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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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CAPITOLO XVII
Dal 24 marzo 1849 al 1859 – Il Piemonte

Nella notte del 24 marzo 1849 Vittorio il nuovo Re, uscente dalla tenda di Radetzky a cui aveva detto "I Savoia sanno la via dell'esilio non quella del disonore"! – galoppava tra i campi seminati dai caduti per la libertà della patria, seguito da piccolo drappello de' suoi. A qual destino andava incontro? Quale meta attendeva la giovinezza del suo regno saturo già d'ineffabili angoscie? Qual fiamma lo agitava? Certo il suo cuore era angosciato dai ricordi del breve idillio del "48" e della dolorosa epopea del "49"; ma la grand'anima sua si sollevava al pensiero che il nome d'Italia era stato per la prima volta il grido del popolo combattente, e sentiva già che le speranze della patria erano in lui riposte. E stretto al cuore il patto della libertà, e il simbolo della redenzione, proseguiva incontro al suo destino verso il suo vecchio e fido Piemonte, deciso entro di sè di volere raggiungere la santa meta – l'unità della patria!

Garibaldi dopo il "49" si era recato a New-York con la speranza di trovare imbarco come comandante od anche come secondo di nave mercantile; dopo lunga aspettativa una Società Italo-Americana gli diede il comando di un bastimento col quale doveva battere gli scali dell'America Centrale. Nel 1853 Garibaldi prendeva il comando del "Commonwealth" – un tre alberi destinato ai carichi di carbone dall'Inghilterra per l'Italia; arrivato a Genova, lasciava il comando e si recava a Nizza per portare un saluto almeno, sulla tomba della sua santa madre e per restare qualche tempo presso i suoi figli, Menotti, Teresita e Ricciotti.

Vi rimase immolestato l'anno 1854: quindi con altro piccolo bastimento detto "L'Esploratore" si mise a fare la navigazione del piccolo cabotaggio.

In uno di questi viaggi, colto da grosso fortunale nelle bocche di Bonifacio dovette cercare rifugio nel porto della Maddalena, e dimorandovi alcuni giorni, per la prima volta gli balenò l'idea di comprare una parte dell'Isola di Caprera.

Aveva riscossi alcuni residui dei suoi stipendi di Montevideo; nei suoi viaggi marittimi aveva messo da parte qualche cosa; dall'eredità del fratello Felice aveva raccolto una sommetta; onde gli parve venuto il momento d'impiegare i suoi modesti capitali e decise di comprare dal Demanio Sardo i lotti dell'Isola che erano vendibili e di fissarvi la sua dimora.

Lungo, lento, doloroso decennio quello dal "49 al 59!" Ma pur meraviglioso di contrasti e di conciliazioni; di forze latenti che si preparavano; di aperte riscosse che si tentavano; di passioni ardenti che spingevano a sagrifizi; di martiri che inaffiarono di sangue l'Idea:

Vittorio Emanuele, Mazzini, Cavour, Garibaldi, Pallavicini ed altri grandi patriotti non dimenticavano che l'Italia viveva in catene, e si preparavano.

L'Austria, accampava in Italia con diritto di feudo su Modena, Parma e Toscana; con eserciti dominatori nel Lombardo, nel Veneto, nelle Romagne, nelle Marche; suo sistema di governo, forche, fucilazioni e bastone.

Eppure tutto il decennio fu sfida e duello fra l'Austria forte e l'Idea Italiana.

Luminoso e generoso si diffondeva il pensiero dell'agitatore genovese nella Giovine Italia che aveva per bandiera il tricolore; per programma l'indipendenza ed unità di Nazione, forma di governo repubblicano; che predicava guerra di popolo, s'insinuava nelle congiure, scoppiava in parziali insurrezioni, provocava vendicatori del nuovo sangue versato, cementava l'idea santa del martirio.

Ma le rivolte fallivano; la gioventù si spegneva fra gli ergastoli ed ai patiboli; i tentativi infelici di Orsini, di Bentivegna, di Pisacane; il moto di Calvi in Cadore; la congiura di Milano, che dava, sugli spalti di Belfiore, alle forche, ed al carcere duro tanto fiore di nobili vite, dimostravano che il pensiero mazziniano, grande perchè manteneva vivo il fuoco patrio, era impotente nell'azione.

