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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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Ordinò che si raccogliessero e riordinassero le forze; spedì Simonetta con alcune guide ad esplorare i dintorni della città, e lasciata una buona retroguardia a San Fermo, marciò a notte fatta giù per la tortuosa via di Borgo Vico, e ormai accertato dagli esploratori che l'austriaco aveva abbandonato Como vi entrò risolutamente.

Non può descriversi la festosa sorpresa della città; una piena di popolo trasognato accorse ebbro, frenetico; Garibaldi baciato, benedetto, toccato come un santo, è portato in trionfo fino al palazzo del Comune. Ma nella gioia di una intera città egli non smarrì un solo istante la mente; e tosto diede opera a custodire le sue spalle, mandando Medici, infaticabile quanto lui, a vegliare sulla strada di Camerlata, dove ancora s'accalcava minaccioso il nemico.

L'alba dell'indomani però chiariva che l'ultimo austriaco era scomparso da Camerlata e che ormai tutta la colonna dell'Urban s'era riconcentrata tra Barlesina e Monza sulla via di Milano.

L'Elia, che dopo il 1849 aveva dovuto emigrare, si trovava a New York quando i giornali diedero la notizia che Vittorio Emanuele aveva sguainata la spada per l'indipendenza italiana.

Non perdette tempo – col primo Pacchetto in partenza il "Devonshire" s'imbarcava per Londra e presa la via di Calais per la Svizzera raggiungeva Garibaldi a Como il 28 maggio e subito si presentava al generale sotto gli auspici del padre, già amico suo fin da quando era in America. All'udire che colui che gli stava davanti era il figlio del fucilato Antonio Elia, volle baciarlo e tenendogli stretta la mano, con accento commosso gli disse parole di affetto paterno e volle che stesse al quartier generale. Da quell'ora l'Elia seguì sempre Garibaldi con venerazione filiale.

Garibaldi non era uomo da stare ozioso; affidò a Camozzi, Commissario Regio per Bergamo, l'organizzazione militare; lasciò la compagnia del Fanti a proteggere Como, a reclutar volontari, a raccogliere armi, inviò con lo stesso ufficio la compagnia del Ferrari a Lecco; lodati come meritavano i suoi bravi cacciatori delle Alpi, e concessa loro per riposarsi tutta la giornata del 28, la mattina del 29, senza svelare ad alcuno il suo disegno, fece battere l'assemblea, e si pose in marcia, col resto della brigata, di molto assottigliata dai morti, dai feriti, dagli infermi e dai distaccati, per Olgiate e Varese.

Dove si andava? a che mirava il generale? a qualcuno dello stato maggiore che lo interrogò "Andiamo, risponde, a incontrare i nostri cannoni a Varese". Infatti il ministro della guerra aveva deciso d'inviare ai cacciatori delle Alpi quattro obici di montagna: ma i cannoni erano un pretesto, o tutto al più uno scopo secondario, altro era l'intendimento di Garibaldi.

Egli non aveva mai deposto il pensiero di assicurarsi una base sul Lago Maggiore; voleva quindi impadronirsi di Laveno che ne era uno dei punti dominanti. Marciava per ciò a quello scopo, fidando nella rapidità e segretezza delle sue mosse.

Passata la notte del 30 a Varese, mosse all'alba dell'indomani per la gran strada di Laveno; giunto a Germonio, sostò per studiare il piano e raccogliere notizie dopo di che decise di tentare di notte la sorpresa del forte: e si inoltrò con la brigata fino a Citiglio, lasciò dietro di sè a Brenta il secondo Reggimento, ed a Germonio sulla strada di Varese il terzo, mandò segretamente Bixio e il Simonetta nell'altra sponda del Lago, perchè vi raccogliessero barche ed armati, con cui tentare un abbordaggio contro qualcuno dei vapori Austriaci ancorati a Laveno; e ciò disposto voltò a sinistra per Mombello e andò a collocarsi a due chilometri dal forte di Laveno, diramando tosto i suoi ordini per attaccarlo.

