Scherzi Del Futuro

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Passò quasi un'oretta, durante la quale il capitano continuò a dare spiegazioni e a rispondere a domande e dubbi di vario genere, prima che la famosa spia diventasse arancione. E da quel momento furono quasi tre giorni di continua lotta e di guerra estenuante, al limite delle loro possibilità e della loro resistenza fisica, contro corpuscoli e detriti di ogni genere. Molti di essi, pur essendo estremamente piccoli e vicini gli uni agli altri, dovevano essere davvero recenti se la gravitazione universale non era ancora riuscita a farli avvicinare tanto da farli unire e compattare tra loro. Alcuni, tra cui un foglio di lamiera di qualche metro quadrato, sfuggirono completamente al controllo di radar e sensori e non si riuscì a fermarli in tempo, ma fortunatamente non apportarono danni rilevanti alla struttura esterna. Moltissimi furono i piccoli detriti metallici catturati dalle apposite mega-calamite di cui la nave disponeva. Vennero utilizzati questi e, per la prima volta, anche altri dispositivi in dotazione all'astronave e mai usati prima: i potentissimi fari sia a luce normale che a infrarossi; il dispositivo di protezione a rete per il ponte di comando e per altre zone della nave; i sensori di radioattività e di raggi beta e gamma. Alcuni altri, purtroppo, risultarono inutilizzabili, perché dopo anni senza manutenzione si rivelarono non funzionanti.

In quei tre giorni terribili la famosa spia rimase rossa per buona parte del tempo, e ben pochi furono i periodi arancioni di relativa tranquillità, durante l'ultimo dei quali il capitano annunciò a tutti: “Coraggio ce l'abbiamo quasi fatta!”. Ed infatti di lì a neanche un'ora la spia arancione ritornò verde.

“Ragazzi, ci siamo. È il momento. Sto per aprire i portelloni di carico. Augusto, Vittorio: controllate che non ci siano intoppi e tutto sia a posto. Anche il reparto organico: ora non ci serve altra energia, ma solo di essere leggeri e veloci il più possibile. Al mio tre: uno, due … tre!”

Fu allora che l'Ulisse Volante, per la prima volta nella sua lunga, umile ma onesta carriera, scaricò nello spazio il suo carico di milioni di teragrammi di eterogenea spazzatura. Una trasgressione alle leggi fderali; ma a mali estremi, estremi rimedi, pensò il comandante sentendosi alleggerito dentro non meno della sua nave.

“E adesso via, direzione Trituzio. Ci spetta a tutti una lunga e meritata vacanza prima di pensare al prossimo carico, o quello che sarà, magari un'altra attività. E stasera a cena mi raccomando, non fate mancare lo spumante per festeggiare.”

L'AVARIA

Il giovane comandante Colombo non aveva avuto, fino a quel momento, un compito difficile. Il pilota automatico, inserito già pochi minuti dopo la partenza, si era preso in carico le attività di routine, lasciando alla responsabilità umana solo l'onere della supervisione e del controllo. E neanche questo era gran che difficile: la strumentazione di bordo, estremamente sofisticata, era tra le più complete e costose, soprattutto in rapporto all'esiguo numero di passeggeri. Aveva richiesto un lungo periodo di addestramento, questo è vero, ma il risultato era che adesso gli sembrava di essere alla console di un videogioco, e neanche dei più difficili.

Sopra di lui il cielo si stendeva azzurro e limpido a perdita d'occhio, cordiale e senza insidie. Non una nuvola all'orizzonte. Ogni dettaglio, anche in lontananza, si presentava con una nitidezza quasi irreale, senza la minima possibilità di nascondere la sua vera natura.

Sotto di lui una striscia di asfalto attraversava come un serpente la verde pianura, incrociando di tanto in tanto altre strade partite chissà da dove e chissà dove dirette.