Chi avrebbe potuto armare l'idea? Il Piemonte e la Casa Sabauda! Quel principato italiano doveva trasformarsi in principato Nazionale; la monarchia dovea farsi rivoluzionaria; i repubblicani unitari dovean persuadersi che la monarchia di Savoia aveva fede, forza e valore; e la monarchia si pose allo esperimento dei fatti. Pallavicini e Manin si fecero apostoli dell'unione della democrazia col Piemonte.

Cavour – vigile e possente intelletto – uomo di Stato degno del Re Vittorio Emanuele – concepisce la felice idea di mandare nelle terre d'Oriente, sui campi di Crimea, combattenti, tra i soldati d'Inghilterra e di Francia, i nostri bravi soldati che riaffermino alla Cernaia, la virtù degli animi e la potenza delle armi italiane.

Al Congresso di Parigi si fa eco dei dolori, delle miserie, delle speranze d'Italia – e l'Italia sente nel Piemonte se stessa – intuisce in Vittorio Emanuele il suo Re prode generoso e fedele.

Finalmente a Plombiers si segna l'alleanza con la Francia, e l'ultimatum lanciato dall'Austria, tanto desiderato, dà la spinta al compimento dei destini della patria.

Nel 1856 il generale Garibaldi trovandosi a Genova veniva ogni giorno, ogni minuto sollecitato, e messo alle strette da numerosi patrioti, i quali chiedevano che si mettesse alla loro testa per iniziare un ardito movimento Nazionale.

Da tempo erano sorti due partiti in Italia: unica però la meta – la cacciata dello straniero: i mezzi per raggiungerlo, però, si palesavano assolutamente diversi. Gli uni rimanendo fedeli intransigenti al principio repubblicano volevano arrivarci colla rivoluzione. Gli altri, senza alcuna abiura ai principii, aderivano al patto con la Casa di Savoia che s'impegnava di mettersi alla testa del movimento Nazionale e di combattere per l'unità ed indipendenza d'Italia. Garibaldi sentiva che per raggiungere questo fine patriottico era necessario di far tesoro delle forze piemontesi e che la spinta, magari indiretta, doveva venire da quel principe leale e da quel governo. Egli quindi abbracciò questo secondo partito; per lui si doveva compiere l'unità italiana; ed è dovere riconoscere che la Casa Savoia era chiamata per virtù propria, per valore e per tradizione storica, a compiere i destini della patria.

L'impotenza sempre più manifesta dei partiti puramente rivoluzionari; la sfacciata complicità degli altri principati italiani collo straniero; la politica schiettamente nazionale del Piemonte e del suo Parlamento; il sangue già versato sui piani Lombardi; l'esilio del suo Re; la proverbiale lealtà di Vittorio Emanuele ai patti giurati; furono queste le vere ragioni che chiamarono provvidenzialmente la monarchia piemontese a capo della lotta nazionale.

CAPITOLO XVIII
1859 – La guerra d'indipendenza

Il 1o dell'anno 1859 l'Europa veniva risvegliata dall'eco rumorosa dei pochi detti, pronunziati dall'Imperatore Napoleone III al conte Hübuer ambasciatore d'Austria:

"Mi duole che le relazioni col vostro governo non sieno così amichevoli come per lo passato; dite però all'Imperatore che i miei sentimenti personali verso di lui non sono punto cambiati".

Era il preavviso della dichiarazione di guerra, e furono pochi quelli che non lo capirono. In Italia sopra tutto queste parole risvegliarono tutte le speranze alle forze sopite dal 49 in poi. I frutti delle alleanze di Crimea venivano a maturanza.

Si attendeva con ansia febbrile l'apertura della Camera Sarda per trovare nella parola del Re Sabaudo un detto che confermasse le concepite speranze, e la parola si fece sentire così:

Signori Senatori, signori Deputati,

"L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno. Ciò nondimeno vi accingerete colla consueta alacrità ai vostri lavori parlamentari. Confortati dalla esperienza del passato, andiamo incontro risoluti all'eventualità dell'avvenire. Quest'avvenire sarà felice riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della patria.

"Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli di Europa, perchè grande per le idee che esso ispira.

"Questa condizione non è scevra di pericoli, giacchè mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi.

"Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Provvidenza".

10 gennaio.

La Corona non potea dire di più: i gridi di dolore uditi dal Re Vittorio Emanuele, si cambiarono nelle genti italiane in grido di giubilo e di esultanza.

Il primo dardo era gettato e l'Austria non aveva tardato a raccoglierlo ordinando la marcia del 3 °Corpo d'Armata di stazione a Vienna verso la Lombardia.

Questo provvedimento unito ad altri di concentrazioni di truppe ordinati dal Maresciallo Giulay sul Ticino e sul Lago Maggiore diede motivo alla stampa liberale, diretta dal Conte di Cavour, di dichiararsi provocati e di fare appello a tutto ciò che l'Italia aveva di valido e di nazionale – ed ai preparativi per la prossima campagna.

Mentre tutto nell'Alta Italia si apprestava alla guerra, in Toscana la dinastia di Lorena al 27 di aprile cessava di regnare. Una rivoluzione si compiva pacificamente, si formava un governo provvisorio, e il generale Ulloa prendeva il comando delle forze militari.

Il 20 di dicembre del 1858 il Conte di Cavour aveva chiamato in segreto convegno Garibaldi e gli comunicava in confidenza questo disegno: un'insurrezione era preparata nei ducati: verso il 1o di aprile Massa e Carrara inizierebbero il movimento; due bande di volontari irromperebbero contemporaneamente da Lerici e da Sarzana: Garibaldi doveva spalleggiare la rivolta e capitanarla. Nello stesso tempo un battaglione di bersaglieri, dei migliori elementi della guardia Nazionale di Genova, si doveva organizzare in quella città, e sarebbe il primo nucleo delle forze popolari destinate a fiancheggiare colla rivoluzione l'esercito regolare.

 

Garibaldi applaudì alla proposta e diede senza restrizione la sua adesione; e lieto che ormai la guerra dell'indipendenza era davvero imminente, si ridusse di nuovo nella sua isola di Caprera.

Ma l'accalcarsi crescente dei volontari in Piemonte, consigliò il Conte di Cavour di pensare ad altro mezzo per potere più efficacemente trar profitto di Garibaldi. Infatti il 2 marzo 1859 il generale fu chiamato a Torino dal Re. Le parole di quel dialogo tra il Re Galantuomo e l'eroe popolare andarono perdute; ma il senso ne fu presto palese. Gli si volle dare una parte più diretta ed importante sul teatro della guerra.

Tornato Garibaldi a Genova, convocò i suoi più intimi, Medici, Sacchi, Bixio e diede loro quest'annunzio: "Ho veduto Vittorio Emanuele; credo che il giorno di ripigliare le armi non sia lontano; state pronti; io spero di poter fare ancora qualche cosa con voi"!

Fu deciso di ordinare tutta quella valorosa gioventù – che da ogni regione della penisola conveniva in Piemonte – in corpi speciali, che stessero a fianco dell'esercito, come rappresentanti dell'elemento popolare e rivoluzionario di Italia, disciplinati in ordinata milizia, ubbidienti al suo capo, e soggetta al Comando supremo.

Da questo concetto nacquero i Cacciatori delle Alpi. Garibaldi fu richiamato da Caprera per capitanarli; ed egli rispose subito all'appello, traendosi seco i suoi più fidi commilitoni.

La sera pel 23 aprile due inviati austriaci presentavano al Conte di Cavour l'ultimatum del loro governo: "disarmo immediato, o guerra" e la risposta non poteva essere dubbia.

Finalmente quel cartello di sfida, tanto provocato, tanto desiderato, il grande statista lo teneva in mano; finalmente la guerra era certa, la Francia vi era impegnata; l'Austria l'intimava essa stessa, e non poteva sfuggirla.

