprio che siamo famosi, ragazzi,” gridò il leader ridendo.

Famosi era una delle parole per descriverli. Al villaggio, aveva parlato con una giovane donna che stava viaggiando con suo marito. Aveva detto che anche se davano a questi uomini tutto ciò che avevano, loro volevano ancora di più e se lo prendevano. Aveva spiegato tutto nel dettaglio a Erin, che aveva sperato di avere i modi di Lenore con le persone, o la compassione di Nerra. Erin non aveva nessuno dei due; tutto ciò che aveva era questo.

“Dicono che uccidete chi lotta,” disse Erin.

“Bene, allora,” rispose il leader. “Saprai di non doverlo fare.”

“Per quello che conta,” disse uno degli altri. “È una ragazzina.”

“Ti stai lamentando?” replicò il leader. “E le cose che fai ai ragazzini?”

Erin era lì in piedi, in attesa. La paura era ancora con lei ed era cresciuta in qualcosa di mostruoso, una cosa dalle dimensioni di un orso che minacciava di stritolarla nella sua immobilità. Non avrebbe dovuto avventurarsi fin lì. Quello non era un addestramento e non aveva mai davvero combattuto contro qualcuno finora. Era solo una giovane donna che stava per essere uccisa, o peggio…

No. Erin ci pensò, pensò alla donna del villaggio, e represse la paura, sotto alla rabbia.

“Se vuoi semplificarti la questione, ci darai tutto ciò che hai. Il cavallo, i tuoi oggetti di valore, tutto.”

“E togliti quei vestiti,” disse l’altro che aveva parlato. “Ci risparmierà il doverli cospargere di sangue.”

Erin deglutì, pensando a cosa ciò potesse implicare. “No.”

“Bene allora,” disse il leader. “Pare che dobbiamo usare le maniere forti.”

Quello con il lungo coltello le si avvicinò per primo, afferrandola e usando l’arma per squarciarle il corpo. Erin si sottrasse alla presa, ma la lama le trapassò i vestiti con la stessa facilità con cui l’avrebbe fatto con il burro. Il trionfante sguardo lascivo dell’uomo si fece in fretta scioccato, quando la lama si fermò, provocando il suono dello scontro fra metalli.

“Togliersi una cotta di maglia è un lavoro duro,” disse Erin.

Restituì il colpo, centrando l’uomo con il manico in pieno volto e facendolo arretrare barcollante. Il leader andò da lei con la sua accetta ma, con un rovescio della sua arma, lei la scaraventò da un lato. Attaccò con l’estremità, puntandola alla gola dell’uomo che farfugliò e arretrò incespicando.

“Cagna!” esclamò l’uomo del coltello.

Quindi Erin fece ruotare il bastone, estraendone l’estremità per rivelare la lunga lama sottostante che lo percorreva per quasi metà della lunghezza. La luce screziata della foresta rifletteva oscura su essa. Nello strano momento silenzioso che seguì, intervenne lei. Non aveva senso nascondere qualcosa a quel punto.

“Quando ero piccola, mia madre mi mandava a scuola di cucito, ma la donna che ci insegnava era quasi cieca e Nerra, mia sorella, era solita coprirmi mentre correvo all’esterno per sfidare i ragazzi con i bastoni. Quando mia madre l’ha scoperto, si è arrabbiata, ma mio padre disse che potevo comunque imparare adeguatamente, e lui era il re, quindi…”

“Tuo padre è il re?” chiese il leader. La paura gli attraversò il volto, seguita subito dopo da cupidigia. “Se ci prendono, ci ucciderano, ma lo avrebbero fatto comunque, e il riscatto che otteremmo per una come te…”

Forse l’avrebbero pagato. Anche se, dato quanto Erin aveva sentito di sfuggita e la somma che erano disposti a pagare per liberarsi di lei…

Il bandito le balzò di nuovo incontro, interrompendo il treno dei suoi pensieri, facendo oscillare l’ascia e spingendola poi nella sua direzione. Erin deviò il colpo con una sola mano, centrando l’uomo al gomito e poi gli diede un calcio al ginocchio mentre provava a darle una pedata, mandandolo a terra per lo squilibrio. Il suo istruttore si sarebbe forse arrabbiato quando non continuò.

 

Continua a muoverti, finiscilo in fretta, niente rischi. Erin poteva quasi sentire le parole dell’insegnante, il Maestro di Spada Wendros. Era stato lui a dirle di usare la lancia corta, un’arma che poteva compensare la sua statura bassa e farla trionfare con la sua velocità e portata. Erin si era mostrata un poco contrariata per quella scelta all’epoca, ma adesso no.

Afferrando l’arma con entrambe le mani, ruotò, usandola a scudo mentre l’uomo con la spada la raggiungeva. Sferrò colpi uno dopo l’altro e poi mirò a imprimergli addosso il suo marchio. Una lancia può tagliare bene quanto fa col colpire. Lui cercò di far deflettere il colpo, alzando la spada per incontrarlo, ed Erin fece ruotare i polsi per far ballare la lama sotto alla sua testa, la punta della lancia lo trafisse, penetrandogli il collo. Anche mentre moriva, l’uomo annaspò per tentare di colpirla ancora, ed Erin deviò la sua arma di lato, mentre se ne stava già andando.

