La Vicina Perfetta

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CAPITOLO SETTE

Quando Garland fu arrivato in cima alla collina, il sole era già tramontato.

Mentre percorreva la strada ormai familiare fino a Manhattan Beach, poteva ancora vedere l’oceano dove le onde si infrangevano in prossimità della spiaggia. Ma non aveva proprio la stessa maestosità della sera precedente, quando il crepuscolo stava solo iniziando a calare.

Si disse che non aveva importanza, che era tornato qui per la seconda sera di seguito per un’indagine, non per il panorama. Ma non ne era del tutto convinto neppure lui. Sì, qualcosa nella scena del crimine gli stava rodendo dentro. Però la verità era anche che stava cercando una scusa per fare due passi lungo le ventilate strade della spiaggia per surfisti, con i loro ristorantini con veranda e i negozi per la degustazione vini.

Trovò un parcheggio vicino alla strada principale e scese dall’auto, percorrendo la Highland Avenue fino alla stazione di polizia. Strada facendo, poté sentire un odore che assomigliava a costolette arrosto provenire a un ristorantino all’angolo. Passò accanto a una bancarella con stampe neozelandesi e indiane e resistette all’impulso di mettersi a curiosare.

Andò invece dritto fino al quartiere della centrale, dove diede il proprio nome al sergente al banco. L’agente Timms della sera precedente uscì dall’ufficio e gli diede la chiave della casa di Charles e Gail Bloom, dove Priscilla era morta.

“Posso venire con lei, se vuole,” si offrì il giovane agente. “Ho il turno di notte e qui le cose sono piuttosto tranquille.”

“Grazie,” rispose Garland. “Ma a volte mi piace stare da solo sulla scena, senza nessuna distrazione. Trovo che mi sia di aiuto per scoprire cose che prima mi sarebbero potute sfuggire. Ma prometto di restituire la chiave tra poche ore.”

Dopo aver lasciato la centrale, Garland passeggiò casualmente scendendo il ripido viale pedonale che conduceva alla Strand. A quell’ora, quasi le nove di sera, era per lo più tranquillo. C’era qualcuno che faceva jogging e alcune persone che portavano fuori il cane per l’ultima uscita prima della notte. In effetti dovette aggirare la scia di urina lasciata da un canide particolarmente negligente.

Percorse lentamente l’ultimo isolato fino alla casa dei Bloom, ascoltando il rumore delle onde e il richiamo dei gabbiani. Sapeva che una volta entrato in quella casa, il suo cervello sarebbe partito in quarta e tutti i piccoli piaceri che ora stava apprezzando sarebbero stati immediatamente dimenticati. Stava solo tentando di ritardare l’inevitabile.

Quando arrivò, scivolò sotto al nastro di delimitazione della polizia, assicurandosi di restare nell’ombra in modo che il recente vedovo Garth Barton non lo vedesse se per caso stesse guardando fuori dalla finestra. Solo perché era stato scagionato, non voleva dire che quell’uomo non fosse uno stronzo. Garland era felice che fosse la polizia del posto a farsi venire il mal di testa trattando con lui.

Aprì la porta ed entrò. La casa era buia, anche se ancora si vedeva il segno del gesso a indicare dove si era trovato il corpo di Priscilla Barton. Guardando quel punto, ricordò la conversazione che il detective Hernandez aveva detto di aver avuto quella mattina con i proprietari.

Era sorprendente che neanche la notizia di una donna morta nel loro foyer bastava a farli tornare dalla loro vacanza. Purtroppo, con loro e il marito della vittima eliminati dall’elenco dei sospettati, attualmente stavano sbattendo contro un muro. Ecco perché era venuto qui: per trovare un nuovo punto di vista.

Fece un giro di perlustrazione al piano terra prima di salire di sopra, motivo principale per cui era tornato. C’era qualcosa che lo aveva preoccupato per tutto il giorno, ma non aveva capito cosa fosse fino a che non si era trovato in auto, diretto verso casa. Quando si era reso conto di cosa fosse, era ormai quasi rincasato. Invece di continuare, aveva girato la macchina verso sud per tornare alla villa dei Bloom. Strada facendo aveva chiamato il Dipartimento di Polizia di Manhattan Beach per dire loro che intendeva dare un’altra occhiata alla scena, e loro gli avevano assicurato che alla centrale avrebbe trovato la chiave ad aspettarlo.

