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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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CAPITOLO X
Roma – Proclamazione di Repubblica

Il 5 febbraio 1849 i deputati del popolo adunati in Campidoglio trassero con solenne maestà al palazzo della Cancelleria, luogo stabilito per le loro adunanze. Fu posta subito la questione che si dichiarasse il decadimento del potere temporale dei papi e si proclamasse la repubblica. Sorse allora Terenzio Mamiani con le memorande parole: A Roma, o i Papi o Cola di Rienzo, – "i Papi, investiti del potere temporale essere stati sempre il flagello d'Italia e della religione; la repubblica la più bella parola, che dir potesse labbra d'uomo. Gravi per altro i pericoli che potea con sè portare la repubblica, non avendo gli Stati romani per tutelarla le immortali falangi che la Francia ebbe nel 1793. Toscana poteva aiutare ma debolmente; gran danno invece la proclamata repubblica potea recare in Liguria e in Piemonte, nerbo e centro delle forze italiane; l'Europa tutta conservatrice; la Francia meno repubblica che impero Napoleonico. Concluse che la questione della forma di governo conveniva rimettere alla Costituente italiana".

Masi, Filopanti, Agostini, Carlo Rusconi, Garibaldi parlarono in favore della repubblica. Vinciguerra esclamava essere tempo di finirla coi Papi, assentivano Gabussi e Savini. Bonaparte principe di Canino, dichiarava impossibile la conciliazione del papato con la libertà italiana; fu una discussione serrata, efficace, eloquente. Infine respinta ogni altra proposta fu messo ai voti il memorando decreto.

Art. 1. Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato romano.

Art. 2. Il Pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per la indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale.

Art. 3. La forma di governo dello Stato romano sarà la democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica romana.

Art. 4. La repubblica romana avrà col resto d'Italia le relazioni, che esige la nazionalità comune.

I votanti furono Centoquarantatre; centoventi risposero ; nove risposero No; quattordici approvarono commentando un articolo.

La folla immensa di popolo alla notizia proruppe in un urlo immane di gioia e di plauso.

Roma in quel momento aveva affermato il diritto del popolo italiano.

Essa parve, e fu più grande della Roma dei Cesari!

E il manifesto, che la Costituente romana diresse a tutti i popoli lo prova.

Ecco alcune parti più importanti di quel documento d'imperitura memoria:

Italiani,

"Novello vi si presenta quel popolo, che era già il più grande della terra. Ma fra l'antica grandezza e questa resurrezione stette per mille anni il papato.

"Il popolo ha voluto, e la sua volontà non ha bisogno di chiedere giustificazioni dal passato. La sua ragione è antecedente ad ogni fatto umano.

"Era piena di lacrime la storia d'Italia, e al papato ne veniva ascritta gran copia. E non dimeno, allorchè si fece innanzi il papato, e mise la croce sulla cima del vessillo nazionale, vide il mondo che gl'italiani erano presti ad obbliar le sue colpe; e a nome di un papa iniziavano la loro rivoluzione. Ma quella fu appunto la prova di quanto potesse il papato e di quanto non potesse. I predecessori dell'ultimo regnante erano stati troppo cauti per non impegnarsi a tal prova, e la loro potenza non fu misurata, che dalle sciagure accumulate sui popoli. L'ultimo regnante si avventurava primo nell'opra e volle ritrarsene, quando si fu accorto, ch'egli aveva rivelata una terribile verità, cioè l'impotenza del principato papale a far libera, indipendente e gloriosa la nazione italiana; volle ritrarsene, ma fu tardi. Il papato aveva giudicato se stesso.....

"Speravamo tuttavia; ma un sistema di reazione fu la risposta che venne dal papato. Cadde la reazione. Il papato dapprima dissimulò; vide la pace del popolo e fuggì. E nel fuggire portò seco la certezza di destare la guerra civile; violò la costituzione politica; ci lasciò senza governo; respinse i messaggi del popolo; fomentò le discordie; stette in braccio del più feroce nemico d'Italia e scomunicò il popolo.

"Questi fatti mostrarono abbastanza che il principato papale nè voleva, nè poteva modificare se stesso, e non restava, che subirlo o distruggerlo. Venne distrutto.