Non fermarti. Continua a muoverti finché la battaglia non è terminata.

“Lo ha ucciso!” gridò l’uomo del coltello. “Ha ucciso Ferris!”

Balzò verso di lei con il coltello lungo, cercando ovviamente di ucciderla, non di catturarla. Si precipitò in avanti, provando ad avvicinarsi fino a dove la maggiore lunghezza dell’arma di Erin non sarebbe servita. Lei fece un passo indietro, poi si mosse persino più vicino del previsto, facendoselo roteare contro al fianco per farlo atterrare con un sibilo…

O l’avrebbe fatto se non l’avesse trascinata giù con sé.

Troppe scene, ragazza. Fai quanto devi e basta.

Era troppo tardi però, perché era a terra con l’uomo del coltello, intrappolata lì mentre lui la pugnalava, con solo la sua cotta di maglia a dividerla dalla morte. Era stata troppo sicura di sé, e adesso era in una posizione dove la maggiore forza di quell’uomo stava iniziando a farsi valere. Era sopra di lei e le premeva il coltello giù, contro la gola…

In qualche modo, Erin riuscì ad avvicinarglisi abbastanza da morderlo e quello le diede margine a sufficienza per scattare e liberarsi; non si trattava di arte o abilità, adesso, quella era pura disperazione. Il leader si era rimesso in piedi e agitava di nuovo la sua arma. Erin schivò a malapena il primo colpo sulle ginocchia, ma ne incassò un secondo nella parte media del tronco e sputò sangue mentre si tirava su.

“Hai scelto le persone sbagliate con cui fare la furba, stronzetta,” disse il leader e alzò il braccio sopra la spalla per colpirla, mirandola alla testa.

Non c’era tempo per schivarlo, né per pararlo. Tutto ciò che Erin poté fare fu accovacciarsi e spingere la sua lancia verso l’alto. Sentì lo scricchiolio della lama che gli si immergeva nella carne e restò in attesa di ricevere l’impatto dell’arma nemica nel suo stesso corpo ma, per un attimo, tutto tacque. Si azzardò ad alzare lo sguardo e lui era lì, trafitto dall’estremità della lancia, troppo impegnato a guardare giù verso l’arma per portare a termine il suo attacco.

Va bene essere fortunati, ma è stupido fare affidamento sulla fortuna, la voce del Maestro di Spada Wendros le risuonava nella testa.

L’uomo del coltello era ancora giù, e si dimenava per alzarsi.

“Pietà, ti prego,” disse.

“Pietà?” rispose lei. “Quanta pietà hai mostrato alle persone che hai rapinato, ucciso e stuprato? Quando ti imploravano, rispondevi loro ridendo? Li rincorrevi quando fuggivano? Quanta pietà avresti riservato a me?”

“Ti prego,” disse l’uomo, alzandosi. Si voltò per correre, forse sperando di seminare Erin fra gli alberi.

Stava per lasciarlo andare, ma cosa avrebbe fatto poi? Quante altre persone sarebbero morte se avesse pensato di poterla fare franca ancora? Rovesciò la lama, la sollevò e la lanciò.

Sulla lunga distanza, non avrebbe funzionato, perché la lancia era più corta di un vero giavellotto, ma nel breve spazio che li divideva sfrecciò nell’aria perfettamente, precipitando addosso al bandito e portandolo a terra. Erin lo raggiunse, gli posò un piede sulla schiena e la estrasse. La sollevò e la riabbassò, premendogliela brusca contro al collo.

“Questa è tutta la pietà che ho oggi,” disse.

Restò lì in piedi e poi si spostò al lato del sentiero, sopraffatta da una nausea improvvisa. Le era sembrato tutto così giusto e facile nella lotta, ma adesso…

Vomitò. Non aveva mai ucciso nessuno prima e adesso l’orrore e il fetore erano quasi opprimenti. Si inginocchiò lì per ciò che sembrarono ore, prima che la mente la esortasse a muoversi. La voce del Maestro di Spada Wendros sopraggiunse ancora…

Quando è fatto, è fatto. Focalizzati sull’esecuzione e non avere rimorsi.

Era più facile a dirsi che a farsi, ma Erin si costrinse ad alzarsi. Pulì la spada sui loro vestiti e poi trascinò i corpi al lato del sentiero. Quella fu la parte più dura, perché erano tutti più robusti di lei e un cadavere era più pesante di un corpo vivente. Una volta finito, aveva più sangue sui vestiti di quanto non ne avesse riportato nel combattimento, per non menzionare il punto in cui l’uomo del coltello l’aveva colpita. Ebbe lo strano pensiero improvviso che avrebbe dovuto assicurarsi che se ne occupasse una delle domestiche prima che sua madre li vedesse. Rise all’idea e, per qualche momento, non riuscì a smettere.

Battaglia di nervi. La più grande minaccia di uno spadaccino e la droga più stimolante che il mondo abbia mai conosciuto.

Erin restò lì in piedi un altro momento o due, lasciandosi scorrere nelle vene l’eccitazione della battaglia. Aveva ucciso degli uomini, e aveva fatto anche di più. Aveva dimostrato il suo valore. I Cavalieri dello Sperone avrebbero dovuto prenderla adesso.

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