In cima alle scale, accese la sua piccola torcia e imboccò il corridoio fino alla camera matrimoniale. Dopo essersi permesso un momento per osservare la grande stanza con il letto a baldacchino, si spostò verso quello che immaginò essere il comò di Gail Bloom. Anche se si sentiva un po’ un pervertito, si infilò i guanti e aprì il primo cassetto, che ipotizzò contenere la biancheria intima della donna. A volte il lavoro richiedeva azioni insolite.

Spostò il fascio di luce della torcia verso il cassetto e rovistò delicatamente tra la biancheria della donna. Dopo un’attenta ispezione, tirò fuori il telefono per controllare di nuovo quella che sembrava essere l’arma del delitto usata su Priscilla Barton: una calza. La marca, chiama Only the Best, era molto costosa, come aveva appreso facendo delle ricerche online.

Ma guardando nel cassetto di Gail Bloom, non trovò nessun paio di calze di quella marca, né altre calze in generale, tra l’altro. E quindi non ne vide neppure nessuna di spaiata, né nel cassetto, né sopra al comò. Si accucciò a terra per vedere se fosse magari caduta sotto al mobile, ma non trovò nulla.

Tirò fuori il suo bloc notes e annotò brevemente la sua conclusione: i Bloom non sembravano essere in possesso di quelle calze. Quella era un’informazione strana e potenzialmente utile. Se la calza non era della padrona di casa, allora l’assassino non l’aveva presa al volo usandola come arma improvvisata. Lui o lei doveva essersela portata in casa.

Ma perché? Chi se ne andava in giro con una singola calza da donna?

I suoi pensieri vennero interrotti da una tavola scricchiolante dietro di lui. Garland si infilò lentamente il bloc notes in tasca e si alzò in piedi lentamente, anche se i suoi pensieri stavano correndo selvaggiamente. Poteva sentire il rumore di un pesante e soffocato respiro a pochi passi da sé, e riusciva effettivamente anche a percepire il calore corporeo di un’altra persona all’interno della stanza. Strinse con forza la piccola torcia, ben consapevole che si trattava dell’unica cosa simile a un’arma in suo possesso.

Cercò di ricordare l’addestramento dei giorni trascorsi da giovane all’FBI, ma erano passati più di quarant’anni. La cosa più vicina a un alterco fisico che gli fosse capitata recentemente era quando un ragazzo con lo skateboard lo aveva fatto cadere per terra l’anno scorso mentre gli sfrecciava accanto sul marciapiede.

Alla fine Garland decise di far fare il lavoro all’adrenalina e all’istinto. Ma non intendeva aspettare che lo attaccassero. Quindi, alla rapidità che gli era concessa dalle sue ossa doloranti, ruotò e puntò la torcia in direzione del pesante respiro.

Vide immediatamente il suo assalitore, che indossava abiti neri e un passamontagna e teneva una cintura di pelle in mano. Anche se il volto non era visibile, la struttura suggeriva che fosse un uomo. Garland fece un passo verso l’uomo, che alzò una mano per schermare la luce e si lanciò in avanti. Sbatterono con forza l’uno contro l’altro, ma il vantaggio di peso dell’uomo spinse Garland con la schiena contro il comò. I suoi occhiali volarono via. Sentì gli spigoli del comò che sbattevano contro la sua schiena e sbuffò.

Cercò di ignorare il dolore e si concentrò sulla figura, che si stava di nuovo lanciando velocemente contro di lui. Mentre l’uomo correva in avanti, Garland spostò la torcia verso l’alto, colpendolo sul lato sinistro del busto, subito sotto alla cassa toracica. L’avversario inspirò con forza, piegandosi a metà e permettendo così a Garland di spingerlo a terra.