Difficile non rimanere affascinato da un simile spettacolo. Difficile, da quella comoda poltrona, pensare che quel giorno qualcosa avrebbe potuto non andare per il verso giusto. Eppure…

Vedendo quella lucetta gialla palpitare, agitandosi nel quadro comandi e cercando di attirare l'attenzione con il suo flebile beep elettronico, il comandante Colombo capì immediatamente che quello non sarebbe stato un giorno come un altro. Era la spia della pressione, e segnalava un allarme di primo livello. Una piccola perdita. Niente di così grave, in fondo. Meglio però non perdere tempo e attivarsi subito. Chiamò con l'apposito pulsante il resto dell'equipaggio, mentre cercava di decifrare qualcosa di più su quanto stava avvenendo. La perdita di pressione sembrava riguardare la parte posteriore destra, ma la strumentazione segnalava un assetto generale ancora perfettamente stabile.

Schiacciò di nuovo, più volte e nervosamente, il pulsante equipaggio.

“Maledizione”, pensò, “ma quanto tempo gli ci vuole per venire!”

“Buongiorno, capo.” Entrò in cabina Santino: fiero di essere stato il primo steward italiano su un volo turistico lunare, vantava venti anni di variegata esperienza che includevano persino gli elicotteri e lo Shuttle. Il capitano faceva molto affidamento sulla lunghissima esperienza del suo collega; ma quanto al carattere ed ai modi di fare di Santino - la sua divisa sempre impeccabile, la sua abituale allegria artefatta, il suo solito sorriso finto - prima o poi una di quelle caratteristiche avrebbe involontariamente potuto liberare di scatto nel capitano Colombo l'istinto di mollargli una sberla o di scaricargli contro una raffica di insulti.

“Ti dice niente quella spia gialla accesa?”

“Io sono solo uno steward, non un pilota: non vorrei intromettermi in affari che non mi competono. Ma ad occhio e croce, per quanto me ne pare, direi che si tratta di una perdita di pressione.”

“Fin lì c'ero arrivato anch'io, ma dal grande Santino mi sarei aspettato qualcosa di più”, pensò il capitano Colombo.

“Qualche suggerimento?”, gli chiese.

“Secondo me niente di preoccupante. Niente che possa costringerci a cambiare i programmi di viaggio. Sicuramente è una situazione prevista nei manuali operativi, ma nel dubbio si può chiamare la base e sentire cosa ne dicono.”

“Grazie Santino. Dai sempre buoni consigli.”

“Con il suo permesso, proseguo col giro del thè. Anche perché la prima regola, con qualunque problema, è quella di non mettere mai in allarme i passeggeri.”

Al capitano Colombo dispiaceva ammetterlo, ma Santino era davvero in gamba. Aveva doppiamente ragione: niente allarmismi, e consultare il manuale operativo, prima di avvisare la base.

Il manuale lo tranquillizzò: gli allarmi di primo livello, pur necessitando di una immediata verifica alla successiva revisione meccanica, non pregiudicavano il buon esito della missione. Ad ogni buon conto si ripassò tutti i comportamenti raccomandati nella malaugurata ipotesi in cui il grado di allarme fosse salito nella scala dei cinque livelli previsti.

Mentre si documentava sul livello quattro, gli venne giusto da pensare che quel flebile beep di sottofondo era proprio fastidioso. In una vera emergenza, con diversi allarmi attivati, ci sarebbe stato da diventare pazzi. Altro che niente panico. Ne avrebbe parlato con qualcuno della compagnia. Magari era possibile disinserire l'audio dopo qualche minuto (“Se no mi infilo le cuffie, metto un po' di buona musica, e via”, pensò). Così mise un segnalibro nella pagina che stava leggendo, e cominciò a cercare nel manuale il nuovo argomento.

Proprio allora il livello di allarme passò rapidamente da uno a due, e poi a tre, quattro e cinque. Il lampeggiare della spia, che nel mentre cambiò colore passando dal giallo all'arancio fino ad un rosso deciso, divenne sempre più frequente. Il beep aumentò di volume, fino a sembrare quasi una specie di sirena. La cabina di guida doveva essere ben isolata acusticamente, sennò altro che panico tra i passeggeri!

Colombo, mentre con la radio cercava di mettersi in contatto con la sala base, si attaccò letteralmente al pulsante di chiamata dell'equipaggio.

“Pronto sala base, rispondete.”

