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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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[E però, senza por piú esempli, potete vedere, comʼè detto, una medesima cosa avere diversi sensi e diverse esposizioni: il che, come delle figure del Vecchio Testamento addiviene, cosí similmente addiviene delle fizioni poetiche, le quali significano quando una cosa e quando unʼaltra.]

[Ora si suole intorno a queste esposizioni spesse volte dire per li laici la Scrittura avere il naso di cera, e perciò i predicatori e i dottori, secondo che lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora in altra. La qual cosa non è vera: percioché la Scrittura di Dio non ha il naso di cera, anzi lʼha di diamante, del quale non si può levare, né vi si può appiccare alcuna cosa, né si può rintuzzare, sí come quella la quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è Cristo: ma puossi piú tosto dire questi cotali avere il cuore, lo ʼntelletto e lo ʼngegno di cera, e perciò vedere con gli occhi incerati, e come son fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione vera e non vera, cosí par loro sia fatta la Scrittura; non conoscendo che la varietá deʼ sensi è quella che nʼapre la veritá nascosa sotto il velo delle cose sacre, la quale noi aver non possiamo, né potremmo, se sempre volessimo ad una medesima cosa dare un medesimo significato. Non si dovranno alcuni maravigliare, se in altra parte Cerbero significò il vizio della gola, e in questa gli sʼattribuisce la guardia delle ricchezze.]

Ma, accioché noi alle spezie deʼ due peccati ci deduciamo, dico che, secondo che i poeti scrivono, neʼ tempi che Saturno regnò, fu una etá tanto laudevole, tanto piacevole e tanto, a coloro che allora vivevano, graziosa e innocente, che essi la chiamarono, come altra volta è detto, lʼ«etá dellʼoro». E, quantunque essi vogliano quella in ciascuno atto umano essere stata virtuosa, intorno allʼappetito delle ricchezze del tutto la discrivono innocua. Percioché essi dicono, regnante Saturno predetto, tutti i beni temporali, avvegnaché pochi e rozzi fossero, essere stati comuni a ciascheduno, e perciò non essersi allora trovato alcuno che servo fosse, o che in ispezialitá alcun mercennaio servigio facesse; ciascuno era e signore e servo di sé parimente, né era campo alcuno che da alcun termine o fossa o siepe segnato fosse; alcuno armento non era, che dʼesser piú dʼuno che dʼun altro si conoscesse; di niuna pecunia era notizia, sí come di quella che ancora non era stata da alcuna stampa segnata; né mercatante, né navilio o alcuna altra cosa, per la quale apparer potesse alcuno in singularitá avere appetito di possedere quello che agli altri non fosse comune, si conoscea. E per questo vogliono, e meritamente, in queʼ secoli il mondo avere avuta lieta pace e consolata, né alcun vizio ancora esser potuto entrare nelle menti deʼ mortali. La quale benignitá e di Dio e della natura delle cose, se continuata fosse stata da noi, come mostrata ne fu neʼ primi tempi per doverla seguire e continuare, non è dubbio alcuno [che dove avendola lasciata, e preso altro cammino, e per quello i vizi ne trasviano allo ʼnferno] che noi, dopo riposata vita mortale, non fossimo similmente saliti allʼeterna. Ma, poi che, tra tanta simplicitá, tra tanta innocenzia nella vita piena di tranquillitá, [essendone operatore il nemico dellʼumana generazione,] furon questi due pronomi, «mio» e «tuo», seminati, tanto il santo ordine si turbò, che grandissima parte di quegli, li quali a dovere riempiere in paradiso le sedie degli angioli ribelli creati furono e sono, rovinano ad accrescere il loro numero in inferno.

Entrato adunque coʼ due pronomi il veleno pestifero, del voler ciascuno piú che per bisogno non gli era, nelle menti degli uomini, si cominciarono i campi a partire con le fosse, a raccogliere nelle proprie chiusure le greggi e gli armenti, a separare lʼabitazioni e a prezzolar le fatiche; e, cacciata la pace e la tranquillitá dellʼanimo, entrarono in lor luogo le sollecitudini, gli affanni superflui, le servitudini, le maggioranze, le violenze e le guerre: e, quantunque con onesta povertá alcuni vincessero e scalpitassero un tempo lʼardente desiderio dʼavere oltre al natural bisogno, non poté però lungamente la vertú deʼ pochi adoperare, che il vizio deʼ molti non lʼavanzasse. E, non bastando allʼinsaziabile appetito le cose poste dinanzi agli occhi nostri e nelle nostre mani dalla natura, trovò lo ʼngegno umano nuove ed esquisite vie a recare in publico i nascosi pericoli: e, pertugiati i monti e viscerata la terra, del ventre suo lʼoro, lʼariento e gli altri metalli recarono suso in alto; e similmente, pescando, delle profonditá deʼ fiumi e del mare tirarono a vedere il cielo le pietre preziose e le margherite; e non so da quale esperienza ammaestrati, col sangue di pesci e coi sughi dellʼerbe trasformarono il color della lana e della seta; e, brevemente, ogni altra cosa mostrarono, la qual potesse non saziare, ma crescere il misero appetito deʼ mortali. Di che Boezio nel secondo libro Della consolazione, fortemente dolendosi, dice:

 
Heu! primus qui fuit ille
auri qui pondera tecti
gemmasque latere volentes
pretiosa pericula fodit?
 

