Il regno dei draghi

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CAPITOLO SECONDO

Devin sognò di trovarsi in un luogo ben oltre la ferriera nella quale lavorava e persino al di là della città di Royalsport, dove lui e la sua famiglia vivevano. Sognava spesso e, nei suoi sogni, poteva andare ovunque ed essere qualsiasi cosa. Nei suoi sogni, poteva essere il cavaliere che desiderava diventare da sempre.

Quel sogno era strano, però. Per prima cosa, sapeva di essere in un sogno, mentre di solito non ne era consapevole. Significava che poteva muovervisi dentro e la visuale sembrava cambiare mentre lo viveva, permettendogli di creare paesaggi intorno a sé.

Era come se stesse volando sopra al regno. In basso, poteva vedere la terra estendersi sotto di lui: il nord e il sud, divisi dal fiume Slate; e Leveros, l’isola dei monaci, a est. Nel lontano nord, agli estremi confini del regno, e a cinque o sei giorni di distanza a cavallo, poteva vedere i vulcani che giacevano assopiti da anni. In lontananza a ovest, riusciva appena a individuare il terzo continente, quello di cui le persone parlavano a bassa voce, intimorite per le creature che lo popolavano.

Restava un sogno, ma era anche, lo sapeva, una panoramica davvero accurata del regno.

Poi, non era più al di sopra del mondo. Adesso, era in uno spazio buio e c’era qualcosa lì dentro con lui: una sagoma che occupava il territorio ed emanava un odore stantio, secco e da rettile. Un guizzo di luce gli rivelò delle squame e, in penombra, pensò di sentire un movimento frusciante, insieme a soffi come di mantice. Nel suo sogno, Devin poté sentire la paura crescere e le mani serrarsi di riflesso attorno all’elsa della spada, sollevando una lama di metallo blu notte.

Enormi occhi dorati si spalancarono nell’oscurità e vi fu un altro guizzo di luce, che mostrò un gigantesco corpo squamoso di colore scuro e di dimensioni che non aveva mai visto prima; aveva le ali increspate e la bocca spalancata con una luce all’interno. Devin impiegò un momento per realizzare che si trattava di uno sfarfallio di fiamme proveniente dalla bocca della creatura e, subito dopo, non c’era altro che fuoco ad avvolgerlo, a riempire il mondo…

Le fiamme si dissolsero e adesso era seduto in una stanza dalle pareti circolari, come si trovasse in cima a una torre. Dal pavimento al soffitto, il posto era stipato di rimasugli che dovevano essere stati raccolti da una dozzina di tempi e luoghi diversi; stampe serigrafiche coprivano le pareti, mentre sulle mensole c’erano oggetti in ottone, di cui Devin non riusciva a comprendere lo scopo.

C’era un uomo lì, seduto a gambe incrociate nell’unico angolino libero da oggetti, all’interno di un cerchio disegnato col gesso e circondato da candele. Era calvo, dall’aspetto serio e aveva gli occhi fissi su Devin. Indossava una tonaca pregiata con dei simboli ricamati e dei gioielli che incorporavano motivi mistici.

“Ci conosciamo?” chiese Devin avvicinandosi a lui.

Seguì un silenzio prolungato, così interminabile che iniziò a chiedersi se avesse persino fatto quella domanda.

“Gli astri mi hanno detto che se avessi aspettato qui, in sogno, saresti venuto,” disse infine la voce. “Colui che è destinato a essere.”

Devin comprese dunque chi fosse quell’uomo.

“Siete il Maestro Grey, lo stregone del re.”

Deglutì a quel pensiero. Dicevano che quell’uomo avesse il potere di vedere cose a cui nessun uomo sano di mente vorrebbe assistere; che avesse rivelato al re quando sarebbe morta la sua prima moglie e che tutti lo avevano deriso finché non era svenuta, spaccandosi la testa sulla pietra di uno dei ponti. Dicevano che poteva vedere nell’anima di un uomo ed estrarne tutto ciò che vi trovava.

Colui che è destinato a essere.

Cosa poteva significare?

“Siete il Maestro Grey.”

