La corona dei draghi

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Из серии: L’era degli stregoni #5
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CAPITOLO QUINTO

Greave fissava impaziente la costa del Regno del Nord che diventava man mano più visibile. Sospettava di essere un uomo diverso da quando se n’era andato, e non solo perché i suoi lineamenti delicati erano ora abbrutiti da una barba scura, i suoi capelli bruni erano stati increspati dal vento o la sua corporatura esile si era un poco irrobustita per lo sforzo del viaggio.

Sospettava che neanche la sua stessa famiglia lo avrebbe riconosciuto, nonostante alla fine il marinaio dietro di lui lo avesse fatto. Non aveva mai pensato che avrebbe provato tanta gioia alla vista di casa sua, né tanta preoccupazione. Molte cose erano cambiate da quando era partito, sempre che quello che sosteneva il marinaio che lo stava guidando verso casa fosse attendibile.

Aveva visto con i suoi occhi l’inizio dell’invasione ad Astare. Se Royalsport era ridotta così… allora doveva fare qualcosa al riguardo. Era partito per cercare di salvare sua sorella e aveva ancora gli strumenti per farlo, infilati in una fiala nella sua cintura. Ora, però, c’erano altre persone da salvare, e Greave non era sicuro di avere le capacità per riuscirci.

“Quanto ci vorrà prima di raggiungere la terraferma?” domandò all’uomo, che stava in piedi con una mano determinata sulla barra.

“Non manca molto. Siete sicuro di non voler tornare sull’isola?”

Greave non poteva negare di essere tentato da quell’idea. L’isola sulla quale era approdato con la sua zattera di fortuna offriva cibo, acqua e riparo a sufficienza per sopravvivere a tempo indeterminato. Sarebbe stata la cosa più facile, la cosa più sicura; rimanere lì e far cessare la guerra, tornando indietro quando fosse tutto finito.

Questo avrebbe significato abbandonare tutti quelli che amava, però. Le sue sorelle, Aurelle…

Il suo nome si insinuò nei suoi pensieri senza che lui lo volesse. Nonostante il modo in cui lo aveva tradito, nonostante fosse stata mandata a ucciderlo, non poteva reprimere l’ondata d’amore che accompagnava il pensiero di lei. No, doveva focalizzarsi sugli altri, sulla sua famiglia.

Guardò la costa avvicinarsi all’orizzonte. Il marinaio condusse l’imbarcazione in un’insenatura appartata, dove vi era un sentiero scosceso che portava verso l’alto. Greave sentì la barca graffiarsi sulle pietre sottostanti e saltò giù, grato di avere di nuovo il terreno sotto i piedi. Si voltò, mettendo le mani sulla barca, pronto ad aiutare a spingerla via.

“Grazie per il passaggio,” disse al marinaio. “Grazie per avermi portato a casa.”

“Non ringraziatemi,” replicò l’uomo. “Probabilmente vi ho riportato alla morte.”

“Comunque,” aggiunse Greave. “Se riusciremo entrambi a superare tutto questo, cercami, e farò in modo che tu sia ricompensato per l’aiuto che mi hai dato. Io mantengo ogni mia promessa e restituisco sempre un favore.”

“Non siete troppo lontano da Royalsport adesso,” replicò il marinaio. “Andate verso l’entroterra e presto troverete una strada. Poi dirigetevi a sud e vi arriverete in un giorno o due.”

Greave annuì e aiutò l’uomo a spingere la barca lontano dalla costa di shale; il marinaio iniziò a remare indietro, abbastanza da poter usare di nuovo la vela. Greave lo guardò allontanarsi e poi si voltò, determinato ad avvicinarsi quanto più possibile a Royalsport prima del tramonto.

Si arrampicò lungo un viottolo che partiva dalla riva e si ritrovò su un altopiano erboso in cima a una piccola scogliera. C’erano alberi e campi in lontananza, e qualcosa che avrebbe potuto essere un piccolo sentiero un po’ più in là. Greave si avviò in quella direzione, ragionando che probabilmente era la sua occasione migliore per trovare una strada più grande, e poi un percorso per Royalsport e la sua famiglia.

Non era sicuro di cosa avrebbe fatto una volta arrivato, quindi iniziò a riflettere sulla questione. La sua mente era sempre stata la sua più grande risorsa; era riuscito a ricreare una cura per la malattia a squame su un’isola senza risorse. Se aveva fatto una cosa simile, avrebbe senz’altro risolto anche questo problema.

Non era un problema, però; era una guerra, un’invasione.