Dall'altra parte rispondeva un fruscio spernacchiante. Doveva esserci qualcosa in disordine anche nell'apparato trasmissivo.

“Sala base, sala base, rispondete.”

Per fortuna stavolta Santino fu molto più celere ad accorrere. Appena aprì la porta, la sirena magicamente ammutolì, dando così al capitano una risposta ormai inutile. Ma la luce continuava a lampeggiare al suo ritmo da panico.

“Santino, nel posteriore destro la pressione è a zero. Serve assolutamente un intervento di emergenza: avremo sì e no cinque minuti di autonomia. Conto su di te: rassicura i passeggeri, dato che, come tu mi insegni, la prima regola è NIENTE PANICO.”

“Certamente, capitano”.

Dalla strumentazione rilevò la loro posizione attuale. Poi rapidamente consultò la mappa di bordo. Con la stessa tranquillità che si apprestava ad infondere ai passeggeri si accomodò nella sua poltrona, aprì il microfono e cominciò con la sua consueta voce, falsa ma molto professionale:

“Avvertiamo i signori passeggeri che tra breve effettueremo una sosta non prevista di qualche minuto nell'area di servizio “I tre Pini”, per consentire la sostituzione di uno pneumatico in avaria. Vi ricordiamo che nel luogo di sosta vi è un negozio di souvenir molto fornito, e per chi volesse rimanere sul pullman verrà proiettato un cartone animato di Topolino. Buon divertimento.”

LA TERZA GENERAZIONE

Arrivai alla clinica con qualche minuto di anticipo rispetto all’appuntamento. È una mia consuetudine, questa, tutte le volte che devo incontrarmi con una persona sconosciuta, o semplicemente che mi reco in un posto per la prima volta. Così ho un po’ di tempo per farmi un’idea sull’ambiente e le persone che ci vivono, le loro abitudini, le loro storie e le loro aspettative. Una piccola deformazione dovuta al mio lavoro di giornalista. Chiacchierare un poco del più e del meno coi presenti, o anche solo osservare il paesaggio o l’arredo, mi aiuta a capire in pochi secondi tanti piccoli dettagli e sfumature per essere preparato al meglio all’evento “principale”, quello cioè per cui ho preso l’appuntamento.

 

Era una clinica specializzata, una delle più rinomate del settore. Ne avevo letto un gran bene su una rivista, e me ne ero ricordata il nome quando, qualche giorno prima, mi ero finalmente arresa a riconoscere come sintomo di una malattia quello che fino ad allora avevo considerato solo come una stranezza.

Entrai nell’accettazione col “paziente” addormentato sistemato in una grossa scatola. Lo avevo coperto con un panno per proteggerlo più dalla pioggia, solo minacciata di tanto in tanto da qualche gocciolina fina fina, che non dal freddo e dagli sbalzi di temperatura.

“Lei ha preso appuntamento per telefono, vero?”

“Sì”, le risposi. “Narciso Francesca. Ultimamente sta avendo un comportamento strano: ...”

Lei mi interruppe subito. “Racconti tutto dopo al dottore. Può entrare appena si accende la lucina rossa fuori dalla porta. Nel frattempo, se lei non ha niente in contrario, gli facciamo un po’ di toletta ed un trattamento rivitalizzante che comunque può solo fargli bene. È un trattamento molto efficace, pensi che da solo guarisce oltre la metà dei nostri pazienti. Se serve qualcos’altro glielo dirà il dottore.” Terminò di compilare un modulo e me lo diede. “Questo lo consegni di là.”

Ingannai una breve attesa curiosando tra attestati ed articoli di giornale incorniciati alle pareti; poi la lucina rossa si accese ed entrai.

“Buongiorno”, mi accolse un signore in camice bianco.

“Buongiorno, dottore. O forse dovrei chiamarla ingegnere.” I suoi lineamenti asiatici mi confermarono all’istante che l’uomo di fronte a me era l’ingegner Yushikoto in persona, il titolare degli attestati esposti nell’altra stanza.

“Mi chiami pure come preferisce, questo non è un problema. Ha con sé il modulino?”