“E tu sei il bambino nato nel più improbabile dei giorni. Ho guardato e riguardato, e tu non dovresti esistere. Eppure ci sei.”

Il cuore di Devin batteva furioso al pensiero che lo stregone del re sapeva chi fosse. Perché un uomo del genere avrebbe mai dovuto interessarsi a lui?

E, in quel momento, comprese che quello era più di un semplice sogno.

Era un incontro.

“Che cosa volete da me?” chiese Devin.

“Volere?” La domanda sembrò cogliere lo stregone di sorpresa, sempre che qualcosa potesse ancora sorprenderlo. “Volevo solo vederti di persona. Vederti nel giorno in cui la tua vita cambierà per sempre.”

Devin bruciava dal desiderio di fargli mille domande ma, a quel punto, il Maestro Grey si allungò verso una delle candele attorno a lui, spegnendola con due dita affusolate mentre mormorava qualcosa in modo quasi impercettibile.

Devin voleva fare un passo avanti e comprendere cosa stesse accadendo ma, invece, avvertì una forza a lui sconosciuta trascinarlo indietro, fuori dalla torre, nell’oscurità…

***

“Devin!” urlò sua madre. “Svegliati o salterai la colazione.”

Devin imprecò mentre apriva gli occhi di scatto. La luce dell’alba stava già penetrando attraverso la finestra, nella piccola casa della sua famiglia. Significava che, se non si fosse dato una mossa, non sarebbe arrivato alla Casa delle Armi abbastanza presto e non avrebbe avuto il tempo di fare niente se non catapultarsi nel lavoro.

Rimase disteso sul letto, facendo respiri profondi e cercando di scuotere via la pesantezza e la realisticità del sogno.

Ma, per quanto ci provasse, non ci riusciva. Ce l’aveva appeso addosso, come un mantello opprimente.

“DEVIN!”

Scosse la testa.

Saltò fuori dal letto e si sbrigò a vestirsi. I suoi indumenti erano semplici, tinta unita e rattoppati in alcuni punti. Alcuni erano stati di suo padre e non gli calzavano benissimo dato che, a sedici anni, Devin era ancora molto più snello di lui; non era più robusto della media per un ragazzo della sua età, benché fosse un poco più alto. Si scansò i capelli scuri dagli occhi con le mani, che avevano la loro parte di piccoli segni da bruciatura e tagli derivanti dalla Casa delle Armi, consapevole che sarebbe stato peggio quando fosse cresciuto. Il Vecchio Gund riusciva a malapena a muovere alcune dita, quel lavoro duro gli aveva succhiato via troppo.

Devin si vestì e andò di fretta nella cucina del cottage della sua famiglia. Si sedette a tavola e mangiò dello stufato insieme a sua madre e suo padre. Fece la scarpetta con un pezzo di pane duro, conscio che, nonostante fosse roba povera, ne aveva bisogno, data la dura giornata di lavoro che lo attendeva alla Casa delle Armi. Sua madre era una donna minuta e scattante; appariva così fragile accanto a lui che sembrava potesse rompersi da un momento all’altro sotto al carico di lavoro che svolgeva ogni giorno, nonostante non accadesse mai.

Anche suo padre era più basso di lui, ma robusto, muscoloso e duro come la pietra. Le sue mani erano come martelli e i suoi avambracci erano ricoperti di tatuaggi che accennavano ad altri luoghi, dal Regno del Sud alle terre d’oltremare. C’era persino una piccola mappa lì, che esibiva entrambe le terre, ma anche l’isola di Leveros e il continente di Sarras, dall’altra parte del mare.

“Perché mi stai fissando le braccia, figliolo?” chiese suo padre brusco. Non era mai stato un uomo molto bravo a dimostrare affetto. Anche quando Devin aveva ottenuto il lavoro alla Casa e persino quando si era mostrato capace di fabbricare armi tanto bene quanto i migliori maestri, suo padre si era limitato ad annuire.

Devin nutriva un desiderio disperato di raccontargli il suo sogno, ma sapeva che avrebbe fatto meglio a evitare. Suo padre lo avrebbe denigrato, in preda alla gelosia.