Infatti, prima ancora che il Conte di Cavour consegnasse ai messaggeri austriaci la sua risposta, Garibaldi, risposta ancor più espressiva, riceveva l'ordine di portare la sua brigata a Brusasco, sulla destra del Po, cioè a dire, in prima linea. Suo mandato era, guardare il Po da Brusasco a Gabbiano, difendere la strada militare Casale-Torino, e chiudere gli intervalli esistenti tra la divisione Cialdini che guardava la Dora Baltea, e le batterie di Casale che proteggevano più a mezzogiorno i passi del Po.

Garibaldi ad effettuare questo disegno, mandò una compagnia a presidiare Verua, e, spedito avviso al generale Cialdini suo capo immediato, nel giorno stesso occupava Brozzolo e vi piantava il suo quartier generale.

Il 25 aprile le truppe francesi varcavano il confine della Savoia, ed altre prendevano imbarco nei porti di Tolone e di Marsiglia per Genova.

Il dado era tratto, la guerra dichiarata, e il 29 aprile un corpo di austriaci comandato dal generale Giulay invadeva il territorio sardo.

L'esercito Piemontese si concentrava sulla destra del Po, tra Casale e San Salvatore, fiancheggiandosi con Alessandria, aspettando che il nemico avanzasse se lo avesse osato.

Nella giornata del 30 giungevano a Torino ed Alessandria le avanguardie francesi.

In data del 29 aprile 1859 il re Vittorio Emanuele diresse alle truppe un nobilissimo proclama, il quale fra le altre belle cose diceva:

"… L'annunzio che vi dò è annunzio di guerra; all'armi dunque o soldati… Io sarò il vostro duce. Altre volte ci siamo conosciuti con gran parte di voi nel fervore delle pugne; ed io, combattendo a fianco del magnanimo mio genitore, ammirai con orgoglio il vostro valore. Movete fidenti alla vittoria, e di novelli allori fregiate la vostra bandiera, quella bandiera che coi tre suoi colori e colla eletta gioventù, qui da ogni parte d'Italia convenuta e sotto a lei raccolta, vi addita che avete a compito vostro l'indipendenza d'Italia; questa giusta e santa impresa che sarà il vostro grido di guerra" quali parole del re guerriero e patriota empirono d'entusiasmo e di ardimento gli animi delle milizie regolari e dei volontari Garibaldini.

Nel pomeriggio del 22 maggio Garibaldi con marcia ordinata e celere aveva preso la via di Arona, e mentre per le disposizioni date, tutto doveva far credere che vi avrebbe pernottato, a notte calata le sue truppe facevano un rapido mezzo giro a destra e infilavano, serrate e silenziose, la strada di Castelletto, penetravano nel parco Visconti e trovati alla riva i barconi preparati già dal bravo Viganotti in ordine mirabile s'imbarcarono, e passarono sull'opposta riva occupandola militarmente; e subito dopo la 3a compagnia De Cristoforis, scelta per avanguardia si spingeva a notte profonda dentro Sesto Calende a cogliere nel sonno le autorità austriache, doganieri, gendarmi e croati colà residenti, facendoli prigionieri.

La mattina del 23 maggio la situazione degli eserciti belligeranti era questa: gli alleati ancora al di là della Sesia e del Po, tra Vercelli e Voghera; gli austriaci in faccia a loro, padroni delle due rive della Sesia e del Ticino, e di tutto il Lago Maggiore.

In questo stato di cose Garibaldi si trovava isolato, come campato in aria, ed i suoi cacciatori potevano considerarsi come un nucleo di truppa perduta nel cuore del campo nemico: per cui al nostro eroe non restava che, o vincere subito ad ogni costo, o disperdersi coi suoi per i monti, onde potere all'evenienza rifugiarsi in Isvizzera. A ragion militare veduta, dei due eventi certo il meno probabile non era il secondo. Ed invero l'Austria era signora della Lombardia, la scorrazzava con dodicimila uomini, riceveva rinforzi, o ne poteva ricevere ancora; occupava Milano con imponente presidio, allacciava i suoi distaccamenti con forti colonne mobili pronte a correre nei punti più minacciati; sicchè poteva opporre al condottiero italiano una forza sempre di molto maggiore della sua. Ma a Garibaldi in mancanza di grandi forze erano potenti ausiliari, la perizia e l'indomita audacia. Si fissava quindi nell'antico suo scacchiere del 1848 tra il Verbano e il Lario, e formava in un baleno il suo piano deliberando la marcia su Varese nel giorno stesso.