Gli ordini erano buoni; i soli possibili; e se a frustrarli non avesse cospirato quel nemico fatale in tutte le imprese notturne, il buio, causa di confusione, d'equivoci, di terrori, il colpo sarebbe riuscito. Il capitano Bronzetti che doveva con la sua compagnia cogliere di sorpresa il Castello dal lato settentrionale, venne abbandonato dalle guide, perdette la via e non arrivò al posto. Il capitano Landi, che doveva con un'altra compagnia sorprendere il Castello dal lato meridionale, incontrò una strada coperta, gremita di nemici, dove credeva trovare un orto indifeso; scoperto, prima del tempo dalle vedette, combattè per più di un'ora valorosamente, lasciando sul terreno non pochi de' suoi, sino a che feriti i suoi luogotenenti Gastaldi e Sprovieri e ferito egli stesso fu costretto a ripiegare ed a ritirarsi, conducendo seco i feriti. Il forte desto dall'allarme, diede fuoco a tutte le sue batterie, tempestò di palle il terreno circostante, comunicò l'allarme ai Vapori, che, accortisi delle barche condotte dal Bixio e dal Simonetta, le presero a bordate mettendo ben presto lo spavento nella ciurma inesperta, che si sgominava, e nonostante le preghiere, le minacce degli intrepidi condottieri voltavano precipitosamente le prue.

Potevano essere le due dopo mezzanotte, e Garibaldi visto fallito il tentativo, ordinava la ritirata su Cittiglio, colà si ricongiungeva in buon ordine ai corpi che aveva lasciato a Brenta ed a Gemonio, con intendimento di ritornare a Varese.

Però la mattina del 31 maggio si ebbero non liete novelle. Il generale Urban marciava minaccioso e ringagliardito su Varese; sicchè Garibaldi dovette prudentemente mutar pensiero, e risalire la via di Valcuvia, dove poteva, protetto dai monti, attendere gli eventi.

Ma era difatti la giornata del 31 al tramonto, che Urban compariva con due colonne da Tradate e da Gallarate sulle alture di Giubiano e di San Pedrino dominanti Varese, e vi si accampava militarmente. Conduceva dodicimila uomini e diciotto pezzi d'artiglieria; sbuffava fuoco e fiamme, annunziava alla città ribelle strage e rovina, la multava dell'enorme tributo di tre milioni, oltre grande quantità di provvisioni, prendeva ostaggi numerosi, li minacciava ad ogni istante di morte, e non vedendo subito soddisfatte le sue insensate pretese, apriva contro di essa un furibondo bombardamento abbandonandola poi per più ore al saccheggio.

Intanto che Varese subiva l'infernale flagello, Garibaldi scendeva da Valcuvia fino in faccia di Santa Maria del Monte; e di là nella mattina del 1o giugno, giù fino a Sant'Ambrogio e Robarello, discosti un'ora da Varese, sfidando il nemico.

Più bella occasione pel generale austriaco di vendicarsi di quel brigante di Garibaldi non gli si poteva dare. Aveva giurato che lo avrebbe impiccato con tutti i suoi: ed ora che lo teneva quasi nelle unghie, appena ad un tiro di cannone, in una posizione quasi disperata, e presso a schiacciarlo di un sol colpo con forze quadruplicate, perchè non lo assaliva? Perchè se ne stette immobile dietro Varese, occupato soltanto a bombardare una città inerme, non rispondendo alla sfida temeraria dell'eroe?

Il perchè è un mistero! Il fatto si è che l'Urban lasciò passare tutta quella giornata senza fare un passo, senza tentare nemmeno una ricognizione a fondo, e, soltanto, la sera si decise ad occupare la posizione di Biumo superiore temendo di essere attaccato. Intanto più grossi avvenimenti erano accaduti sul maggior teatro della guerra.

Fra il 27 e 28 maggio l'esercito alleato iniziava quel gran movimento di fianco dal Po al Ticino, che fu la più abile manovra strategica della campagna.