“Guardavo solo un tatuaggio di cui non mi ero accorto,” rispose. Di solito, suo padre portava le maniche lunghe e Devin di rado trascorreva con lui abbastanza tempo per osservarlo. “Perché questo raffigura Sarras e Leveros? Ci siete stato quando eravate un…”

“Non sono affari tuoi!” scattò suo padre, e la sua rabbia era del tutto fuori luogo rispetto a quella semplice domanda. Si tirò giù rapido le maniche, allacciandosele ai polsi, in modo che Devin non potesse più vedere. “Ci sono delle cose che non devi chiedermi!”

“Mi dispiace,” disse Devin. C’erano dei giorni in cui a malapena sapeva cosa dirgli; giorni in cui a malapena si sentiva suo figlio. “Devo andare al lavoro.”

“Così presto? Stai andando di nuovo a fare pratica con la spada, non è vero?” chiese suo padre. “Stai ancora cercando di diventare un cavaliere.”

Sembrava adirato al riguardo e Devin proprio non riusciva a capirne il motivo.

“Sarebbe una cosa così terribile?” gli domandò con esitazione.

“Resta al tuo posto, ragazzo,” sputò fuori suo padre. “Non sei un cavaliere, ma solo un plebeo... come tutti noi.”

Devin ingoiò una risposta irosa. Mancava ancora almeno un’ora prima che dovesse andare al lavoro, ma sapeva che restare significava rischiare una discussione, come tutte quelle che avevano avuto prima.

Si alzò, senza neanche preoccuparsi di finire il suo pasto, e uscì.

La luce del sole lo accarezzò timida. Attorno a lui, gran parte della città stava ancora dormendo, silenziosa alle prime ore del mattino; anche coloro che lavoravano di notte erano tornati a casa. Significava che Devin aveva la maggior parte delle strade tutte per sé, mentre si dirigeva verso la Casa delle Armi, correndo sui ciottoli, in un esercizio rigoroso. Prima fosse arrivato lì, più tempo avrebbe avuto e, in ogni caso, aveva sentito i maestri di spada dire ai loro studenti che quel genere di allenamento era vitale, se volevano avere resistenza in combattimento. Devin non era sicuro che qualcuno di loro lo facesse, ma lui sì. Gli serviva ogni abilità avesse potuto ottenere, se voleva diventare un cavaliere.

 

Continuò a farsi strada nella città, correndo più veloce, più forte, senza smettere di tentare di scuotersi i residui del sogno. Era stato davvero un incontro?

Colui che è destinato a essere.

Cosa poteva significare?

Il giorno in cui la tua vita cambierà per sempre.

Devin si guardò intorno, come in cerca di un qualche segnale, un indizio di qualcosa che lo avrebbe cambiato in quel giorno.

Tuttavia, non notava niente di diverso nell’ordinaria routine della città.

Era stato solo uno stupido sogno? Un desiderio?

Royalsport era un luogo di ponti e vialetti, di angoli bui e odori strani. Con la bassa marea, quando il fiume tra le isole dell’arcipelago era abbastanza sommesso, le persone avrebbero attraversato gli alvei, sebbene le guardie cercassero di sorvegliare e assicurarsi che nessuna di queste finisse in aree dove non era benvenuta.

I corsi d’acqua tra le isole formavano una serie di cerchi concentrici, con le zone più ricche verso il cuore, protette da strati di fiume al di là. C’erano poi le zone dei teatri e i quartieri nobili, quelli popolati dai commercianti e le zone povere, dove era meglio tenere sott’occhio il borsellino.

Le Case spiccavano all’orizzonte, i loro edifici ceduti a istituzioni antiche, vecchie quanto il regno, anzi di più, dato che erano cimeli dei giorni in cui la storia narrava dominassero i re dei draghi, prima delle guerre che li avevano usurpati. La Casa delle Armi eruttava fumo, nonostante fosse mattino presto; mentre la Casa del Sapere presentava due guglie intrecciate, la Casa dei Commercianti era dorata fino a brillare e la Casa dei Sospiri giaceva nel cuore delle zone dei teatri. Devin continuò a procedere per le strade, evitando quelle poche altre figure che si erano alzate presto quanto lui, mentre correva verso la Casa delle Armi.