"La liberalità di regnanti o tolleranza di popoli avevano posto il papato nella città degli Scipioni e dei Cesari, invece che nel mezzo della Francia, o sulle rive del Danubio e del Tamigi; doveva esser per questo, che gl'Italiani perdessero i diritti comuni a tutti i popoli, la libertà e la patria? E se fosse pur vero, che alla potestà spirituale del pontificato sia necessario il possesso d'una sovranità temporale, quantunque non a questa condizione fosse promessa da Gesù Cristo l'immortalità della sua Chiesa, era dunque serbato a Roma il divenire il patrimonio del papato e divenirlo per sempre? Roma, patrimonio di una sovranità, che per sussistere aveva bisogno di opprimere, e per essere gloriosa aveva necessità di perire? e come patrimonio del papato farsi cagione permanente della ruina d'Italia? Roma, di cui le tradizioni, il nome e fin le ruine parlano sì forte di libertà e di patria?.."

E il popolo rispose e risponde: No! – Roma è mia! Roma è della libertà!

Pagato a Roma il debito politico Garibaldi ritornò a Rieti a riprendere il suo posto militare.

Nel frattempo gli avvenimenti avevano fatto il loro corso.

Il 22 marzo la catastrofe di Novara; il 27 la risposta dell'Assemblea Veneta all'Haynau: "Venezia resisterà ad ogni costo"; il 28 l'insensata rivolta di Genova; il 1o aprile l'ultimo giorno della decade Bresciana.

CAPITOLO XI
Le dieci giornate di Brescia
disastrosa giornata di Novara

Il 20 marzo in Brescia una adunata di popolo in piazza Vecchia, sotto la loggia municipale, preceduta da bandiera tricolore chiedeva le dimissioni del Podestà Zambelli, e la formazione della guardia civica. Nello stesso giorno sul Colle di S. Florian era comparsa una squadra d'armati condotta dal prete Boifava. Questo piccolo corpo volante di 300 uomini al quale si erano aggiunti alcuni terrazzani, aveva avuto incarico dal Comitato per l'insurrezione di impedire le comunicazioni sulla strada per Peschiera, Verona e Mantova, intercettare dispacci del nemico e molestarlo con avvisaglie.

La sera del 21 marzo, fermata una staffetta latrice di dispacci, tradotti questi dal tedesco si rilevò che recavano l'annuncio, essere partito da Verona un grosso convoglio di munizioni per fornirne Brescia e Milano.

Una trentina di giovani animosi, fra i quali Giuseppe Zanardelli, postisi sotto gli ordini di tale Longhena, perchè egli era stato militare, uscirono dalla città alle 11 di sera col determinato proposito d'impadronirsi del convoglio di munizioni tanto utile ai cittadini insorti.

L'ardita, ma non numerosa falange, giunse a Rezzato prima di giorno.

Avvertiti i baldi giovani che il convoglio delle truppe imperiali era prossimo a giungere, si diedero subito a costruire una barricata allo sbocco della via verso Ponte S. Marco, e dopo di avere collocata della gente anche inerme sui balconi e nelle vie per dimostrare che erano in molti a chiudere il passo, presero posto nella barricata, risoluti a tutto.

Non tardò a comparire sulla strada la pesante colonna dei carri custoditi dalle baionette croate.

Il corpo austriaco di scorta agli otto carriaggi carichi di munizioni era di 173 soldati e sei ufficiali; questi accortisi della barricata e degli armati che impedivano il passo si fermarono. Il comandante della piccola squadra bresciana divisò di mandare un parlamentario ad invitare il comandante delle forze nemiche a recarsi a Rezzato per trattare col duce delle forze cittadine insorte. Questi assentì, e quando fu all'ingresso del paese gli fu imposto d'arrendersi, informandolo che ogni resistenza sarebbe stata inutile, perchè Brescia e Milano erano in mano del popolo e le truppe avevano capitolato, l'intero paese insorto, come era insorta la stessa Vienna.

Intanto, durante le trattative erano sopraggiunti altri insorti guidati dal curato Boifava, e il capitano acconsentì di arrendersi; ufficiali e soldati consegnarono le armi e i bravi bresciani preso possesso del convoglio delle munizioni, per vie montane, onde evitare l'incontro di qualche squadrone di cavalleria, si diressero verso Brescia ove giunsero sul fare di sera del giorno seguente accolti dalla cittadinanza con luminarie e grande entusiasmo.