Il 29 maggio l'esercito Sardo, meno la quinta divisione rimasta a difesa della riva destra del Po, si concentrava sopra Vercelli per passare la Sesia sui ponti che vi erano stati gettati. Il 30 la divisione Cialdini passò per la prima. Il nemico occupava tutti i villaggi sparsi in faccia alla Sesia e dominava il paese; a Palestro poi aveva concentrati i più grandi mezzi di resistenza. Vi aveva piantato batterie per dominare il fiume e per battere d'infilata la strada. Aveva inoltre coronate le cime delle alture di forti parapetti per tenere al coperto la fanteria, e scavati dei fossi nei lati, pure protetti di parapetti, dietro ai quali stavano numerose truppe, mentre molti cacciatori tirolesi erano appostati dietro gli alberi e nelle case da dove fulminavano gli assalitori.

Vittorio Emanuele dirigeva in persona le operazioni militari. Il 6o e 7o bersaglieri formavano l'avanguardia con una sezione d'artiglieria ed uno squadrone di cavalleggeri d'Alessandria; il generale Cialdini marciava alla testa.

Al terzo ponte che taglia la strada, gli esploratori incontrarono gli avamposti austriaci; accolti da fitte scariche di fucile e di mitraglia i nostri non si arrestarono, si cacciarono risolutamente di corsa, invadendo il ponte e vi si stabilirono, mentre il 17o bersaglieri guidato dal suo comandante Chiabrera si precipitò con slancio irresistibile sulla difesa di destra, snidò i cacciatori nemici imboscati nei declivi, e la quarta divisione con rapidità fulminea, con foga irresistibile metteva in fuga il nemico e s'impadroniva di Palestro. La terza divisione rafforzata dai reggimenti 5o cavalleria e Piemonte Reale, traversata la Sesia marciava sopra Vinzaglio, fortemente occupato dal nemico. La divisione piombò in colonne serrate sul villaggio; non vi furono ostacoli validi ad arrestarla; i battaglioni divoravano lo spazio e fatta una scarica si avventavano sul nemico colla punta della baionetta – questo non resistè all'urto terribile e, come a Palestro, abbandonò il villaggio e si ritirò su Confienza.

L'imperatore dei francesi, prevedendo che l'esercito italiano avrebbe dovuto sostenere aspre battaglie, staccava dal 5o corpo il 3o reggimento Zuavi, ed ordinava al colonnello Chabron di mettersi a disposizione di Vittorio Emanuele. Il Re, sicuro che gli austriaci avrebbero fatto tutti gli sforzi per riprendere l'importante posizione di Palestro, ordinava al colonnello dei Zuavi di dirigersi su quella posizione.

Verso le dieci del 31 maggio gli austriaci sboccando per le strade di Robbio e di Rozano diedero di cozzo negli avamposti piemontesi che li accolse con fuoco ben nutrito. Ma erano tre le colonne d'attacco che si avanzavano in grandi masse compatte, ed obbligavano i nostri a ripiegare sul villaggio.

 

Il 20o reggimento che trovavasi a sinistra della strada di Robbio fu pure obbligato a ritirarsi sull'alture ma non rallentò il fuoco; il nemico però ingrossando sempre, minacciava di schiacciare le poche e intrepide nostre truppe; accorse in quel frangente il prode colonnello Brignone conducendo con se alcuni battaglioni, ed i Piemontesi prendendo l'offensiva, si lanciarono contro il nemico e lo respinsero al di là delle linee degli avamposti.