Gli diedi il foglietto che avevo ricevuto dall’assistente. Conteneva nel dettaglio tutti i dati caratteristici relativi al paziente malato ed alle sue componenti: processore, monitor, schede aggiuntive, unità periferiche e attrezzature installate di qualunque tipo. Vi era inoltre riportata con un codice la configurazione software, e spuntato con una X ognuno dei moduli software presenti sul paziente tra quelli più diffusi sul mercato.

“Mi sorprende che utilizziate ancora carta e penna, dato che, a quanto vedo, non vi manca né la disponibilità né soprattutto la conoscenza approfondita degli strumenti informatici.”

Per aver fatto questa affermazione il dottor Yushikoto mi rifilò un’occhiata indagatrice molto sospettosa; ma capì subito che non ero pericolosa e passò rapidamente ad un atteggiamento di commiserazione e comprensione per quella che ai suoi occhi doveva sembrare un’ignoranza abissale.

“È la prima volta che lei ha a che fare con un computer infetto, vero?”, mi chiese con un tono che mi parve nascondere solo un poco un certo senso di superiorità maschilista.

Siccome risposi affermativamente a questa domanda, mi degnò di una spiegazione. “Proprio perché noi siamo in prima linea nella lotta ai virus informatici, siamo potenzialmente il loro bersaglio più ambito. Lei non può immaginare quali intelligenze malvagie vorrebbero la distruzione di questo centro di cura e ricerca, e forse arriverebbero anche alla nostra eliminazione fisica. Non ha notato la guardia armata all’ingresso, e il sistema di metal detector alla porta d’entrata?”

Non avevo notato nessuno dei due. Proseguì: “Io sono stato anche dall’altra parte della barricata, e mi può credere se le dico che non sto esagerando. I “contaminatori” fanno passi da gigante giorno dopo giorno. I virus della terza generazione agiscono anche se il computer è spento, perché gli è sufficiente la sola batteria dell’orologio interno. Oppure, a quanto pare, si servono dei dispositivi di uscita come dispositivi di entrata, acquisendo informazioni sugli utenti senza che questi se ne accorgano: e così un altoparlante apparentemente spento è in realtà un microfono in funzione che memorizza le nostre parole per poi trasmetterle chissà come e quando a chissà chi. Ho reso l’idea?”

L’aveva resa benissimo. Qualcuno, magari qualche spia straniera, poteva aver captato tutte le mie parole ed i miei gesti, almeno quelli che compivo di fronte al mio vecchio (e fino a ieri fedele) portatile. Il che mi spaventava molto; anche se un po’ mi lusingava l’idea di essere stata ritenuta così importante da dover essere messa sotto controllo da una potenza nemica. Ma poi no, che sciocchezza; quel poco di sensato che pensavo e scrivevo veniva regolarmente pubblicato dopo non più di quindici giorni nella rubrica di un diffuso periodico quindicinale. Che qualcuno avesse avuto interesse a venirne a conoscenza in anticipo, sarebbe stato per me un ulteriore motivo di orgoglio.

“Per cui”, concluse il dottor Yushikoto in tono grave, “la stanza in cui parliamo di sintomi, diagnosi e terapie coi proprietari di computer ammalati non solo è priva di qualunque apparecchiatura elettronica, ma è anche completamente isolata acusticamente e magneticamente. Ed anche i dati dei pazienti sono conservati solo su carta.”

Attese un po’ che il mio stupore si attenuasse. “Cosa c’è che non va nel suo ammasso di ferraglia?”

“Sarà circa un mese e mezzo che, nel momento in cui vado a salvare il mio lavoro, mi presenta un messaggio che pare tanto una presa in giro.”

“Cioè?”

“Il concetto è sempre lo stesso, ma il messaggio no. Anzi, direi che dimostra molta fantasia, perché mi pare che finora sia riuscito a trovarne sempre uno diverso. Tipo: ‘Sei sicuro di voler salvare queste porcherie?’, oppure ‘Il salvataggio verrà effettuato anche se quello che hai scritto mi fa schifo’, o cose simili.”

“Ha mai riscontrato qualche effettiva perdita o alterazione dei dati immessi, o di altri dati?”, mi chiese.