La sera del 21 era stato acclamato Podestà il Soleri che si annunziava alla cittadinanza con un patriottico manifesto.

Il 22 venivano aperti i ruoli per la formazione della Guardia civica.

La mattina del 23 nella contrada degli Orefici, nei pressi di Piazza Vecchia, un pugno di popolani si avventava contro i soldati austriaci di scorta ai carri di legna destinata al riscaldamento delle caserme e del Forte, li disarmava, inseguendoli fino all'accesso del Castello; e disarmava pure alcuni gendarmi incontrati per via. La sommossa si fece allora generale, si abbatterono gli stemmi e le insegne imperiali, e si disarmarono i soldati di picchetto negli ospedali ed in altre località dando ad essi dovunque la caccia.

Il comandante del Forte, Leshke, senza indugio volle ricorrere alle armi dello spavento; e nelle ore pomeridiane fece piombare sulla città un gran numero di bombe, che, se cagionarono qualche rovina alle case, ebbero per effetto di accendere maggiormente l'entusiasmo belligero della cittadinanza; dopo tale preludio mandava un messaggio al Podestà, intimando che se la città non fosse ritornata alla soggezione imperiale, l'avrebbe bombardata ed incendiata. Il Soleri a sua volta domandava tempo per provvedere; ma allo scoccare della mezzanotte, in esecuzione della fatta minaccia, il Leshke apriva dal castello un furioso bombardamento.

 

Questo procedere barbaro, che veniva principalmente a colpire donne e bambini giacenti nel sonno, inasprì i cittadini, che armati si fecero sotto al Castello e rispondevano al bombardamento prendendo a bersaglio i cannonieri nemici al grido "di viva l'Italia, viva il Piemonte."

Quelli del giorno 23 e della notte del 24 marzo furono i primi bombardamenti subiti da Brescia nel 1848.

Intanto sul mezzoggiorno del 20 marzo le ostilità da parte dell'esercito piemontese contro gli austriaci furono riprese, ma le sorti della guerra furono addirittura disastrose per le armi italiane.

Il piano del generale in capo Chzamowsky, non era tale che potesse convenire ad un piccolo esercito, qual era quello potuto mettere assieme dall'eroico Piemonte. Invece di tenere unite quanto più si potesse le nostre forze, esse erano schierate sopra una fronte eccessivamente estesa.

Il generale Lamarmora con una Divisione era stato inviato nella Lunigiana per attraversare l'Appennino con l'obbiettivo di assalire gli austriaci alle spalle sulla sinistra del Po.

Ma qualunque fosse il piano strategico, è certo che il generale Ramorino, che con la Divisione Lombarda fronteggiava il Ticino nella posizione della Cava, ed a cui era stato dato ordine preciso di arrestare la marcia del nemico ove questo avesse passato il Ticino a Pavia, e, come segnale al Comando Generale del passaggio, tirare moltiplicati colpi di cannone; questo generale, contrariamente a tali ordini precisi, non sparò neppure un colpo, non fece atto di resistenza, nè si ritrasse, sopra Sannazzaro e Mortara ove corpi piemontesi avrebbero potuto trovarsi concentrati il mattino del 21 per dargli man forte, appoggiati ad ottime posizioni.

Invece la Divisione senza sparare una cartuccia, si ritirò sulla destra del Po, standosene là spettatrice inerte, anzi accennando a ritirarsi per la volta di Genova.

Dopo un'avvisaglia di avamposti al Gravellone, gli eserciti avversari si trovarono di fronte il 21 presso Mortara. Radetzky con rapide mosse aveva spinto i suoi all'attacco; le truppe piemontesi comandate al centro da Vittorio Emanuele, Duca di Savoia, fecero prodigi di valore, ma gli austriaci soverchianti di uomini riuscirono ad impossessarsi di notte della città; e fu notte di strage in Mortara, perchè si combattè accanitamente per le vie, nelle piazze e nelle case, opponendo i nostri un'indomita e disperata resistenza…

Intanto si combatteva con valore ed onore dalle nostre truppe anche alla Sforzesca; ma i risultati ottenuti furono completamente neutralizzati dalla rotta di Mortara.