Il generale Cialdini accorso, si avvide che le manovre del nemico tendevano ad aggirare la sinistra della sua posizione; vi mandò tosto alcuni battaglioni che raccolse con una sezione d'artiglieria comandata dal bravo capitano Ponzio-Vaglia, mentre il 7o bersaglieri si slanciò addosso al nemico, minacciante il ponte gettato sulla Sesia e fa occupare vigorosamente gli approcci di Palestro affine d'impedire al nemico la marcia sul villaggio; la lotta si fa accanita, le grosse colonne austriache comandate dal feld Maresciallo Zobel, sorrette da numerose compagnie di tirolesi e dall'artiglieria, si avanzarono risolutamente contro le truppe piemontesi che tennero fermo, incuorate dalla presenza di Vittorio Emanuele; coprendosi di gloria. Proprio nel più caldo del combattimento il colonnello Chabron lanciò i suoi Zuavi all'attacco: questi, come un uragano, sotto gli occhi del Re di Piemonte si gettarono sopra agli austriaci; nessun ostacolo, nessuna resistenza li arresta; invadono le difese nemiche si gettano sopra ai cannoni: gli artiglieri austriaci non hanno tempo di caricare i pezzi perchè le terribili baionette ne fanno strage; riescono vani i tentativi della fanteria che accorse per salvarli e i cinque cannoni furono preda dei vincitori; non si arresta il reggimento, si slancia sulla strada e, seguendo Vittorio Emanuele che con la spada li invita all'attacco, si avventa contro le masse austriache impegnate in furiosa lotta coi piemontesi, e così i soldati delle due nazioni si frammischiarono nel combattimento e nella gloria, investendo il nemico alla baionetta. Questo fortemente trincerato sul ponte della Brida, fortificatosi in una grande masseria, munita di cannoni e di feritoie, preclude il passaggio del ponte; ma zuavi e piemontesi non si sgomentano, nè si arrestano; animati dalla presenza del re e dall'esempio degli ufficiali, s'avventano sul ponte, sui cannoni, che sono presi dai piemontesi; nella masseria è una lotta terribile, corpo a corpo, e gran numero di nemici trovano la morte nel fiume che li travolge nei gorghi delle sue acque.

La vittoria dei nostri fu completa, oltre ventimila erano gli austriaci combattenti, numerosissimi furono quelli rimasti sul campo, circa cinquecento trovarono la morte nel fiume, gli austriaci perderono fra morti feriti e prigionieri oltre seimila uomini; i nostri circa duemila uomini fra morti e feriti. Trofeo della vittoria furono, oltre mille prigionieri, cinque cannoni presi dai zuavi e tre dai piemontesi. La campagna s'iniziava splendidamente!

I Zuavi per rendere omaggio al valore del Re, vollero portare al suo quartier generale la sera stessa del 31 i cannoni tolti al nemico.

Il Re grato del delicato pensiero di quei valorosi, scrisse al colonnello Chabron la seguente lettera:

Torrione, 1 giugno 1859

Sig. Colonnello,

"L'Imperatore nel porre sotto ai miei ordini il 3o reggimento degli Zuavi mi ha dato un prezioso attestato di amicizia. Io ho creduto di non poter meglio accogliere questa truppa scelta, che fornendole immediatamente l'occasione di aggiungere un nuovo glorioso fatto a quelli che sui campi di battaglia d'Africa e di Crimea hanno reso così terribile al nemico il nome degli Zuavi. Lo slancio irresistibile con cui il vostro reggimento, sig. Colonnello, ha mosso ieri all'assalto, ha meritato tutta la mia ammirazione. Avventarsi contro il nemico alla baionetta, impadronirsi di una batteria, sfidando la mitraglia, è stato l'affare di pochi istanti. Voi dovete essere altero di comandare a siffatti soldati, ed essi debbono essere felici di obbedire ad un capo quale voi siete. Io apprezzo altamente il pensiero che hanno avuto i vostri Zuavi di condurre al mio quartier generale i pezzi d'artiglieria presi agli austriaci, e vi prego di ringraziarli in mio nome. Io mi affretterò d'inviare questo bel trofeo a S. M. l'Imperatore, al quale ho già fatto conoscere la bravura impareggiabile con cui il vostro reggimento si è battuto ieri a Palestro ed ha sostenuto la mia estrema destra.

"Vogliate, sig. Colonnello, far noti questi miei sentimenti ai vostri Zuavi".

L'Imperatore Napoleone, desideroso di mostrare la sua ammirazione pel cavalleresco alleato e di soddisfare il voto dei Zuavi, decise che il Re di Sardegna sarebbe pregato di volere accettare i cannoni. E così fu infatti.

Ma un altro regalo di non minor gradimento pel Re doveva venirgli dai bravi Zuavi.