Poi l’anziano detective lo aggirò e scattò verso la porta della camera da letto. Anche da quella breve distanza, tutto gli sembrava appannato senza occhiali. A tre passi circa dal corridoio, sentì una mano che si stringeva con forza attorno alla sua caviglia destra, tirando indietro e facendogli perdere l’equilibrio. Cadde sul pavimento. Con il tonfo sentì uno scricchiolio e un dolore lancinante all’anca destra. Nonostante tentasse di trattenersi, gridò.

Cercò comunque di ignorare il dolore bruciante. Voleva rotolare in modo da non trovarsi in una posizione così vulnerabile, ma il suo corpo non gli obbediva. Fece invece l’unica cosa che gli venne in mente. Cercò di strisciare fuori dalla stanza. Ma subito sentì il peso dell’altro uomo che gli montava sopra, bloccandolo all’altezza della vita.

Il disagio fisico era insopportabile e le ondate di dolore si irradiavano dall’anca. Ma quello non era niente confronto alla stretta di paura che gli stava ora avvolgendo il corpo intero. C’era un uomo sopra di lui, con una cintura in mano, e lui non poteva farci fisicamente niente.

Ebbe un brevissimo attimo di consapevolezza, pensando che stava vivendo lo stesso momento di terrore provato da tantissime delle vittime che aveva visto. Poi, decidendo di non volersi unire a loro, smise di lottare per fuggire e spinse invece la fronte contro la moquette e tirò i pugni contro il proprio collo per proteggerlo preventivamente.

Un attimo dopo sentì la cintura che roteava sopra alla sua testa, sentì l’uomo che tentava di farla passare tra la sua fronte e la moquette per mettergliela attorno al collo. Il movimento gli sbucciò un po’ la pelle della fronte, ma ignorando il dolore Garland allargò le mani strette a pugno e afferrò la cintura in modo da creare una barriera tra essa e la sua gola.

L’uomo sopra di lui parve non curarsene. Tirò con forza così che le nocche di Garland si trovarono schiacciate contro il suo pomo d’Adamo, facendolo annaspare per respirare. L’odore dei suoi guanti in lattice gli riempì le narici. Inspirò come poté e tentò di tenere la cintura un po’ allentata mentre pensava a qualcosa da fare.

 

Si guardò attorno disperato. Tutto sembrava indistinto. Eppure doveva esserci qualcosa lì vicino da poter afferrare, o una qualche manovra da provare. Doveva esserci un qualche modo per ingannare il suo aggressore. Quarantacinque anni a fermare assassini non potevano concludersi così.

Ma non c’era nulla: niente da prendere, nessun modo di poter gridare. Era incastrato. Sarebbe morto su quella moquette, in quella casa, a pochi metri da persone che aspettavano che i loro cagnolini facessero i loro bisogni in modo da potersene andare a letto. Non aveva nessuna opzione.

Ma mentre il suo pensiero si faceva più affaticato e i suoi pensieri più appannati, si rese conto che non era del tutto vero. Poteva anche non sopravvivere a questo, ma poteva fornire un indizio su chi fosse il colpevole. Il detective Ryan Hernandez avrebbe di sicuro indagato sulla sua morte, e se l’avesse fatto si sarebbe consultato con Jessie Hunt. Se Garland poteva fornire un indizio sul colpevole, Jessie lo avrebbe potuto scoprire. Se c’era qualcuno che poteva farlo, era lei.

Quindi decise di fare l’unica cosa che gli venne in mente. Premette il corpo in basso verso la moquette con più forza possibile, creando spazio tra il proprio corpo e quello dell’uomo sopra di lui. Poi, quando sentì che il suo aggressore tirava al massimo della sua forza, smise di lottare e gli permise di farsi tirare indietro la testa in modo aggressivo.

Aveva sperato di poter colpire il volto dell’uomo, di lasciargli un livido visibile. Invece sentì che la sua nuca andava a sbattere contro qualcosa di duro ma meno prominente. Udì uno scricchiolio. L’uomo gemette e allentò leggermente la presa. Garland immaginò si trattasse della clavicola.