Il grosso dell'esercito, con Re Carlo Alberto, nella supposizione che gli Austriaci muovessero da Magenta per transitare il Ticino, stava accampato per attendere il nemico presso Trecate; ma, trovate sgombre le posizioni circostanti, mosse al di qua del fiume, per la via di Milano.

Pur troppo non potè continuare al lungo la sua marcia su terra lombarda, perchè, giunta fra quelle schiere la notizia che l'austriaco già vittorioso proseguiva alle sue spalle minacciando Torino, fu immediatamente ordinata la retromarcia.

Il 23 marzo, l'esercito nostro, forte di cinquantamila uomini e 110 pezzi d'artiglieria, si trovava alle nove di mattino sotto Novara. Alle ore undici il cannone nemico diede il segnale della battaglia. Re Carlo Alberto era al suo posto in prima fila tra i combattenti. Il Crocevia della Bicocca era la chiave della posizione, e gli austriaci in dense colonne diressero tutti i loro sforzi contro di essa. I piemontesi la difesero col coraggio della disperazione; Re Carlo Alberto, ritto sul suo cavallo, nella sua marziale impassibilità, sembrava desiderasse di essere colpito a morte; ma se il Re era risparmiato dalle palle nemiche, quanti gli stavano vicini venivano mietuti e fra altri il generale Perrone, colpito da palla alla testa, e il generale Passalacqua restavano fulminati sul terreno, proprio al fianco di Carlo Alberto.

Tutte le riserve erano state impegnate.

Il Duca di Savoia, dopo avere avuto feriti a morte tre cavalli, appiedato, mantenevasi alla testa degli avanzi dei suoi battaglioni con singolare intrepidezza. Ma l'eroismo non poteva più rimettere le sorti della giornata.

Re Carlo Alberto, testimonio e parte di tutte le fasi della battaglia, cavalcava taciturno e mesto verso la città, incurante dei pericoli che lo circondavano, e giuntovi, di là, muto, contemplava con indicibile dolore la disfatta del suo esercito. Lo si voleva allontanare dal luogo tanto esposto, ma Egli nello schianto del dolore gridava: "lasciatemi morire; questo è l'ultimo giorno della mia vita!" Aveva tanto invocato dal Dio degli eserciti di perdere in quel giorno la vita! ma non fu ascoltato.

La bandiera bianca annunziava la sospensione delle ostilità, cui seguì l'armistizio, e quindi l'abdicazione di Carlo Alberto e l'assunzione al trono del figlio Vittorio Emanuele II.

Tutto era finito! I destini d'Italia non erano ancora maturi! Alle undici della notte, Carlo Alberto, muoveva alla volta di Oporto, per morirvi di lì a pochi mesi, martire di una idea sublime, vittima del dolore!

Il 25 marzo a Brescia, ove nulla si sapeva del disastro toccato alle truppe piemontesi, si procedeva alla nomina del Comitato di difesa nelle persone dei cittadini Cassola e Contratti i quali pubblicarono il seguente proclama

Brescia, 26 marzo 1849.

Cittadini!

La patria è in pericolo!

Ora è il momento, o bresciani, d'agire e di fare conoscere che le vostre promesse non furono millanterie.

Gli armati accorrano davanti al teatro per ricevere la loro destinazione. Chi non ha armi, le donne, i vecchi, i ragazzi si adoperino a costruire barricate alle porte della città.

Uniamo le nostre forze e difendiamoci. Non si tratta che di duemila uomini, con due pezzi d'artiglieria, quasi tutti italiani.

All'armi! All'armi!

Unione, costanza, ordine!

Cassola, Contratti.

Ragione di questo Manifesto al popolo di Brescia era che il Comitato della difesa aveva avuto avviso che la notte del 25 un corpo d'imperiali sotto il comando del generale Nugent, sortito da Mantova, con marcie forzate si dirigeva su Brescia.