L'indomani mattina, quando Vittorio Emanuele si recava a visitare i suoi valorosi camerati della vigilia, ed a consegnare al Colonnello Chabron il decreto col quale decorava colla medaglia d'oro la bandiera del suo reggimento, il più anziano dei Zuavi gli partecipava che il reggimento lo aveva acclamato suo Caporale e lo pregava di accettare. "Ben volentieri amici miei" rispose il Re commosso di quel segno di simpatia "d'ora innanzi io appartengo a voi".

Così Vittorio Emanuele fu nominato Caporale dei Zuavi, come altra volta Napoleone Bonaparte era inalzato allo stesso grado a Montenotte.

In seguito a questi avvenimenti il generalissimo austriaco, sicuro che ormai l'aspettava una grossa battaglia sul Ticino, aveva pensato a rafforzarsi, e s'era affrettato a richiamare la divisione Urban da Varese, dandole per obiettivo Turbigo.

Mentre avvenivano questi fatti, gli austriaci in grandi masse, comandati dall'Arciduca Carlo, dalle alture di Montebello dimostravano, coi loro movimenti del 19 maggio proseguiti il 20, essere loro intenzione di stringere in un cerchio di ferro e di fuoco la 1a divisione dell'esercito francese, comandata dal generale Forey, prima che fosse riunita ed in ordine di battaglia; bisognava ad ogni costo arrestare il movimento girante delle grandi masse nemiche.

Il generale Forey vi si preparò arditamente, ordinando al colonnello Cambriels di riunire quanti più uomini può della sua divisione in marcia, e con questo piccolo numero di valorosi, elettrizzati dall'ardente coraggio del generale e del loro colonnello, con audacia senza pari si slanciò contro il nemico tre volte superiore di numero, lo arrestò e gli tenne testa. Ma la lotta ineguale non può durare a lungo, molti dei bravi cadono colpiti a morte fra i quali il maggiore Lecretelle che combatteva da eroe alla testa del suo battaglione; bisognava difendere passo-passo il terreno per impedire al nemico di avanzare e dare tempo al resto della divisione di arrivare sulla linea del combattimento; ma il nemico con forze preponderanti pressa, si avanza, e la resistenza ulteriore diviene ormai impossibile; quando per grande fortuna in quel critico momento un reggimento di cavalleria piemontese (Monferrato) comandato dal valoroso generale De Sonnaz si slanciò vigorosamente all'attacco in soccorso dei fratelli d'armi di Francia e con ripetute cariche irresistibili, si gettò contro le masse austriache che ne furono sgominate e costrette a sbandarsi e a cedere terreno.

Intanto giunsero al generale Forey i desiderati rinforzi del resto della sua divisione.

Il combattimento si fece sempre più accanito da ogni parte; il generale Forey ordinò al brigadiere Beuret un supremo attacco alla baionetta; gli austriaci non resistendo all'urto sono obbligati a cedere terreno; si arrestano, però, al Cimitero di Montebello del quale fanno la loro estrema base di difesa. Bisognava sloggiare il nemico da quell'ultimo formidabile riparo; ancora uno sforzo: e, gridando ai suoi bravi soldati:

" – Allens, mes enfants, arrachons a l'ennemi son dernier abrì! Suivez votre generale". – Il valoroso Forey si slanciò alla testa dei suoi contro la posizione nemica. Il Cimitero fu investito con slancio furioso ed il terreno venne seminato di morti e feriti – primo a cadere mortalmente colpito fu il generale di brigata Beuret; ma niente arrestò la foga degli assalitori che, scavalcato il muro del Cimitero investirono il nemico colla punta della baionetta menandone strage.

Alle ore sei e mezzo il nemico era in rotta precipitosa verso Casteggio, inseguito alle reni per buon tratto di via. La vittoria di Montebello, nella quale la 1a divisione comandata dal prode generale Forey si copriva di gloria, inaugurava brillantemente la campagna che doveva procedere di vittoria in vittoria.

In questo combattimento anche le brave truppe piemontesi comandate dal valoroso De Sonnaz ebbero la loro parte di gloria.

Il 4 di giugno a Magenta e a Ponte Vecchio si decideva delle sorti di quella memoranda giornata.