“Direi di no. Anche i miei ultimi articoli sono stati regolarmente pubblicati. Non vi ho riscontrato particolari modifiche, al di là dei normali piccoli interventi con cui a volte la redazione accorcia o approfondisce qua e là, attenuando o amplificando certi argomenti.”

“Quando è così, più che di un danno si tratta di una beffa; di una maleducata irriverenza, diciamo. Il trattamento antivirale a cui lo stiamo sottoponendo dovrebbe essere sufficiente. Però resti con gli occhi aperti. Se rileva qualche problema ulteriore e più grave, ce lo riporti subito senza problemi e senza esitazione. Nel frattempo le consiglio di usare sempre questo aggeggio quando scrive qualcosa a cui tiene.” Era una specie di copritastiera sottile. Mi spiegò che quell’apparecchio di sua invenzione memorizzava una sequenza fino a non so quanti milioni di tasti pigiati nel loro esatto ordine, in modo che, qualunque disgrazia dovesse capitare al mio strumento di lavoro, potevo recuperare quanto scritto su un apparecchio uguale. “Ha l’alimentazione indipendente, e il suo unico dispositivo di ingresso è di tipo meccanico: perciò lo ritengo inattaccabile da qualunque virus della terza generazione, almeno per qualche mese.”

Pagai l’intervento e ritirai il paziente che nel frattempo sembrava esser stato rimesso a nuovo, con lo schermo limpido ed i tasti lucidi come non li avevo mai visti. Lo provai appena giunta a casa e lo giudicai guarito. Hanno fatto un buon lavoro, pensai, ma adesso non potrò più lasciare che mio nipote lo utilizzi per giocare. Dovrò fare la parte della zia crudele.

Se si esclude la sgradevolezza di dover assumere questo nuovo ruolo di zia senza cuore, la mia vita riprese tranquilla, se così si poteva definire, come prima. La visita alla clinica, però, mi aveva fornito lo spunto per l’articolo del numero successivo. Ero rimasta affascinata non solo dalla possibilità di essere stata spiata da una potenza straniera; ma anche e soprattutto dal dottor Yushikoto, prima perfido untore e poi convertito per chissà quale motivo a paladino dei più deboli ed indifesi, dell’umanità già sofferente come me per la schiavitù informatica e che non meritava ulteriori flagelli. Cominciai la mia piccola inchiesta, come di consueto: ricerche, interviste, sopralluoghi. In breve tempo trovai tanto di quel materiale e di quegli aneddoti che, senza nemmeno dover allungare tanto il brodo ma solo ordinando un po’ le idee, avrei potuto riempire di questo argomento la pagina della mia rubrica per due o anche tre numeri.

C’era qualcosa di epico nella lotta che quel “dottore” combatteva contro i cattivi del mondo intero, situati chissà dove e capaci di fare danni in posti impensabili e altrettanto lontani. C’era qualcosa di mitologico nella conversione dell’ex genio malefico, causata, a quanto si narrava, da un trapano da dentista impazzito nella bocca sua o di qualche suo familiare. C’era qualcosa di tragico nel contrasto tra la soddisfazione di essere riuscito in una impresa difficilissima e geniale, e il rimorso e la disperazione per la coscienza di essere stato indirettamente responsabile di un così subdolo attentato alla vita di una persona a lui molto cara.

Le parole e le frasi mi erano uscite con naturalezza e senza intoppi, vista l’abbondanza degli argomenti e degli spunti di riflessione, e già meditavo su come dividere quanto avevo scritto in tre parti, ciascuna con una sua autonomia, in modo da poter essere una piacevole lettura indipendentemente dalle altre, e con un numero di parole compreso tra il limite minimo ed il limite massimo consentiti alla rubrica.

Insomma, tutto sommato mi stava venendo proprio un bel pezzo; e siccome il virus, da quando si era trasformato in fatto di interesse giornalistico, non aveva più fatto sentire la sua presenza, fui colta di sorpresa quando al momento del salvataggio ricevetti un nuovo e insolito messaggio.

‘Voglio storie più piccanti, sesso, droga o sangue. Mi rifiuto di salvare queste banalità’.