Per una frazione di secondo fu tentato di cercare di divincolarsi, ma sapeva che non avrebbe avuto alcun effetto. L’altro uomo era già in vantaggio. Usò invece quella brevissima pausa per prendere un’altra boccata d’aria e dare un’altra testata indietro. Il grido dell’uomo gli fece capire che era andato a segno un’altra volta.

Ma poi l’uomo parve trovare una nuova riserva di forza e furia. Garland sentì la cintura che lo stringeva con maggior forza di prima e scoprì di non poter più fare leva con i pugni. In realtà poteva sentire il sangue che pompava nella carotide mentre la cintura premeva contro il dorso delle sue mani. Un altro strattone violento gli schiacciò la trachea e lui sentì il suo respiro diventare roco.

Tutt’a un tratto notò che il dolore all’anca, alla schiena, alle mani e alla gola stava svanendo. Si chiese da cosa potesse derivare. E poi, con un ultimo pensiero coerente, gli venne in mente: stava perdendo conoscenza per quella che sarebbe stata la sua ultima volta.

CAPITOLO OTTO

Jessie si mise seduta di scatto sul letto.

Il rumore del telefono di Ryan che suonava l’aveva strappata alla migliore notte di sonno che avesse avuto in settimane. Riconobbe subito la suoneria. Era il capitano Decker. Guardò la sveglia posata sul comodino. Erano le 2:46. Perché il capitano della loro centrale chiamasse a quell’ora del mattino, doveva essere successo qualcosa di davvero grave.

“Pronto,” disse Ryan dopo aver rovistato con il telefono per diversi secondi.

Jessie poteva sentire la voce di Decker, ma il capitano parlava più sottovoce del solito, impedendole di distinguere una sola parola. Jessie notò però che il corpo di Ryan si irrigidì visibilmente.

“Ok,” disse lui sommessamente, accendendo la luce e mettendosi a sedere.

Decker continuò a parlare per un altro mezzo minuto mentre Ryan ascoltava senza mai interromperlo.

“Certo,” disse alla fine, e poi riagganciò.

“Cosa c’è?” chiese Jessie.

Ryan si alzò dal letto, dandole le spalle mentre si infilava i pantaloni.

“C’è stato un altro omicidio a Manhattan Beach,” disse sottovoce, “nella stessa casa di quello precedente, a dire il vero. Decker vuole che vada lì subito.”

C’era nella sua voce qualcosa che Jessie trovò disturbante, anche se non era in grado di interpretarlo. Sembrava stesse facendo fatica a mantenere la sua compostezza.

“Cosa sta succedendo, Ryan?” gli chiese. “Ti stai comportando in modo strano.”

Lui si voltò a guardarla e Jessie ebbe l’impressione che i suoi occhi fossero lucidi. Sembrava sul punto di rivelarle qualcosa, ma poi la sua espressione mutò e lei capì che aveva cambiato idea.

“Mi sa che sono solo fuori forma. Non mi aspettavo di essere svegliato nel mezzo della notte con questo genere di notizia. Non era quello che speravo.”

Ebbe ancora l’impressione che le stesse nascondendo qualcosa, ma non insistette.

“C’è niente che posso fare per aiutarti?”

“Grazie, ma no. Dovresti tentare di tornare a dormire. La cosa migliore che puoi fare in questo momento è prenderti cura di te.”

“Ok,” disse lei prima di chiedere: “Garland ti viene incontro lì?”

Ryan mandò giù una grossa sorsata d’acqua dal bicchiere sul comodino prima di risponderle.

“È già lì,” le disse, alzandosi in piedi.

“Piuttosto impressionante per un vecchietto,” commentò lei, incapace di nascondere il proprio stupore. “Quell’uomo è pieno di sorprese.”

“È un bel tipo,” confermò Ryan mentre si chinava su di lei per darle un bacio sulla fronte. “Cerca di tornare a letto. Ci sentiamo domani mattina.”

“Ti amo,” disse Jessie mentre si sdraiava di nuovo.