Avanti e dentro Magenta il combattimento fu accanito oltre ogni credere. Gli austriaci vi avevano concentrate tutte le truppe del loro centro lasciando la sola brigata Rammindz in riserva. Le truppe degli alleati fecero sforzi i più eroici per sloggiarli; i loro soldati caddero sotto il fuoco violento dei ripetuti contrattacchi. Nel momento il più caldo e decisivo il generale d'artiglieria Auger ebbe un'ispirazione felice; seguendo il movimento dell'estrema destra riuscì a piantare, un dopo l'altro, 42 pezzi d'artiglieria sull'argine della ferrovia ed il loro fuoco a mitraglia fece orribili vuoti nelle file nemiche, e portò lo sgomento nelle brigate del 1o 2o 7o e 3o corpo che combattevano unite: i francesi e due battaglioni di bersaglieri italiani si slanciarono con impeto irresistibile contro il nemico che non resse all'urto tremendo, si ruppe e si dette alla fuga. Alle 8 di sera le truppe francesi entrarono a Magenta. Gli austriaci vi perdettero due bandiere, quattro cannoni e circa quindicimila uomini fra morti, feriti e prigionieri.

La vittoria di Magenta ebbe per immediata conseguenza non solo la sollevazione di Milano e di tutta la Lombardia, ma pur quella dei Ducati e delle legazioni pontificie.

Il giorno 8 di giugno, dopo un accanito combattimento di tre ore i francesi sloggiarono gli austriaci, comandati dal Principe di Sassonia ed occuparono Melegnano.

Il giorno 10 gli austriaci sgombrando Lodi batterono in piena ritirata sulla sinistra dell'Oglio.

Il giorno 16 occupate forti posizioni dietro il Chiese attesero di piè fermo gli alleati. Lonato e Castiglione furono i due punti salienti sui quali la linea spiegò la sua azione.

L'imperatore Napoleone e Vittorio Emanuele conosciuta la ritirata dei nemici nell'interno del quadrilatero ordinavano il passaggio del Chiese e l'occupazione delle ultime colline che tra questo fiume e il Mincio rannodano la grande catena delle Alpi alla pianura Lombarda.

Il giorno 23 al Maresciallo Mac-Mahon venne ordinato di fare ricognizioni generali tra il fronte dell'esercito e il Mincio.

Intanto all'imperatore Francesco Giuseppe giunsero grandi rinforzi: cambia, perciò, tattica e risolve di prendere l'offensiva. Divise le sue forze in due grossi corpi di armata, il 23 passava il Mincio sopra 11 ponti gettati fra Peschiera e Goito, spingendo avanti forti ricognizioni, onde conoscere al giusto le posizioni degli alleati.

Dalla situazione dei belligeranti è provato che gli austriaci portavano in campo nell'imminente battaglia 150 mila fanti, 13 mila cavalli e 688 pezzi di cannone, mentre gli alleati mettevano in linea 140 mila fanti, 15 mila cavalli e 522 pezzi d'artiglieria.

Il giorno 24 i due eserciti si pongono in marcia l'uno verso l'altro, senza sapere che andavano rispettivamente ad urtare il grosso del nemico.

Il Maresciallo Baraguay partito alle tre del mattino per la strada di montagna che va da Esenta su Solferino, trovava i posti di Fontana e le Grotte occupati dagli austriaci e impegnava un accanito combattimento.

Il Maresciallo Mac-Mahon, che si era messo in marcia alle due e mezzo antimeridiane per la gran strada che da Castiglione va a Mantova, a cinque chilometri dal primo villaggio, vedeva il 7o cacciatori a cavallo incontrare gli avamposti del nono corpo austriaco, che aveva occupato casa Merini.

Il Maresciallo fece prendere dai suoi immediatamente casa Merini e se ne servì di base per lo spiegamento delle sue forze.

Così avvenne di tutti gli altri corpi in marcia, i quali si urtarono contro il nemico pure in marcia.

 

L'imperatore Napoleone ai primi colpi di cannone era montato a cavallo e senza indugio diede gli ordini per la battaglia.

Per descrivere le vicende di quel sanguinoso e memorabile combattimento, il più glorioso che ebbe a sostenere la Francia dopo la battaglia di Marengo ci vorrebbe un volume.