Un fiero proclama scritto di sua mano, inciso colla sua spada, aveva annunziato il suo arrivo alle popolazioni della regione, e non vi era umile terra dei dintorni che vi restasse insensibile. Da Laveno, Gallarate, Besozzo, Ispra, Varese, accorsero festanti ad offrire al famoso Capitano l'opera loro, ad invocare una sua parola d'ordine per la lotta; ed a tutti l'eroe distribuiva parole d'incitamento e di coraggio.

All'inviato di Varese, che, a nome del suo generoso Podestà Carlo Carcano gli domandava istruzioni, rispondeva di suo pugno; "qualunque cosa facciate contro il nemico in pro' della santa causa italiana, sarà da me approvata, ed io vi sosterrò validamente".

La marcia da Sesto Calende a Varese non poteva essere fatta di fronte, perchè esposta ad essere pericolosamente molestata di fianco; oltre di che, prima d'inoltrarsi nel paese, importava assicurarsi sul Lago Maggiore un punto di sostegno, e impadronirsi di uno almeno dei piroscafi che il nemico vi teneva. Guidato da questi concetti ordinò il suo movimento così:

Bixio con un battaglione del suo reggimento doveva marciare per la strada lacuale di Sesto Calende; toccato Angera doveva staccare una compagnia per tentare di predare il piroscafo "Ticino" ivi ancorato: giunto ad Ispra sostare ed informarsi esattamente del presidio di Laveno, e di tutte le altre forze austriache sul Lago, dopo ciò convergere su Brebbia e spingersi fino a S. Andrea, borgo che cavalca la via Laveno-Varese ed ivi accamparsi gagliardamente.

Il capitano De Cristoforis doveva rimanere a Sesto con la sua compagnia, sorvegliare il passo del Ticino, e se gli capitava il destro impossessarsi di qualcuno dei vapori nemici, e sopratutto doveva guardare la strada Sesto-Gallarate attirandovi il nemico, trattenerlo quanto avesse potuto, e battere in ritirata su Varese se assalito da forze superiori.

Tutto ciò stabilito, spinta un'altra pattuglia a Gallarate, per mascherare una volta di più la sua mossa, verso le 5 di sera Garibaldi staccava la marcia, e per le vie traverse di Corpegno, Varano, Bodio, Capolago, tra fitte tenebre, attento a tutti i bivii, e sollecito a tutti i rumori, con la truppa stanca, ma elettrizzata al contatto di quella terra tanto agognata, s'accostava a Varese, dove circa le 11 di sera incontrato da musiche e da fiaccole, accolto da una calca di popolo in delirio, vi entrò in trionfo, s'avviò difilato al Municipio ed incontrato il Podestà lo abbracciava infiammando con l'ardente sua parola che affascinava quanti l'ascoltavano; e prima di ritirarsi pronunziava queste testuali parole, che la storia non può dimenticare: "Qualunque bene diciate di Vittorio Emanuele non sarà mai troppo. Io non sono realista: ma dopo che avvicinai Vittorio Emanuele, dovetti riconoscerlo per un gran galantuomo. Egli non solo ha per l'Italia un amore immenso, ma un culto, un'idolatria".

Quello che importava era provvedere alla difesa. L'Austriaco, scossa la prima sorpresa, accorreva e serrava da ogni banda. Giulay conosciuta l'invasione garibaldina, in risposta a quello di Garibaldi, bandiva un suo proclama feroce, nel quale dopo avere annunziato il suo arrivo concludeva. "Do la mia parola che i luoghi, i quali facessero causa comune con la rivoluzione, verrebbero puniti col fuoco e con la spada". E non dovevano essere parole soltanto.