No, disse fra sé e sé. Non aveva importanza; o meglio, era troppo grande e travolgente per lasciare che ne avesse. Se avesse riflettuto sull’impatto sconcertante di una guerra, sulla morte, sul terrore, non sarebbe più riuscito a pensare in modo lucido e a decidere cosa fare dopo.

Greave sapeva risolvere i problemi. Il filosofo Araxon diceva che il modo appropriato di affrontare un problema era suddividerlo in una serie di problemi più piccoli, segmentarlo fino a ottenere passi piccoli abbastanza perché un essere umano potesse compierli. Naturalmente, il suo rivale Xero aveva scritto che la vera complessità dei problemi poteva essere compresa solo nella sua interezza, ma Greave non pensava che tutto ciò fosse utile in quel momento.

Era stato scritto molto anche in materia di guerra, come su quasi qualsiasi altro argomento della storia dell’umanità. Greave aveva letto le opere dei maggiori tattici, aveva compreso i principi di ciò che doveva fare. Aveva letto opere di politica e dell’arte di governare, storie di governanti che erano venuti prima. Sperava che una parte di esse gli fornisse le risposte di cui avrebbe avuto bisogno.

Per il momento, continuò a camminare, cercando di trovare la strada giusta. Continuò a pensare mentre procedeva, a riflettere sul grande problema che minacciava di sterminare tutti. Da dove doveva cominciare? Greave comprese d’istinto la risposta: non aveva abbastanza informazioni, non capiva la portata di quello che stava succedendo, non conosceva abbastanza dettagli per decidere cosa fare.

Doveva scoprire dove si trovava la sua famiglia e cosa era successo loro. Non avrebbe potuto fare nulla per salvarli se non avesse almeno scoperto dove si trovavano. Da lì doveva cominciare, ma ne conseguì una cascata apparentemente interminabile di azioni. Avrebbe dovuto conoscere tutti i vari gruppi che popolavano il regno, chi governava dove, quali forze leali rimanevano…

Greave stava ancora pensando a tutto ciò, quando il piccolo sentiero su cui si trovava cedette il posto a una strada più grande che attraversava un tratto boscoso. I viaggiatori cominciarono a superarlo sulla strada; alcuni si muovevano con sacchi contenenti oggetti personali, altri con armi. Tutti lo guardavano con diffidenza, tenendosi a distanza. All’inizio sussultò, pensando che avessero capito chi fosse, ma poi si rese conto che la loro prudenza aveva più che altro a che fare con il suo aspetto selvaggio, spettinato e apparentemente pericoloso.

“Sono sulla strada giusta per la Royalsport?” gridò a uno di loro, un uomo che lottava sotto il peso di tutto ciò che era riuscito a rubare. Era un poco più alto e robusto di Greave, vestito con abiti semplici ma ben fatti.

“È proprio quella,” rispose l’uomo, facendo un cenno con la testa nella direzione in cui stava andando Greave. Fu grato per questo, perché almeno significava che non stava sprecando energie.

“Grazie,” disse Greave. “Sei stato molto d’aiuto.”

Persino mentre lo diceva, vide l’altro uomo fissarlo.

“Conosco questa voce,” affermò.

Greave cominciò a indietreggiare un poco, mentre i campanelli d’allarme cominciavano ad attivarsi in lui di riflesso. Non voleva essere riconosciuto, non lì, non in quel momento. Fissò l’altro uomo, cercando di capire come potesse conoscerlo.

“Quando ti ho visto, mi sei sembrato subito familiare, ma è stata la voce a darmi la conferma. Lavoravo al castello e l’ho sentita una volta, mentre recitavi delle poesie nei giardini.”

Quelle parole gli arrivarono dritte al cuore.

“Ti sbagli,” replicò Greave. “Tu non mi conosci.”

L’altro uomo fece un passo avanti. “Sì, invece. Tu sei il Principe Greave.”

La paura per essere stato riconosciuto cominciò a farsi strada in lui, ma la represse. Non poteva lasciare che quell’uomo scorgesse una qualche reazione.

“Ti sbagli,” disse. “Cosa ci farebbe il principe Greave in una strada come questa?”

“Non mi sbaglio,” ribatté l’uomo, fissandolo con sguardo duro adesso. “I tuoi vestiti sono troppo ricchi per un contadino qualsiasi e la tua faccia è la stessa, nonostante la barba.”

La paura cominciò a indurirsi, trasformandosi in qualcos’altro dentro di lui. Non poteva essere scoperto, non allora, non ancora. Aveva bisogno di tempo per capire cosa avrebbe fatto e per raggiungere la sua famiglia. Se quell’uomo avesse detto a qualcuno quello che aveva visto, se ne avesse parlato con la persona sbagliata, allora Greave sarebbe stato in grave pericolo.