A Solferino l'esercito francese si coprì di gloria.

L'armata Sarda secondo gli ordini ricevuti da Vittorio Emanuele doveva portarsi il 24 a Pozzolengo. Il quartiere generale ordinava alla 1a 3a e 5a divisione di esplorare il terreno con cura, mediante numerose ricognizioni. In conseguenza la brigata granatieri della 1a divisione, postasi in moto alle 4 del mattino, era preceduta da un battaglione di bersaglieri, uno di fanteria, uno squadrone di cavalleggeri d'Alessandria ed una sezione d'artiglieria; la 3a divisione aveva spinto quattro ricognizioni sulla strada che costeggia il Lago e la ferrovia; la 5a inviò il suo capo di Stato Maggiore Colonnello Cadorna con l'8o bersaglieri, un battaglione dell'11o, una sezione d'artiglieria ed uno squadrone cavalleggeri di Saluzzo per la strada Sugana nella direzione di Pozzolengo.

La ricognizione della 1a divisione che costituiva la destra dell'esercito Sardo, incontrati gli avamposti austriaci in Val di Quadri, attaccò il nemico, ma essendo questi in forze assai superiori dovette retrocedere fino verso Fenile Vecchio per ricongiungersi al grosso della divisione. Questa si slanciò sulla posizione austriaca e se ne impossessò; ma gli austriaci rinforzati gagliardamente tornarono alla carica e vi fu un momento in cui i granatieri Sardi furono per essere sopraffatti, ma l'arrivo della brigata Savoia li salvò. Sulle alture di Monte Polperi l'arrivo di nuovi rinforzi rende il combattimento ostinato, micidiale; nè Piemontesi nè austriaci, guadagnano terreno, ma infine gli austriaci sono obbligati alla ritirata, e La Marmora fa avanzare i suoi che occuparono Madonna della Scoperta; là vi ricevè il rinforzo della brigata Piemonte e si mette in marcia per Pozzolengo.

Il Colonnello Cadorna della 5a divisione avanzandosi per la strada Sugana incontra alle cascine di Ponticello gli avamposti del corpo di Benedeck; per rendersi conto della loro forza spiegò immediatamente le sue poche truppe, mandando ad avvisare il generale Mollard onde accelerasse la marcia. Gli austriaci, che erano in forze preponderanti, accettarono la sfida e, malgrado la resistenza eroica delle poche truppe che loro stanno di fronte, riescirono ad impadronirsi delle alture della Casetta e S. Martino occupandole solidamente. Alle 10 del mattino il generale Mollard vedendo sboccare la brigata Cuneo la spiegò in due linee fra la strada Sugana e Casa Nuova e procedè all'assalto. Il 7o e l'8o reggimento si slanciarono alla baionetta sostenuti dal fuoco di una batteria e da alcune cariche dei cavalleggeri di Monferrato, giungono due volte sul culmine dell'altura, ma non riescono a scacciarvi il nemico che la tiene solidamente e sono costretti alla fine di ritirarsi, protetti dalle batterie della sopraggiunta divisione Cucchiari; la brigata Acqui si portò anche essa in linea e tutte queste truppe si precipitarono sotto una pioggia di fuoco all'assalto di S. Martino e se ne rendono padroni; ma Benedeck lanciò le sue riserve intatte sul fronte e sul fianco dei Piemontesi; ed è allora che la 5a divisione mitragliata a pochi passi, contrattaccata vivamente, balena e non trovandosi sostenuta fu costretta a ripiegare e a retrocedere in buon ordine fino a mezza strada di Rivoltella. Il generale Mollard ridotto alle sole sue forze prende posizione alla Cascina di Retinella colla brigata Pinerolo in prima linea e vi si tiene.

Intanto il generale Fanti – riserva generale dell'armata Sarda – era stata inoltrata secondo gli ordini imperiali verso Solferino, ma alle 12 le altre tre divisioni strette seriamente da Benedeck con grandi forze, domandando rinforzi, il Re Vittorio Emanuele dava l'ordine di spedire la brigata Piemonte a Madonna dello Scoperto, ove La Marmora avrebbe preso il comando superiore, mentre la brigata Aosta, col quartier generale, si sarebbe rivolto a S. Martino.