“Anch’io ti amo,” le rispose lui sottovoce spegnendo la luce sul comodino e uscendo.

Nonostante l’ammonizione di Ryan, Jessie non riuscì a prendere sonno. Per i venti minuti successivi, si agitò e rigirò, ma non fu capace di trovare una posizione comoda. Qualcosa nell’atteggiamento di Ryan quando aveva ricevuto la telefonata continuava a ritornarle alla mente.

Quando stava ascoltando la telefonata di Decker, Ryan aveva assunto un’espressione che lei non gli aveva quasi mai visto in volto. Non era semplice shock o tristezza. Era una combinazione che sembrava più grande e molto più profonda. E poi le venne in mente. Per un secondo, prima di riuscire a ricomporsi, le era apparso devastato.

Si mise a sedere. Ora era impossibile che potesse riaddormentarsi. Andò in bagno e si spruzzò il viso di acqua fresca. Fissando la propria immagine nello specchio, fu contenta di vedere che i suoi occhi non erano cerchiati dal classico rossore della stanchezza. Ovviamente questo sarebbe presto cambiato se fosse rimasta in piedi tutto il giorno a partire da adesso, come sembrava essere il caso.

Tornò al letto e si risedette. La sua mente continuava a tornare all’espressione di Ryan quando Decker aveva iniziato a parlargli. Qualsiasi cosa il capitano gli avesse detto, riguardava qualcosa di orribilmente sbagliato.

Jessie prese il telefono e stava per chiamare Garland quando ci ripensò. Ryan le aveva detto che si trovava già sulla scena del crimine. Questo significava che probabilmente era molto impegnato e sicuramente non dell’umore per dare delle risposte alle sue domande. Chiamò invece la reception della stazione centrale, dove il sergente di turno le diede l’indirizzo di Manhattan Beach.

Senza neanche riconoscere formalmente a se stessa quello che stava facendo, iniziò a vestirsi. Cinque minuti dopo era pronta per partire. Scribacchiò un rapido appunto per Hannah e fece scivolare il bigliettino sotto alla porta della sua camera. Poi uscì di casa, assicurandosi di attivare tutti i sistemi di sicurezza da remoto mentre si dirigeva verso la sua auto.

Sapeva che Ryan e Garland si sarebbero incazzati vedendola apparire così e intromettersi sulla scena del crimine. Ma non le interessava. C’era qualcosa che non andava. Se lo sentiva nelle ossa.

*

Pur perdendosi un poco, Jessie arrivò alla spiaggia in un batter d’occhio. Ma alle 3:30 del mattino ci voleva comunque la metà del tempo, anche sbagliando l’uscita e dovendo tornare indietro di un tratto. Le strade erano per lo più silenziose. Mentre si avvicinava alla costa, una spessa coltre di nebbia calò attorno a lei, facendo assomigliare i lampioni a delle soffuse lanterne di un isolato faro. Il loro bagliore donava allo scenario un’atmosfera piuttosto tetra.

Quando arrivò, Jessie parcheggiò in Manhattan Avenue, subito a ovest del molo e a un isolato circa da dove il GPS le indicava l’indirizzo di destinazione. Percorse a passo rapido la Strand. Anche se a quell’ora del mattino non poteva vedere l’oceano, si sentivano le onde che si infrangevano sulla spiaggia vicina.

Non dovette cercare molto o sforzare la vista per trovare la sua destinazione. Quando fu sulla Strand, anche con la nebbia il cielo era rischiarato dalle luci di diversi veicoli di emergenza. Mentre si avvicinava alla casa, Jessie contò almeno mezza dozzina di auto della polizia, un’ambulanza e il furgoncino del medico legale. L’intera area attorno alla villa era pattugliata da diversi agenti che stavano di guardia, evitando che eventuali curiosi si avvicinassero troppo.

Jessie si avvicinò a un giovane agente dal volto spaventato e mostrò il proprio cartellino, immaginando che fosse il modo più semplice per passare la barriera.

“Lavoro con il detective Hernandez,” disse in modo vago. “Puoi dirmi dove si trova?”