“È fondamentale che non tu lo dica a nessuno,” gli confidò, capendo che non aveva più senso cercare di negare la sua identità. L’altro uomo se ne era convinto e non c’era modo di fargli cambiare idea. Cosa gli restava? Un appello alla sua lealtà? “Se ci tieni a questo regno…”

“Quale regno?” scattò in risposta l’uomo. “Adesso è tutto in mano a Ravin e tutti gli altri reali sono stati uccisi da lui.”

Quelle parole lo inondarono di dolore; acute e improvvise, sembrarono intorpidire qualsiasi parte di lui. Non sapeva come reagire in quel momento, non sapeva cosa dire o fare.

“No, non può essere vero,” affermò. Non riusciva ad accettarlo, non voleva accettarlo.

“Ho visto con i miei occhi l’esecuzione della Regina Aethe e il giorno dopo è stata annunciata la morte della Principessa Lenore e della Principessa Erin. Non ci vuole un genio per capire cosa sia successo laggiù. Taciturni.”

“No, ti sbagli, stai mentendo,” replicò Greave, perché il dolore del suo lutto era troppo grande da sopportare. Si mischiò però con una rabbia che lo sorprese, che doveva covare da tempo.

Avanzò verso quell’uomo, e ora aveva un coltello in mano.

“Non sto mentendo. Sei rimasto solo tu, Prince Greave. Almeno finché qualcuno non dirà ai Taciturni dove sei.”

 

Sapeva quanto fosse pericolosa quella situazione e poteva quasi sentire la voce di Aurelle suggerirgli la soluzione più ovvia, l’unica via d’uscita da tutto questo.

Doveva uccidere quell’uomo prima che lo dicesse a qualcuno.

Vide che iniziava a indietreggiare, ma era ancora abbastanza vicino perché Greave potesse balzare in avanti e affondargli una lama in petto. Aurelle l’avrebbe fatto, ma lui… non poteva. C’erano modi migliori per affrontare quella situazione. Poteva offrirgli dei soldi, cercare di farlo ragionare ed escogitare un modo per cavarsene fuori. Non era un assassino.

Nell’attimo in cui Greave esitò, l’altro uomo scappò via, sfrecciando fra gli alberi. Greave lo fissò deluso e sconvolto e poi, non sapendo cos’altro fare, si mise a inseguirlo.

CAPITOLO SESTO

Lenore aspettava in piedi nella locanda mentre Odd la perlustrava con cautela, cercando di rilevare tutti i modi in cui qualcuno avrebbe potuto farle del male lì dentro. Lenore non era sicura di quanto ci fosse da vedere. Era una grande stanza aperta, con pochi tavoli e panche, qualche botte da uno dei lati estremi e poco altro.

Erin, nel frattempo, era seduta accanto a lei, sorseggiava una piccola birra e mangiucchiava un pezzo di pane con del formaggio. Ogni tanto guardava Odd, e non in modo amichevole.

“Cosa c’è che non va tra voi due?” chiese Lenore.

Erin distolse lo sguardo, senza rispondere.

“Erin…”

“Non sono soggetta ai tuoi ordini, Lenore,” scattò sua sorella.

Lenore mise una mano su quella di sua sorella. “No, ma sei mia sorella e tengo a te. Mi preoccupo per te.”

“Non devi preoccuparti per me,” replicò Erin. “Preoccupati per chi mi intralcia.”

Lenore sospirò. Non sapeva come placare l’ira che ardeva in sua sorella e che adesso fuoriusciva tanto spesso. Aveva un accenno della stessa emozione, ma non era impetuosa come quella che minacciava di consumare tutto ciò che circondava Erin.

Non riusciva a pensare a niente che potesse dire o fare per aiutarla. Forse, se fossero riusciti a riconquistare il regno, quella rabbia si sarebbe placata, ma Lenore sapeva quanto fosse lunga la strada per arrivare a quel punto ed era cosciente di non poter tenere Erin per mano per tutto il tragitto. Doveva solo sperare che la sua presenza fosse sufficiente.

Intanto, le persone cominciavano ad affluire alla locanda. Uomini e donne che accedevano singolarmente o a coppie. Non erano molti, perché non era un grande villaggio, ma bastarono a riempire lentamente la taverna, costipandola come accadeva nella grande sala del castello in occasione degli incontri. Le persone lanciavano occhiate a Lenore e sua sorella; ovviamente, dopo aver sentito chi erano, si erano recate lì per capire cosa sarebbe successo, anche se non ci credevano del tutto.