Il giorno stesso spiccava dal grande esercito una colonna che a marcia forzata, accorreva sul nuovo teatro di guerra; anche da Milano il generale Melezes di Kellermes, spediva su Gallarate e Somma un corpo di quattrocento fanti, due pezzi e uno squadrone. Fu questo corpo che il 25 di mattino andò ad attaccare in Sesto-Calende il capitano De Cristoforis, e che questi, con strattagemmi degni di una pagina di storia indimenticabile, seppe illudere e deludere così bene, da tenerlo in mano per quasi due ore con forze quattro volte inferiori, e sgusciargli di sotto gli occhi, a mezzo tiro di moschetto, lasciandolo solo a cannoneggiare le povere case di Sesto, dove fin dalla mattina non v'era più l'ombra di un garibaldino.

Intanto la colonna austriaca partita da Oleggio, il cui antiguardo fu visto spuntare ad Olgiate la sera del 23, era in marcia su Varese, forte di quattromila uomini con due batterie e due squadroni, comandata dal tenente maresciallo Urban.

Varese giace in una conca di colline alcuna delle quali vestite di macchie e di boscaglie che formano il suo baluardo. E tramezzo a siffatte colline nella direzione dei quattro punti cardinali corrono altrettante strade principali: ad oriente, quella che dalle falde di Biumo conduce per Malnate, a Olgiate e a Como; a mezzodì, quella che lambendo le pendici di San Pedrino e di Gubiano, va per Gallarate a Tradate a Milano; ad occidente, quella che, traversati i poggi di Masnago e Comerio, mena per Gavirate a Laveno, a settentrione, infine le due strade d'Induno e di Sant'Ambrogio che spaccando le prealpi di Valcuvia e di Valgana, portano al Lago Maggiore ed alla Svizzera. Ora a chi avesse considerata questa topografia, due cose risultavano notabili: la prima, che la strada di Induno e di Valgana si allacciava presso Biumo inferiore, alla strada di Como in guisa da formare con essa un angolo retto; la seconda, che per il poggio di Biumo Superiore s'incamminava nel quadrivio testè descritto, Varese-Sant'Ambrogio-Induno-Como, e con la forte postura ne teneva la chiave e la dominava.

Ciò posto, e per quanto fosse manifesto che l'attacco principale sarebbe venuto dalla via di Como, non era però da trascurarsi, il supposto, assai probabile, che l'Urban avrebbe compiuto un movimento aggirante per la via Induno; nè molto meno era a rigettarsi come improbabile il caso che i corpi incontrati a Gallarate dal De Cristoforis e il presidio di Laveno si muovessero a rincalzare di fianco e alle spalle l'assalto principale, tentando di mettere i garibaldini tra tre fuochi.

Importava dunque guardarsi da tutti i lati, e guardarsi in modo da potere all'evenienza far fronte da ogni parte, senza assottigliare di troppo la propria linea e disseminare le forze; e Garibaldi non titubò. Fissate due linee di difesa, l'una esterna, lungo l'arco Biumo-Giubiano-San Pedrino e l'altra interna rasente gli sbocchi delle principali vie di Varese, occupò coi carabinieri genovesi e un battaglione del terzo Reggimento la Villa Ponti, centro di Biumo Superiore, e vi piantò il suo Quartier Generale; mise a guardia di Biumo Inferiore un battaglione del secondo Reggimento, ed erigendo due barricate, una appoggiata alla Villa Litta Modignani, a custodia della strada d'Induno, l'altra tra la chiesetta di San Cristoforo e la casa Merini, a sbarrare le vie di Como, assicurò su queste posizioni la sua sinistra. Appostò indi un battaglione del primo Reggimento in faccia a Giubiano, e intorno alle alture circostanti di Boscaccio e vi appoggiò il suo centro; collocato tra Villa Pero e la Villa De Cristoforis a San Pedrino, il rimanente del primo Reggimento sotto il comando di Cosenz, e fatta asserragliare anche quella strada, afforzò la sua destra dal lato di Milano; richiamò Bixio da Sant'Andrea, senza tralasciare di far battere da frequenti pattuglie a grande distanza la strada di Laveno, munì di barricate tutti gli sbocchi di Varese e provvedere così alla sua seconda linea; infine prescritte come eventuali linee di ritirata le strade di Induno e Sant'Ambrogio, tutto ispezionato co' suoi occhi, a tutti comunicando la sua intrepidezza e la sua fede, attese di piè fermo il nemico.