Quando vi giunse, era quasi quieta quanto il resto della città. C’era una sentinella alla porta, ma conosceva Devin di vista ed era abituata a vederlo arrivare a orari strani. La superò con un cenno del capo ed entrò. Afferrò la spada sulla quale aveva lavorato nell’ultimo periodo, massiccia e affidabile, adatta alla mano di un vero soldato. Serrò bene il palmo attorno all’elsa e la portò di sopra.

Quello spazio non puzzava, né era sporco come la ferriera. Era un luogo di legno pulito e segatura per raccogliere il sangue versato, dove armi e armature erano poste su dei supporti e uno spazio per le esercitazioni a dodici lati si trovava al centro, circondato da qualche panca, per permettere a chi attendeva l’inizio delle lezioni di sedersi. C’erano bersagli inanimati e set da taglio, tutti predisposti per consentire agli studenti nobili di fare pratica.

Devin andò alla quintana di un armiere, c’era un manichino più alto di lui su una base, dotato di mazze metalliche che fungevano da armi e libero di muoversi in risposta ai colpi dello spadaccino. L’abilità in questo era attaccare e poi spostarsi o parare, per bloccare senza lasciarsi prendere l’arma e colpire senza essere colpiti. Devin tenne la guardia alta e poi aprì le danze.

I primi colpi erano costanti, per cimentarsi nel lavoro e testare la spada che impugnava. Incassò le prime botte di risposta del manichino, poi schivò le altre, acquisendo pian piano dimestichezza con la sua arma. Iniziò ad aumentare il ritmo, aggiustando il lavoro di piedi e cambiando da una guardia all’altra a ogni colpo: lunga, breve, dente di cinghiale, e via da capo.

Da qualche parte in quel fermento, smise di pensare alle singole mosse, ai colpi, alle parate, alle prese e ai bloccaggi, che confluivano in un insieme dove l’acciaio faceva vibrare altro acciaio e la sua lama guizzava per tagliare e affondare. Si esercitò fino a sudare, con il bersaglio che adesso si muoveva a una velocità che poteva fargli male o ferirlo, se avesse calcolato male le cose anche una sola volta.

Alla fine indietreggiò, salutando l’avversario inanimato come uno spadaccino avrebbe fatto con uno vivente, prima di controllare i danni riportati dalla sua lama. Non c’erano graffi, né crepe; ed era positivo.

“Hai una buona tecnica,” disse una voce, e Devin si voltò, ritrovandosi faccia a faccia con un uomo di forse trent’anni, che indossava dei pantaloni alla cavallerizza e una maglietta stretta attorno al corpo per evitare che il tessuto si attorcigliasse qualora venisse trafitto da una lama. Aveva lunghi capelli bruni, legati indietro in trecce che non si sarebbero sfatte durante la lotta, e lineamenti aquilini che conducevano a penetranti occhi grigi. Si mosse con un’andatura un poco claudicante, come da una vecchia ferita. “Ma dovresti spostare il peso dai talloni quando ti giri; ti rende difficile aggiustarti finché non completi il movimento.”

“Voi… voi siete il Maestro di Spada Wendros,” disse Devin. La Casa aveva molti maestri di spada, ma Wendros era quello che i nobili pagavano di più per imparare, alcuni aspettavano anni per farlo.

“Io?” Si prese un attimo per ammirare il suo riflesso su un’armatura placcata. “Lo sono, infatti... Mm, fossi in te, ascolterei ciò che ti ho detto. Dicono che so tutto ciò che c’è da sapere su una spada, se questo può bastare.”

“Adesso, ascolta un altro consiglio,” aggiunse il Maestro di Spada Wendros. “Rinunciaci.”

“Che cosa?” chiese Devin, scioccato.

“Smetti di provare a diventare uno spadaccino,” disse. “Ai soldati basta sapere come mettersi in fila. Essere un guerriero è di più.” Si avvicinò. “Molto di più.”

Devin non sapeva cosa dire. Era consapevole che stava alludendo a qualcosa di più grande, qualcosa che andava oltre la sua saggezza; e non aveva idea di cosa potesse essere.