Nella città erasi formato un corpo dei più ardimentosi guidati da Tito Speri, capi squadra erano Giuseppe Nullo, Antonio Frigerio, Luigi Castelli, Camillo Biseo, Eligio e Filippo Battaggia. Tutti mossero incontro al nemico prendendo posizione nel borgo di Sant'Eufemia ove già trovavasi il curato Boifava con la sua compagnia, si asserragliarono pure in altre posizioni, atte ad impedire al nemico l'ingresso nella città.

Poco prima del mezzodì gli austriaci aprirono il fuoco, ma gli assalitori vennero coraggiosamente respinti.

Il Comitato ed il Municipio, convinti che la resistenza non poteva durare a lungo, decisero di spedire al generale Nugent una Commissione di cittadini, che si presentò agli avamposti nemici con bandiera bianca.

La Commissione fu ricevuta dal generale; il quale poneva senz'altro per condizione che i bresciani cessassero dalla difesa, deponessero le armi, e distruggessero le barricate perchè egli, per amore o per forza, sarebbe entrato nella città.

Quando si seppe dell'arrogante risposta del generale austriaco, la popolazione proruppe unanime in un sol grido. "Guerra! Guerra!"

Gli austriaci mossero allora all'assalto della città, inoltrandosi fino a San Francesco di Paola; ma i Bresciani usciti da porta di Torre Lunga, giunsero a San Francesco, alle spalle degli austriaci, alle prese con le bande dei nostri, e impegnarono una mischia micidiale.

Il combattimento durò fino alla sera con la peggio degli Austriaci, che, abbandonate le conquistate posizioni, si ritirarono nei loro attendamenti di S. Eufemia.

Così ebbe fine la memorabile giornata del 26 marzo.

Il 27 gli imperiali a mezzodì ripresero le ostilità, si spinsero fino a Rebuffone a poca distanza da Torre Lunga, dove i Bresciani erano appostati alla difesa. Gli Austriaci, piantata una batteria sopra l'erta della Villa Maffei, si diedero a fulminare i bravi difensori, mentre nello stesso tempo il Castello iniziava il bombardamento prendendo i Bresciani fra due fuochi. Ma le cannonate, il bombardamento, gli incendi non sgomentavamo i valorosi Bresciani, che anzi, inaspriti dalla ferocia del nemico, moltiplicarono gli atti di eroismo; tanto che quando videro verso sera rallentare e cessare il fuoco da parte degli imperiali che rientravano nel loro accampamento, gli eroici difensori, comandati dallo Speri, con rapida sortita, si slanciarono sull'inimico ed in breve furono addosso alla retroguardia austriaca facendone strage.

La sera la città era in festa per la felice resistenza opposta al nemico; e il Comitato della difesa pubblicava il seguente manifesto.

Cittadini!

Il vostro nome alla posterità è assicurato. Il nemico trovasi nell'avvilimento, perchè gli imponenti mezzi di guerra coi quali credeva atterrirvi, non hanno fatto che accrescere il vostro entusiasmo.

Ormai ha consumato tutti i suoi mezzi guerreschi, e quindi non dovete fare altro che dar compimento alla vittoria nello stesso modo che l'avete cominciata.

Italia tutta farà plauso a tanta prodezza.

Ordine, Costanza, Unione!

Brescia il 27 marzo ore 6-1/2 pomeridiane.

Cassola, Contratti.

Per dire degli episodi, degli atti di eroismo compiuti dai Bresciani nei giorni successivi 28, 29, 30, 31, non basterebbe un intero volume. Basti affermare che tutti gli sforzi fatti dal Nugent con ben 3500, uomini per impossessarsi di Brescia o per costringerla alla resa furono inutili. Vista la sua impotenza, fu obbligato a chiedere rinforzi, e questi non tardarono a giungere condotti da un ben formidabile avversario, tristamente conosciuto dai Bresciani.

Il 31 marzo giungeva infatti, per espugnare l'eroica Brescia, il tenente maresciallo Haynau con una intera divisione – e ben presto diede sue nuove col seguente dispaccio: n. 152 – Dal 2o I. R. Comando del Corpo d'Armata.

Alla Congregazione Municipale della Città di Brescia.

"Notifico alla Congregazione Municipale che io alla testa delle mie truppe mi trovo qui, per intimare alla città di arrendersi tosto e senza condizioni.