“È di sopra,” disse l’agente. Anche se non l’aveva mai incontrato, Jessie ebbe l’impressione che il giovane fosse piuttosto scosso. Guardò il suo cartellino identificativo.

“Tutto bene, agente… Timms?”

“Si, signora,” le assicurò lui, ricomponendosi. “È solo che avevo conosciuto la vittima. Mi piaceva. E poi sono stato io a trovarlo.”

“Capisco,” disse Jessie, dandogli una pacca amichevole sulla spalla. “Non è mai facile quando c’è un collegamento personale.”

“No, signora,” disse lui, sollevando il nastro di delimitazione per farla passare sotto.

“Come ti è capitato di trovare la vittima così a notte fonda?”

Si rese conto che la domanda suonava accusatoria, anche se non aveva voluto porla con quell’intenzione.

“Avrebbe dovuto restituire le chiavi dopo qualche ora. Non vedendolo tornare, sono venuto a dare un’occhiata e…” Cedette, sopraffatto dall’emozione.

Jessie avrebbe voluto chiedere perché qualcuno avrebbe dovuto restituire una chiave alla polizia così a notte fonda, ma capiva che il ragazzo non era nella condizione di risponderle, quindi lasciò perdere.

“Grazie per il tuo aiuto, agente,” gli disse. Incapace di pensare a nient’altro da dire per confortarlo, si girò e si diresse verso la casa.

Mostrò il proprio cartellino anche all’agente che stava di guardia alla porta. Lui si fece da parte per farla entrare. Jessie guardò il pavimento del foyer e vide il contorno tracciato con il gesso dove si era trovata presumibilmente la prima vittima. Sollevò poi lo sguardo verso la sommità delle scale, da dove sentiva provenire diverse voci. Una di esse sembrava quella di Ryan.

Iniziò a salire le scale, quando un altro agente che si trovava alla base delle stesse e che sembrava essere un sergente alzò una mano. Diversamente dall’agente Timms, questo sembrava più anziano ed esperto.

“Posso aiutarla, signora?” chiese con gentilezza ma allo stesso tempo con tono duro.

“Lavoro con il detective Hernandez,” disse Jessie, mostrando per la terza volta le proprie credenziali.

“Gli faccio sapere che è qui,” disse il sergente, il cui cartellino diceva ‘Breem’, senza però spostarsi.

“Sento la sua voce,” disse Jessie con tono più irritato di quanto avrebbe voluto. “Posso farglielo sapere io quando arrivo di sopra.”

“Mi spiace, signora. Il detective Hernandez è stato chiaro quando ha ordinato che nessuno deve salire senza la sua esplicita autorizzazione. Vuole che le cose siano fatte in modo estremamente meticoloso in questo caso.”

“Fa così con tutti i casi,” rispose Jessie con vigore.” Cos’è che rende diverso questo?”

L’agente la guardò perplesso. Aprì la bocca per risponderle, ma prima che potesse parlare, una voce familiare la chiamò dal piano superiore.

“Jessie?” disse Ryan guardando dal pianerottolo. “Cosa ci fai qui?”

Lei alzò lo sguardo e capì immediatamente che era turbato da qualcosa che non era per niente connesso alla sua presenza lì. Mentre lo fissava, un senso di timore iniziò a pervaderla. Scattò su per le scale prima che il sergente Breem potesse fermarla. L’uomo fece per seguirla, ma vide Hernandez scuotere la testa.

“Va tutto bene, sergente,” gli disse.

“Cosa sta succedendo, Ryan?” chiese Jessie sottovoce, quando lo ebbe raggiunto in cima alle scale.

“Devo parlarti privatamente fuori di qui,” sussurrò lui.

“No. Cosa sta succedendo? Dov’è Garland?” chiese, passando oltre e guardando dentro alla camera da letto.

 

Sbatté le palpebre lentamente, sperando che ciò che stava vedendo sul pavimento della stanza fosse un’illusione. Ma quando riaprì gli occhi, era ancora lì. Tra il medico legale e un tecnico addetto alla scena del crimine, era steso Garland Moses. Morto.

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