 

E questo non si fece aspettare lungamente, fin dalla sera del 25 gli esploratori l'avevano segnalato a Olgiate. Un breve ma eloquente manifesto del Regio Commissario Emilio Visconti-Venosta che diceva: "Varesini, Voi foste i primi a salutare la bandiera tricolore in Lombardia, Voi sarete i primi a difenderla" vi aveva preparato gli animi ad accoglierlo degnamente e al mattino seguente infatti sullo scoccare delle otto il nemico appariva innanzi a Belforte e il combattimento incominciò.

Dei quattromila uomini che il generale Urban traeva seco, una parte, l'aveva lasciata in riserva a San Salvatore forte posizione tra Binago e Malnate; un altro battaglione di granatieri lo aveva inviato per Casanuova e Cozzone ad eseguire quel movimento aggirante sulla strada d'Induno che Garibaldi aveva preveduto; e cogli altri duemilacinquecento fanti circa, la cavalleria, e quattro pezzi veniva ad assalire direttamente Varese. Impadronitosi del poggetto di Belforte annunziò con alcuni razzi il suo attacco, muovendo simultaneamente contro la sinistra e il centro garibaldino; ma questi non si mossero ed attesero, come Garibaldi aveva ordinato, a mezzo tiro il nemico e con pochi colpi ben assestati l'arrestarono di botto. Ad un secondo e più gagliardo attacco, i garibaldini usarono la medesima tattica. Infatti appena il nemico fu presso la barricata della gran strada di Como, e spuntò al centro sulle alture di Boscaccio, Medici con una brillante carica alla baionetta di fronte, e Cosenz con un abile contrattacco di fianco, con poche forze, ma con grande valore ributtarono l'assalitore fin sotto alle falde di Belforte e lo forzarono a battere in ritirata su tutta la linea.

Garibaldi da Villa Ponti, donde aveva osservato le vicende della pugna, visto che il nemico si ritirava, ordinò che s'inseguisse e scendendo di galoppo sulla strada, si pose egli stesso a capo dell'inseguimento.

Il generale Urban era intanto arrivato a San Salvatore, dove aveva lasciato la sua riserva, e, saputo del rovescio toccato ai suoi, si apparecchiava a sua volta a sostenere l'assalto.

Garibaldi non aveva con sè che un terzo delle sue forze, e quantunque la posizione di San Salvatore fosse fortissima e serrasse la strada come un contrafforte, non esitò ad ordinare l'attacco; occupato il poggetto Raera fronteggiante San Salvatore, e fatto ripiegare Bixio che si era troppo inoltrato, tenne a bada il nemico con vivissimo fuoco di moschetteria, finchè sceso da Cozzone il Medici, spinse ad una carica alla baionetta tutta la sua linea, costringendo gli Austriaci a lasciare a precipizio anche quella seconda posizione e a non arrestarsi più che ad Olgiate.

All'annunzio della vittoria di Varese, l'agitazione patriottica divampò, estendendosi rapidamente. I patrioti di Como fecero sapere a Garibaldi che lo aspettavano frementi nella loro città; che molte pievi del Savio s'erano sollevate, e che alcuni giovani armati si erano impadroniti dei vapori del Lago ed erano passati alla causa Nazionale. Garibaldi promise che avrebbe marciato alla volta di Como, non però col proposito di entrarvi, ma di occupare una buona posizione che gli avesse permesso di dar la mano agli insorti del Lago, e di riassaltare di conserva con loro l'austriaco.

Date le opportune disposizioni per la sicurezza di Varese, all'alba del 27 col primo reggimento in testa s'incaminava con tutta la brigata per la via che per Olgiate e Cavallasca mette a Como.