"Se ciò non succederà fino a mezzogiorno, se tutte le barricate non saranno interamente levate, la città sarà presa d'assalto, e saccheggiata e lasciata in balia a tutti gli orrori della devastazione.

"Tutte le uscite dalla città verranno occupate dalle mie truppe ed una resistenza prolungata trarrà seco la certa rovina della città.

"Bresciani! Voi mi conoscete, io mantengo la mia parola!

"Il Comandante delle truppe stanziate all'intorno della città di Brescia.

Il Tenente Maresciallo
Haynau.

Non è a dire quanto la lettura di questo dispaccio rinfuocasse gli animi.

Il Municipio mandò subito per il Comitato che pronto accorse all'adunanza.

Richiesto del suo parere il Comitato dichiarava doversi risolutamente resistere.

La maggioranza degli adunati, pur non dissentendo dalla resistenza, deliberava però di mandare deputati all'Haynau per ottenere una proroga di tempo onde si potessero prendere ponderate risoluzioni.

Come ambasciatori si offersero i cittadini Lodovico Borghetti, Pietro Pallavicini, Paolo Barucchelli e il Nobile Girolamo Rossa, alla patria devotissimi. Così composta, e fiancheggiata da due gendarmi e preceduta da bandiera bianca l'ambasceria verso le 10 si avviava per il Castello.

I messaggeri trovarono l'Haynau inflessibile. Ho detto a mezzogiorno.

Ed alle vive rimostranze degli inviati, per grazia dichiarava che avrebbe aspettato fino alle due pomeridiane.

Dell'ultimatum del Maresciallo austriaco fu data partecipazione al popolo dal balcone del Palazzo Comunale. E la risposta del popolo Bresciano fu quale doveva essere: Guerra! Vogliamo la guerra!

Quella del Podestà fu dunque – All'armi Bresciani! all'armi!

Allo scoccar delle due, tutte le campane della città, come se fossero mosse da un sol uomo e tocche da uno stesso martello, si diedero a suonare a stormo gloriosamente. Questa era la risposta che i bresciani mandavano all'Haynau.

Il nemico aveva intanto circondato con forze numerose la città e piantate sulle alture batterie di cannoni e di mortari coll'ordine che quando le artiglierie dal Castello avessero dato il segnale, tutte le batterie facessero fuoco.

 

E alle tre, tanto dal Castello che dalle batterie circostanti, s'incominciò senza interruzione a vomitare bombe e palle incendiarie; tutte le campane della città suonavano a stormo, chiamando il popolo alla resistenza.

L'Haynau aveva stabilito di dare alla città un assalto generale; ordinava quindi le sue genti in modo che tutta la circuissero, per dividere così le forze dei difensori e rendere più debole la resistenza.

A questo scopo sul ripiano del poggio Maffei dove stava la brigata Nugent, aveva fatto piazzare una batteria, che batteva direttamente la barriera di Torre Lunga, ove dovevano essere diretti i maggiori sforzi. Infatti essa fu presa a fulminare con fuoco mai interrotto e con colpi così ben diretti, che presto l'intera trincea ne fu squarciata, costringendo i difensori ad abbandonarla, ed a ritirarsi al ridosso della barricata che formava la seconda linea di difesa. Tennero loro dietro i nemici, che tentarono di entrare con essi in città, ma furono valorosamente respinti lasciando molti di essi sul terreno.

Non cessava intanto il tuonare dei cannoni e dei mortari dal di fuori, mentre le bombe ed i razzi piovevano dal Castello; ma non per questo ritiravansi i difensori, che sempre capitanati dallo Speri, combattevano con tanta valentia e costanza, da tornare ad onore anche dei più esperimentati e disciplinati veterani.