Voleva dire qualcosa, ma non riusciva a trovare le parole.

E, così, Wendros si voltò e scomparve dietro alle luci dell’alba.

Devin si ritrovò a pensare al sogno che aveva fatto; non poteva fare a meno di avvertire una qualche connessione.

Non poteva fare a meno di sentire che quello era il giorno che avrebbe cambiato tutto.

CAPITOLO TERZO

La Principessa Lenore non riusciva a credere a quanto fosse bello il castello mentre i domestici lo trasformavano in vista del suo matrimonio. Era passato da pietra grigia a rivestimenti in seta blu e tappezzerie eleganti, con promesse incastonate in catenelle e ninnoli penzolanti. Attorno a lei, una dozzina di domestiche si stava occupando di abiti e decorazioni, ronzandole intorno come uno sciame di api operaie.

Stavano facendo tutto per lei ed era davvero grata per questo, nonostante sapesse che, in quanto principessa, avrebbe dovuto aspettarselo. Lenore aveva sempre trovato straordinario che altre persone fossero pronte a fare così tanto per lei, semplicemente per chi era. Era un’amante del bello più di chiunque altro, ed eccoli lì, tutti a fare del loro meglio con la seta e il pizzo per rendere il castello fantastico…

“Sei perfetta,” disse sua madre. La Regina Aethe impartiva ordini al centro di tutto ed era splendente mentre lo faceva, con indosso un abito in velluto nero e gioielli preziosi.

“Lo credete davvero madre?” chiese Lenore.

Sua madre la guidò davanti al grande specchio che le sue domestiche avevano sistemato lì. In quel riflesso, poteva vedere quanto fossero simili, dai capelli quasi corvini alla corporatura alta e sottile. A eccezione di Greave, tutti gli altri fratelli somigliavano al padre, ma Lenore era senz’altro tutta sua madre.

Grazie agli sforzi delle domestiche, brillava fra seta e diamanti, aveva i capelli intrecciati con nastri blu e il suo vestito era ricamato d’argento. Sua madre fece qualche minima modifica e poi le dette un bacio sulla guancia.

“Sei perfetta, proprio come dovrebbe essere una principessa.”

Detto da sua madre, era in pratica il miglior complimento che potesse ricevere. Le aveva sempre detto che, in quanto sorella maggiore, il suo compito era essere la principessa di cui il reame aveva bisogno e avere un aspetto e un atteggiamento coerente con quel ruolo, in ogni momento. Lenore faceva del suo meglio, sperando che fosse abbastanza. Non sembrava bastare mai, ma cercava comunque di essere sempre all’altezza delle aspettative.

Ovvio, questo aveva anche permesso alle sue sorelle più piccole di diventare… qualcos’altro. Lenore sperava che anche Nerra ed Erin fossero lì con lei. Oh, Erin si sarebbe lamentata di doversi intrappolare in un vestito; mentre Nerra avrebbe forse dovuto abbandonare l’evento a metà per i suoi problemi di salute, ma Lenore non poteva pensare a qualcun altro che desiderava fosse lì così tanto.

Beh, una persona c’era.

“Fra quanto arriverà?” chiese a sua madre.

“Dicono che il seguito del Duca Viris sia arrivato in città questa mattina,” rispose la regina. “Suo figlio dovrebbe essere con loro.”

“Davvero?” All’improvviso, Lenore si precipitò alla finestra e fuori sul balcone, sporgendosi oltre a esso, come se ridurre quel pezzetto di distanza rispetto alla città le permettesse di vedere il suo promesso sposo mentre arrivava. Guardò fuori, oltre le isole collegate dal ponte che componevano Royalsport, ma da quell’altezza era impossibile distinguere gli individui; riusciva solo ad avvistare i cerchi d’acqua concentrici che separavano le isole e gli edifici che si ergevano al centro. Poteva vedere gli uomini che uscivano dalla caserma con la bassa marea, per dirigere il traffico fra i canali; le Case, delle Armi e dei Sospiri, del Sapere e dei Commercianti, ciascuna s’innalzava al cuore del proprio distretto. Le case della gente povera giacevano sulle isole ai confini della città, mentre quelle più grandi della popolazione benestante erano adagiate più vicino, alcune persino su piccole oasi private. Il castello svettava sopra a quel microcosmo, ovviamente, ma ciò non significava che Lenore potesse individuare l’uomo col quale si sarebbe sposata.