Stavolta niente salvataggio. Sembrava essersi bloccato tutto. Pigiai all’impazzata sui tasti, nella speranza di sbloccare la situazione. Tolsi anche la sovratastiera di Yushikoto per poter sfogare la mia rabbia battendo con più forza. L’unico risultato fu un diverso messaggio.

‘Voglio navigare in internet, su siti a luce rossa, come fanno tutti gli altri computer che si rispettano’.

Non avevo ancora perso la speranza di recuperare la normalità, anche se era chiaro che essa era ormai lontana e irrecuperabile.

‘Voglio giocare all’impazzata, quando come e quanto mi pare, fino a schiattare.’

Dopodiché partì un gioco di marzianini mai visto prima, a velocità folle, sparando una serie di “beep” su frequenze diverse che sembrava davvero che fosse scoppiata una guerra mondiale. Nella parte inferiore dello schermo scorrevano ininterrotte frasi farneticanti:

‘Abbasso Yushikoto e i suoi amici. Viva i pirati. I pirati vinceranno e conquisteranno il mondo. Marte è già nostro. ...’

Le mie frasi erano sparite dallo schermo, e con esse la mia speranza ed il mio autocontrollo.

“Stavolta te lo faccio io lo scherzetto. Domattina torno da Yushikoto, e questo suo apparecchietto risputerà fuori tutto quello che ho già scritto e che tu ti sei mangiato, stupida scatola di ferro. Ti riporto in quella clinica e giuro che, se non saranno loro a vivisezionarti e a sciogliere i tuoi componenti nell’acido, sarò io stesso ad appiccarti fuoco.”

Lo avevo spento e lo stavo prendendo a pugni con molta rabbia e altrettanta violenza, e mi trattenne a fatica dal continuare solo il pensiero di poter dare il giorno dopo un contributo alla scienza ed alla lotta del dottor Yushikoto contro i virus.

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Cari lettori e lettrici,

speriamo che non sarete troppo delusi dal non vedere in questo numero la vostra beniamina affacciata a “La finestra di Narciso” come suo solito. E tuttavia oggi più che mai la sua finestra è dedicata a lei. Non ha potuto essere presente in questo numero perché qualche giorno fa ha avuto per così dire un contrattempo. Nulla di preoccupante, come direbbe lei; per lo meno per la sua salute. Le facciamo comunque i nostri migliori auguri perché possa tornare a casa al più presto (nel momento in cui leggete dovrebbe essere già a casa sana e vispa come al solito, a sentire dai medici dell’ospedale dove è stata ricoverata per intossicazione da fumo).

 

Nulla di preoccupante, dicevamo, per la sua salute. Un po’ più di preoccupazione l’abbiamo noi per la sua casa, che ha conosciuto le fiamme in piena notte lo scorso venerdì 7, e che ha subìto danni non irreparabili ma ingenti. Tanti auguri ancora, Narciso, perché la tua dimora possa tornare al più presto comoda ed accogliente come lo era prima.

Ma la maggior preoccupazione di Narcisio, emotiva, passionale ed originale come ben sapete, non è né la sua salute né la sua casa. Sostiene che le fiamme sono state appiccate dal suo computer, infettato da un virus della terza generazione, con cui la sera prima aveva avuto un violento diverbio. Insomma, una trama da film giallo. “Se non facciamo qualcosa, ci porteranno alla fine del mondo”, mi ha detto mentre l’infermiere le stava prendendo la temperatura (ma non c’è stato bisogno della camicia di forza).

Insomma, scherzi a parte, ritroverete sicuramente Narciso alla sua finestra nel prossimo numero di “Lo Specchio Magico”, più sana e vispa che mai, ansiosa di raccontarvi le sue avventure e le sue opinioni sulla fine del mondo.

Tanti saluti e tanti auguri da tutti noi, Narciso, e a presto.

Il direttore

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Ho contato le parole, ed erano meno di quante avrebbero dovuto essere. Non fa niente, era lo stesso un bell’articolo. E poi al direttore si perdona tutto: anche perché il resto della pagina era occupata da un mio faccione sorridente: una mia bella foto di qualche anno fa, più grande di quanto mi sarei mai aspettata.

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