Il generale Urban a sua volta, rinforzato da due nuove brigate (Augustin e Scoffgotsche) che facevan montare le sue truppe a ben diecimila uomini, aveva preso posizione difensiva fra la strada medesima e l'altra più settentrionale che da Cavallasca per San Fermo piomba su Como; e colla sinistra dietro il Lura tra Brebbio e Breccia, il centro a San Fermo, la destra al Prato di Porè sul lago, si preparava a sostenere l'assalto. Se non che, male esperto delle abitudini tattiche di Garibaldi, egli se l'aspettava nel piano, alla sua sinistra e quindi per rinforzare questo punto aveva malaccortamente indeboliti gli altri. Garibaldi invece aveva l'occhio fisso ai monti; sicchè giunto ad Olgiate arrestava la colonna, metteva in posizione tutto il primo reggimento sì da far credere si preparasse allo assalto, tenne a bada il nemico per più ore, e allo scoccar del mezzogiorno, coperto dal reggimento Cosenz, voltava repentinamente a sinistra per gli erti viottoli che salivano a Geranico al Piano ed a Porè; e giungeva a Cavallasca in faccia a San Fermo. Quivi, spiate dal campanile di Cavallasca le posizioni nemiche, Garibaldi stabiliva prontamente il suo piano di battaglia e ne ordinava con pari celerità l'esecuzione. Al colonnello Medici ed al suo reggimento l'onore del primo assalto; De Cristoforis con due compagnie doveva attaccare di fronte la chiesa di San Fermo; Susini-Millelire con una compagnia doveva attaccarla da sinistra, quella del Vacchieri da destra; altre compagnie, condotte dal Gorini, e tutte comandate dal Medici in persona, dovevano calare sulla strada San Fermo-Rondinello e minacciare il nemico.

Il primo cozzo fu tremendo; i cacciatori austriaci armati delle loro eccellenti carabine, appiattati attorno al parapetto del piazzale della Chiesa, che s'innalzava sopra un poggio a guisa di bastione, e dietro le finestre delle case circostanti battevano con un fuoco micidiale di fronte e di fianco, i primi assalitori e cioè la compagnia De Cristoforis, che rigò del sangue dei suoi migliori la via infuocata; cadde colpito gravemente il tenente Pedotti; cadde, lacerate le visceri, il capitano De Cristoforis; cadde, fracassata una spalla, il tenente Guerzoni ed altri, ed altri; la compagnia decimata balena s'arresta un istante, ma non indietreggia. Nel frattempo l'assalto ai due fianchi si spiegava ed incalzava; un battaglione austriaco si lanciava alla corsa da Rondinello, ma incontra sui suoi passi il Medici che lo arresta, e con una carica furiosa riesce a rovesciarlo; altre compagnie dei nostri subentrano a rinforzare l'assalto, sicchè il nemico ormai circuito, sgominato, rotto, volta in fuga precipitosa verso Camerlata e Como.

Garibaldi non indugiò un istante ad occupare le posizioni espugnate, e mentre Medici s'afforzava tra Rondinello e Breccia, e Bixio chiudeva gl'intervalli tra S. Fermo e Rondinello, il maggiore Quintini si piantava col battaglione ed alcune compagnie del secondo reggimento a San Fermo; ed altre compagnie si stendevano a sinistra verso Cima la Costa. Ma ancora il nemico non si dava per vinto, il generale Augustin, raccolte tutte le sue forze, le spinse parte a destra, su Cima la Costa, per spuntarvi la nostra sinistra; parte a manca, per riafforzare l'altura di sopra la Costa, e di là controbattere San Fermo. E la mossa fu condotta con rapidità; ma vegliava Garibaldi, e vegliavano i suoi luogotenenti; onde appena l'assalitore giunse a mezzo tiro della nostra linea, il Cosenz a sinistra di Cima la Costa, il Medici a destra da sopra la Costa, lo respingono, di svolta in svolta, di poggio in poggio, giù per la strada d'onde era venuto, fino a che Garibaldi adocchiata da Cima la Costa quella seconda più rovinosa ritirata, vide possibile quello di cui prima dubitava, cioè la presa di Como; e vi si preparò senz'altro.

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