“Arriverà,” la rassicurò sua madre. “Tuo padre ha organizzato una battuta di caccia domani mattina, come parte dei festeggiamenti, e il duca non rischierebbe mai di perdersela.”

“Suo figlio verrà per la battuta di caccia di mio Padre e non per vedere me?” chiese Lenore. Per un attimo, si sentì nervosa come una bambina invece che una donna dalle diciotto estati. Era solo troppo facile immaginare che lui non la volesse, che non la amasse, in un matrimonio combinato come quello.

“Quando ti vedrà, si innamorerà di te,” promise sua madre. “Come potrebbe essere il contrario?”

“Non lo so, Madre… non mi conosce neanche,” disse Lenore, sentendo il nervosismo minacciarla di prendere il sopravvento.

“Presto vi conoscerete, e…” la regina si interruppe quando qualcuno bussò alla porta della stanza. “Avanti.”

Un’altra domestica entrò, questa era vestita in modo meno sgargiante delle altre; era a servizio del castello e non direttamente della principessa.

“Vostra maestà, vostra altezza,” esordì, con una riverenza. “Mi hanno mandata a dirvi che il figlio del Duca Viris, Finnal, è arrivato e vi sta aspettando nel grande atrio, se avete tempo di incontrarlo prima del banchetto.”

Ah, il banchetto. Suo padre aveva dichiarato una settimana di banchetti e oltre, con tanto di intrattenimenti, aperti a tutti.

“Se ho tempo?” disse Lenore, ma poi si ricordò come si facevano le cose a corte. Era una principessa, dopotutto. “Certo. Per favore, dì a Finnal che sarò giù fra un attimo.”

Si girò verso sua madre. “Mio Padre può permettersi di essere così generoso con il banchetto?” chiese. “Non ho… Non mi merito una settimana intera e oltre di banchetti, e ci farà dilapidare un sacco di soldi e scorte alimentari.”

“Tuo padre vuole essere generoso,” spiegò sua madre. “Dice che la caccia di domani porterà abbastanza prede da sfamare tutti.” Rise. “Mio marito si crede ancora un cacciatore leggendario.”

“Ed è un’ottima opportunità per organizzare le cose, mentre le persone sono prese dal banchetto,” ipotizzò Lenore.

“Anche,” confermò sua madre. “Beh, se ci sarà un banchetto, dobbiamo assicurarci che tu sia pronta per l’occasione, Lenore.”

Le ruotò rapida attorno per qualche altro secondo, e lei sperò di essere abbastanza bella.

“Allora, scendiamo a vedere il tuo futuro marito?”

Lenore annuì, incapace di placare l’eccitazione che le stava in pratica esplodendo in petto. Camminò con sua madre e la sua schiera di domestiche, giù per le scale del castello, diretta verso l’atrio che dava sulla grande sala da pranzo.

 

Il castello brulicava di persone, tutte indaffarate con i preparativi del matrimonio, molte stavano anch’esse procedendo verso la grande sala. Il castello era un luogo di angoli tortuosi e stanze che si aprivano l’una nell’altra; l’intera struttura a spirale, molto simile alla disposizione della città, era finalizzata a ostacolare gli invasori, che avrebbero dovuto affrontare livelli su livelli di difese. I suoi predecessori l’avevano però reso qualcosa di migliore di una roccaforte in pietra grigia, e ogni stanza era stata dipinta con colori così luminosi che sembravano inglobare il mondo esterno. Beh, forse non il mondo della città, gran parte del quale fin troppo triste e composto da pioggia, fango, fumo e vapori irrespirabili.

Lenore si fece strada giù attraverso una galleria da passeggio, che aveva dipinti dei suoi predecessori affissi lungo una parete, ognuno più d’impatto e raffinato del precedente. Da lì, scese su una scala a chiocciola che conduceva, mediante una serie di stanze dei ricevimenti, all’atrio che precedeva la grande sala. Si fermò insieme a sua madre fuori dalla porta, in attesa che le domestiche la aprissero per annunciarle.