In un villaggio come quello, radunare le persone era la parte più facile. Lenore rappresentava qualcosa di interessante da vedere e magari di cui parlare più tardi. Sfruttare al meglio quel momento era la parte difficile. Era come lanciarsi nel vuoto, perché non poteva prevedere che risvolti avrebbe avuto.

Questo rendeva le parole che Lenore stava per dire le più importanti di qualsiasi altre avesse pronunciato nella sua vita. In verità, cominciava a capire che la maggior parte delle cose che aveva detto o fatto prima non lo era affatto.

Fu una realizzazione difficile. Per gran parte della sua vita, aveva pensato di essere una persona responsabile, che faceva la cosa giusta essendo la principessa che tutti si aspettavano, ma quanto di buono aveva davvero fatto per il mondo? Era stata un grazioso ornamento a corte, finalizzato a un matrimonio che rafforzasse il legame tra la corona e uno dei suoi più importanti signori. Era stata lì per essere cortese e accogliente, ma niente di quello che aveva detto era mai stato veramente rilevante per la maggior parte delle persone intorno a lei. Né per suo marito, né per i cortigiani, né per sua madre.

Ora, il suo discorso le avrebbe fatto vincere o perdere la sua causa.

Erin le offrì un sorso del suo drink, ma era troppo nervosa per accettare. Inoltre, doveva mantenere la mente perfettamente lucida. Doveva apparire sicura e decisa. Doveva riflettere l’immagine del governatore in cui il popolo l’avrebbe riconosciuta se tutto ciò avesse funzionato.

“Puoi farcela,” le sussurrò Erin, quando la locanda divenne quasi piena.

Lenore annuì, cercando di convincersene. Si alzò e salì sul bancone, in modo che tutti potessero vederla. Era giunto il momento.

“Grazie per essere venuti,” esordì, alzando la voce. “Mi chiamo Lenore. Sono la figlia di Re Godwin III.”

Fece una breve pausa perché tutti assimilassero quelle parole, mentre qualche sussulto rimbombava nella stanza. Solo pochi, però, perché pareva che la gente ne avesse già sentito parlare e la notizia fosse già stata diffusa.

“Mio padre è morto,” proseguì, reprimendo il dolore che provava. “Mia madre è morta, e anche il mio fratello maggiore.”

“Abbiamo sentito dire che eravate morte anche voi!” gridò qualcuno dal fondo della folla.

“Sono voci che ha diffuso Re Ravin,” replicò Lenore. “Perché? Perché io e mia sorella Erin siamo le ultime persone attorno a cui i ribelli potrebbero radunarsi. Mia sorella Nerra e mio fratello Greave sono scomparsi. L’altro mio fratello, Vars, è un codardo che ha ucciso il suo stesso padre e che fa da burattino a Ravin.”

Quell’affermazione suscitò più di una reazione, facendo levare il mormorio tra la folla. L’uomo che era intervenuto prima non aveva finito, però.

“Come facciamo a sapere che siete chi dite di essere?” domandò.

“Credete che qualcuno vorrebbe davvero fingersi me?” scattò Lenore, con una risata amara. “Perché non trovate anche un uomo che faccia tornare Rodry dal regno dei morti? Io sono Lenore e chiunque sia venuto a corte mi riconoscerà. Mi riconoscerete tutti, con il tempo.”

Alzò lo sguardo su di loro. “Per ora, voglio che pensiate alla sofferenza che il dominio di Ravin sta portando.”

“Non sta cambiando molto qui fuori,” gridò l’uomo tra la folla. Lenore lo individuò a quel punto; era un uomo dal volto subdolo e dall’aspetto da denutrito. “Penso che interessi più a chi vive in città.”

“E lo dirai anche quando arriveranno qui?” domandò Lenore, alzando la voce. “Lo dirai quando i soldati di Ravin chiederanno il tuo raccolto per sfamare i loro eserciti, mentre tu morirai di fame? Lo dirai quando le sue leggi stabiliranno punizioni severe per chiunque disobbedisca al suo governo? Quando i Taciturni si aggireranno per le strade in cerca di traditori e uccideranno chiunque sussurri anche solo delle parole sbagliate? Quando rapiranno le vostre figlie perché intrattengano Ravin?”

“Come hanno rapito voi intendete?” gridò l’uomo, e Lenore scorse sua sorella farsi strada nella folla verso di lui. Avvistò il pericolo e voleva urlarle, ma non poteva fermarsi e perdere l’impeto del suo discorso. “Tutta questa guerra è per colpa vostra,” urlò l’uomo.