L'Haynau aveva ordinato che un battaglione di croati, di notte appostato, scendesse giù per la china del colle ed a forza occupasse le vie che conducevano al centro della città. Furono però accolti, mentre discendevano con una tempesta di fucilate, sì da essere obbligati a sostare e a dare indietro; ma poi riordinati, assalirono i nostri con fuoco ben nutrito e così ben diretto che i difensori furono obbligati ad abbandonare la trincea più avanzata, posta alla svolta della china del Castello, non solo, ma poi dopo altra eroica difesa, furono costretti a ritirarsi anche dalla barricata che custodiva la svolta di S. Urbano; ed infine anche dall'ultima di via della Consolazione. Gli imperiali alla carica, sorpassando le barricate, sgombrando impedimenti si precipitarono nella piazza dell'Albero. Là i Bresciani li attendevano alla posta, dalle finestre, dai tetti, dagli sbarramenti che chiudevano il passo all'interno della città, vennero accolti con una salva di fucilate, tanto che ben pochi ebbero salva la vita; ma una fiumana di altri croati serrati in colonne giù per quella stretta impediva ai primi di dare indietro; tanto che alla disperata mancando loro ogni scampo, fecero testa, e s'avventurarono risoluti contro le trincee per forzare il passo; ma ancora un fuoco micidiale a bruciapelo li accolse, e più che decimati, dovettero arrestarsi e dare indietro.

L'Haynau che dal Castello vedeva lo scempio che i difensori facevano dei suoi ordinava al Colonnello Milez di accorrere in aiuto con buon nerbo di forza; ma appena sboccato sulla piazza il Milez stesso, che stava alla testa dei suoi, colpito da palla al cuore cadeva morto; i suoi soldati allora sostarono indecisi; prendendo il momento i bravi bresciani saltarono dai ripari, e slanciandosi sul nemico l'assalirono a colpi di baionetta, di daghe, di stocchi, di coltelli. Non ressero gli austriaci, ma si diedero alla fuga, abbandonando armi e feriti.

La piazza dell'Albero a ricordo di tanto valore fu poi nominata Piazza del 1849. In quel giorno 31 marzo correva a rivi il sangue e i cadaveri vi giacevano ammonticchiati.

Però in altri punti alcuni quartieri della città furono invasi dal nemico come Torre Lunga, S. Urbano, S. Alessandro, e l'incendio, il saccheggio, gli orrori di città presa d'assalto, incominciarono nelle tenebre con tutti i suoi atti brutali.

Il primo aprile dalla parte del Castello, appoggiati dalle artiglierie, gli Austriaci discesero in città, investendo e rompendo tutti gli ostacoli che trovavano sui loro passi, giungendo alle spalle dei difensori della barricata della Piazza dell'Albero, teatro del micidiale combattimento del giorno innanzi, occupando il palazzo del governo, del Broletto, massacrando ed abbruciando quanti si paravano a loro dinanzi, gettando dalle finestre, e dai tetti quante persone si trovavano nelle case. Lo stesso avveniva nel quartiere di San Nazzaro e a porta S. Giovanni.

Era tempo di pensare seriamente ai casi della patriottica città, ridotta agli estremi, e minacciata di distruzione.

Alle 10 antimeridiane il Municipio riceveva le dimissioni del Comitato di difesa. Bisognava senza perdita di tempo mandare all'Haynau una deputazione per trattare la resa. Fu incaricato il padre Maurizio da Brescia, che fu accompagnato dal padre Ilario da Milano e dal cittadino Pietro Marchesini.

I patti della resa furono con molto stento convenuti.

La mattina del 2 aprile entrate le soldatesche austriache in città, il Maresciallo Haynau emanava due bandi. Col primo imponeva alla città una taglia di 300,000 lire, destinate a compenso e a premio degli ufficiali – più imponeva alla città e provincia una multa di sei milioni di lire.

Così ebbe fine la lotta gloriosa di Brescia sostenuta per 10 giorni con subblime eroismo.

I tempi intanto incalzavano e la reazione divampava.

Il 6 aprile Catania dopo eroica difesa cadeva nelle mani sanguinarie del borbonico Filangeri; il 12 la reazione lorenese restaurava in Toscana il granduca; il 20 Filangeri era minaccioso alle porte di Palermo; finalmente il 21 aprile salpava da Tolone la spedizione francese per Roma.

L'ultima di queste notizie sorprese Garibaldi ad Anagni dove era arrivato il giorno precedente.

Il 24 aprile l'avanguardia, il dì appresso tutto il corpo di spedizione comandato dal generale Oudinot, portato da dieci navi, forte di ben dodicimila uomini, di sedici pezzi da campagna e di sei di assedio, gettava l'ancora nelle acque di Civitavecchia.

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