“La principessa Lenore del Regno del Nord e sua madre, la regina Aethe.”

Entrarono, e lui era lì.

Era… perfetto. Non c’era altra parola per descriverlo quando si girò a guardare Lenore, dedicandole l’inchino più elegante che avesse visto da tempo. I corti capelli scuri formavano dei ricci meravigliosi, i suoi tratti erano fini, quasi impeccabili, e aveva una corporatura snella e atletica allo stesso tempo, racchiusa in un panciotto abbottonabile con spacco di colore rosso e delle brache grigie. Sembrava forse di un anno o due più grande di lei, ma era eccitante più che spaventoso.

“Vostra maestà,” esordì guardando la madre di Lenore. “Principessa Lenore. Sono Finnal di Casa Viris. Posso soltanto dirvi che non vedevo l’ora di arrivare a questo momento. Siete ancora più graziose di quanto avessi immaginato.”

Lenore avvampò, e non era solita farlo. Sua madre le aveva sempre detto che non stava bene. Quando Finnal le porse una mano, la prese con quanta più grazia possibile, sentendo la forza che racchiudeva e immaginando come sarebbe stato se le avesse usate entrambe per tirarla a sé e baciarla, o anche qualcosa di più…

“Dopo di voi, non credo di essere io quella graziosa,” disse lei.

“Se brillo, è solo grazie alla luce che emanate,” rispose. Così bello, riusciva anche a fare complimenti tanto poetici?

“Quasi non riesco a credere che, fra appena una settimana, saremo sposati,” affermò Lenore.

“Credo sia perché non siamo stati noi ad aver negoziato il matrimonio per mesi,” replicò Finnal, rivolgendole un sorriso splendente. “Ma sono felice che i nostri genitori l’abbiano fatto.” Si guardò intorno nella stanza, verso la madre di lei e le domestiche al suo seguito. “È quasi un peccato che non possa avervi tutta per me, Principessa, ma forse è anche un bene. Temo che potrei smarrirmi nei vostri occhi e poi vostro padre si arrabbierebbe con me per essermi perso gran parte del suo banchetto.”

“Riuscite sempre a fare complimenti così carini?” chiese Lenore.

“Solo quando sono meritati,” rispose.

Quasi si sentì travolgere dal pensiero di lui mentre gli era in piedi accanto, davanti alla porta che dall’atrio conduceva alla grande sala. Quando i domestici la aprirono, poté vedere il banchetto in pieno svolgimento; udì la musica dei menestrelli e vide gli acrobati dedicarsi all’intrattenimento più in là nella sala, dove sedeva la gente comune.

“Dovremmo entrare,” disse sua madre. “Tuo padre desidera senza dubbio mostrare la sua approvazione a questo matrimonio, e sono certa che voglia vedere quanto sei felice. Lo sei, Lenore?”

Guardò il suo promesso sposo negli occhi e poté solo annuire.

“Sì,” rispose.

“Ed io farò il possibile affinché restiate tale,” disse Finnal. Le prese la mano e se la portò alle labbra; e il calore di quel contatto la pervase. Si ritrovò a immaginare tutti gli altri posti che avrebbe potuto baciare e lui sorrise di nuovo, come consapevole dell’effetto che stava avendo su di lei. “Presto, mio amore.”

Suo amore? Lo amava davvero, dopo così poco che lo conosceva? Poteva amarlo quando c’era stato solo quel fugace momento di contatto? Lenore sapeva che era assurdo pensare che fosse possibile, era qualcosa che si leggeva nelle poesie, ma in quel momento ne era convinta. Oh, se lo era.

Sorridendo, avanzò in perfetta armonia con Finnal, consapevole che insieme dovevano sembrare qualcosa di leggendario a chi guardava, muovendosi come una cosa sola, uniti insieme. Presto lo sarebbero stati davvero, e quella prospettiva le bastava mentre si univano al banchetto.

Niente, pensò, avrebbe potuto rovinare quel momento.

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