All'arrivo della brigata Aosta, il generale Mollard, che era l'anima di tutti i movimenti offensivi, la formò su due linee colla sinistra alla ferrovia; la brigata Pinerolo si collocò alla sua diritta identicamente disposta, aggregandosi il 7o reggimento, mentre l'8o stava in riserva. Il punto di direzione di queste truppe è la Contracania, mentre sei compagnie con due pezzi di cannone si volgono sulla sinistra austriaca dietro le alture di S. Girolamo. Appena fosse giunta in linea la 5a divisione era dato ordine di cominciare l'attacco generale. Ma in quel punto scoppiò un forte uragano che obbligò la sospensione di qualunque operazione.

Fin dalle prime ore del mattino si combatteva con gran valore e con straordinario accanimento – erano le sette di sera e per quanti sforzi eroici si fossero fatti dai nostri non si era potuto sloggiare il nemico dalle alture di S. Martino, da dove opponeva indomita resistenza. – Molte erano state le perdite. Vi era rimasto ucciso il colonnello Rovetta e il Maggior Bosio del 6o reggimento: feriti il generale Cerale, il generale Arnaldi, il colonnello Vialardi del 5o, il Colonnello del 6o, i maggiori Polastri, Botteri e molti altri ufficiali.

Cessato l'uragano fu deciso di fare uno sforzo supremo con un assalto generale per strappare al nemico il possesso di posizioni con tanto accanimento disputate; il piano concepito stava per essere posto in esecuzione con quella simultaneità da cui solo potevasi sperare vittoria.

Il 14o era all'estrema destra, poi verso sinistra veniva il 7o, indi Aosta, poscia Casale, e un battaglione dell'8o, in ultima Acqui. L'8o battaglione bersaglieri col 14o, il 1o con Aosta, il 5o col 17o.

Cerale, che quantunque ferito non si ritirava dall'azione, domandava al generale Mollard aiuto di artiglieria e tosto venti pezzi erano condotti dal valente maggiore Revel e posti in buona posizione.

Appena le truppe si posero in movimento, un fracasso assordante delle artiglierie che battevano di fronte e di fianco, avvertiva il nemico che i nostri stavano per piombargli addosso. Centinaia di tamburi battevano la carica, le trombe dei bersaglieri la suonavano ai punti estremi ed al centro; un urrah generale scoppiava da un punto all'altro delle colonne convergenti che, a baionettaspianata, si slanciavano sulla posizione e ne toccavano la cima. I generali, gli ufficiali, tutti alla testa dei loro soldati, incuoravanli col grido "Avanti, avanti". Il nemico ne fu scosso, non sostenne l'urto tremendo, cominciò ad oscillare ed infine voltate le spalle si diede alla fuga; e allora l'Avogadro, comandante il 2o squadrone di cavalleria, collo assenso del colonnello Ricotti lo assalì con carica brillantissima, lo sbaragliò e lo pose in rotta disordinata verso Pozzolengo, lasciando nelle nostre mani numerosi prigionieri.

Il combattimento aveva durato dalle sette del mattino fino alle nove di sera: quattordici ore! fu uno dei più lunghi ed ostinati combattimenti che gli annali delle battaglie ricordino.

Trofei della vittoria furono cinque cannoni, non pochi prigionieri, fra cui parecchi ufficiali.

Così la sera del 24 giugno prendeva posto, tra le glorie dell'esercito, la battaglia di S. Martino.

La memorabile giornata del 24 fu chiamata di Solferino e S. Martino dal nome dei luoghi sui quali ne venne deciso l'esito.

Le truppe alleate hanno dovunque combattuto con grandissimo valore. I Piemontesi si diportarono in modo degno di grande lode, dacchè è certo che le loro 3 divisioni 1a 3a 5a hanno avuto a fronte 7 brigate austriache, quasi un terzo di forze superiori; e, quel che è peggio, situate in ottime posizioni difensive.

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