“Sì, sono stata rapita,” replicò Lenore. “Ma se pensi che Ravin non avrebbe trovato un altro pretesto, ti sbagli. È un uomo crudele, che non si fermerà finché non avrà in pugno tutte le vostre vite, o finché non lo fermeremo.”

“Cosa possiamo sperare di fare?” Non fu lo stesso uomo a parlare questa volta, ma intervenne una donna dal centro della folla, che era lì in piedi con il marito e i figli.

Lenore sorrise a quel quesito. “Pensi di essere troppo debole per opporre resistenza a un esercito, vero? Pensi di non valere niente e che Ravin potrebbe spazzarti via con un colpetto della sua mano? Lo pensavo anch’io quando mi hanno rapita, ma non è vero. Siamo tutti, ognuno di noi, più forti di quanto pensiamo.”

Dette loro un momento per assimilare la cosa. “Ci sono più persone in questo regno di quante Ravin possa sperare di contrastare, e la sua presa sul territorio è al massimo tenue. Chi si schiera dalla sua parte lo fa perché pensa di non avere alternative. Ebbene, noi offriremo loro un’opzione migliore. Noi saremo l’opzione migliore. Costruiremo insieme un esercito e ci riprenderemo questo regno da coloro che lo hanno rubato!”

“Sciocchezze!” gridò l’uomo che l’aveva contraddetta fino a poco prima, rubando lo spazio in cui Lenore aveva sperato che la gente avrebbe applaudito. “Guardatela. È solo una ragazza qualunque. Anche se fosse la principessa, questo cosa fa di lei? È una nobildonna dalla testa vuota che non si è mai preoccupata di nessuno di noi e che si è buttata nel letto dell’uomo che è più vicino a Ravin di…”

“Non osare parlare così di mia sorella!” urlò Erin mentre lo raggiungeva.

“Erin, non farlo!” gridò Lenore, ma era troppo tardi. La vide sferrargli un pugno alla mascella e poi una ginocchiata allo stomaco. L’uomo cadde, ed Erin lo prese a calci, ancora e ancora, finché Odd la tirò via da lui.

La gente stava adesso fissando inorridita quella scena cruenta. Lenore avvertì il favore evaporare intorno a lei e le persone cominciarono ad andarsene, uscendo dalla locanda; alcuni la guardavano con disgusto.

“Non meglio degli invasori,” disse la donna che era intervenuta, andandosene con la sua famiglia.

Lenore restò lì in piedi, senza sapere come avrebbe potuto far cambiare loro idea. Poteva solo stare lì inerme, a fissarli.

Era ancora immobile quando Harris il mugnaio avanzò tra la folla che si disperdeva. Aveva al seguito una donna corpulenta, che Lenore suppose fosse sua moglie. Le porse una mano, per aiutarla a scendere dal suo piedistallo sul bancone.

“Mi dispiace,” disse. “So che non è andata come volevate. Io e Tess siamo rimasti colpiti. E Nevis a volte fa correre troppo la bocca.”

“No,” replicò Lenore. “Avrei dovuto prevederlo. Avrei dovuto fermare mia sorella.”

“La gente era scioccata,” aggiunse la donna con lui. “Quando tutti si fermeranno a pensare alle cose che avete detto, inizieranno a capire che avevate ragione.”

“Lo spero,” disse Lenore.

“Devono farlo,” ribatté Tess. “Altrimenti le cose peggioreranno. Oh, certo, la gente si lamentava delle tasse e di questioni simili sotto al vecchio re, vostro padre, ma almeno lui era un uomo giusto. Quei meridionali si prenderanno tutto.”

Lenore annuì. Le avevano già portato via troppe persone che amava. “Spero che se ne rendano conto presto,” affermò. “Non mi sembra di riuscire a fare molto qui.”

“Ci avete fatto cambiare idea,” disse Harris. “E non pensavo che ci sareste riuscita dopo l’incontro in piazza, prima. Sentite, io e Tess ne abbiamo discusso e… voi tre avete un posto dove stare?”

Lenore scosse la testa. Non aveva ancora pensato se fermarsi alla locanda o rimettersi in viaggio.

“Allora resterete con noi,” affermò Tess. “Tutti voi. E forse quando la gente avrà avuto il tempo di pensare, comincerà a tornare.”

Lenore lo sperava. Se non fossero tornati, la sua battaglia contro l’esercito di Ravin sarebbe finita prima ancora di cominciare.

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