Ma, poiché lo splendor dellʼoro, la chiaritá delle pietre orientali e la bellezza delle porpore fu veduta, in tanto sʼacceser gli animi ad averne, che, con abbandonate redine, per qualunque via, per qualunque sentiero a quel crediam pervenire, tutti corriamo; e in questo inconveniente, non solamente neʼ nostri giorni, ma giá sono migliaia di secoli, si trascorse; e cosí la prima semplicitá e lʼonesta povertá e i temperati disidèri scherniti, vituperati e scacciati, ad ogni illicito acquisto siam divenuti. Per la qual cosa lʼumana caritá, la comune fede e gli esercizi laudevoli, non solamente diminuiti, ma quasi del tutto esinaniti sono; e, che è ancora molto piú dannevole, con ogni astuzia e con ogni sottigliezza sʼè cercato e cerca continovo lʼodio di Dio: pensando che dove noi dobbiam lui sopra ogni altra cosa amare, onorare e reverire, noi lʼoro e lʼariento, i campi e lʼumane sustanze in luogo di lui amiamo, onoriamo e adoriamo. Laonde segue che, per lo non saper por modo allʼappetito, e non sapere o non volere con ragione spendere lʼacquistato, morendo ci convien qui lasciare quello che noi ne vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare; e col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione, dalla divina giustizia a voltare i faticosi pesi, come lʼautore ne dimostra, mandati siamo.

E, accioché meglio si comprenda la gravitá di questa colpa, e quello che lʼautore intende in questa parte di dimostrare; e che lʼuomo ancora si sappia con piú avvedimento dalla meglio conosciuta colpa guardare: piú distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che, brievemente, consista questo vizio.

È adunque lʼavarizia, secondo che alcuni dicono, «auri cupiditas», cioè disiderio dʼoro. San Paolo dice (Ad Ephæsios, v): «Avaritia est idolorum servitus». E, secondo la sentenza dʼAristotile, nel quarto dellʼEtica, lʼavarizia è difetto di dare ove si conviene, e soperchio volere quello che non si conviene. Che lʼavarizia sia cupiditá dʼoro, in parte è giá dimostrato, e piú ancora si dimostrerá appresso; che ella sia un servire aglʼidoli, seguendo la sentenza dellʼapostolo, assai bene il dimostra san Geronimo in una sua pistola a Rustico monaco, dove dice: «Æstimato malo pondere peccatorum, levius alicui videtur peccare avarus quam idolatra; sed non mediocriter errat. Non enim gravius peccat qui duo grana thuris proiicit super altare Mercurii, quam qui pecuniam avare, cupide et inutiliter congregat: ridiculum videtur quod aliquis iudicetur idolatra, qui duo grana thuris offert creaturæ, quæ Deo debuit offerre, et ille non iudicetur idolatra, qui totum servitium vitæ suæ, quod Deo debuit offerre, offert creaturæ». Che ella sia difetto di non dare ove si conviene, e soperchio volere quello che non si conviene, dimostrerá il seguente trattato.

Sono adunque alcuni, li quali, non essendo loro necessitá, in tanto disiderio sʼaccendono di divenir ricchi, che il trapassar lʼAlpi e le montagne eʼ fiumi, e navigando divenire alle nazioni strane, tirati dalla speranza e sospinti dal disiderio, par loro leggerissima cosa; avendo del tutto in dispregio ciò che Seneca intorno a queste fatiche scrive a Lucillo, dove dice: «Magnae divitiae sunt, lege naturae, composita paupertas. Lex autem illa naturae scis quos terminos nobis statuat: non exurire, non sitire, non algere; ut famem sitimque depellas, non est necesse superbis assidere liminibus, nec supercilium grave et contumeliosam etiam humilitatem pati; non est necesse maria tentare, nec sequi castra; parabile est quod natura desiderat et appositam. Ad supervacua sudatur: illa sunt quae togam conterunt, quae nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora impingunt. Ad manum est, quod sal est: qui cum paupertate bene convenit, dives est». E se questi cotali fossono contenti quando ad alcun convenevole termine pervenuti sono, o fossero contenti di pervenire a questo termine con onesta fatica e laudevole guadagno, forse qualche scusa il naturale appetito, il quale abbiamo infisso, dʼavere, gli troverebbe; ma, percioché, a questo, modo non si sa porre, tutti nel miserabile vizio trapassiamo, cioè in soperchio volere piú che non si conviene. È il vero che il trapassar per questa via il convenevole par tollerabile, quando a quelle che molti altri tengono si riguarda.

Sono i piú sí offuscati dallʼappetito concupiscibile, che ogni onestá, ogni ragione, ogni dovere cacciano da sé, in dover per qualunque via ragunare, non solamente piú che non bisogna ad uno, ma ancora piú che non bisognerebbe a molti: e, per pervenire a questo, altri si dánno senza alcuna coscienza a prestare ad usura, altri a rubare e occupare con violenza lʼaltrui, altri ad ingannare e fraudolentemente acquistare, e con altri esercizi simili, non piú dʼinfamia che di fama curando, si sforzano le lor fortune ampliare. Contro a questi cotali dice Tullio nel libro terzo Degli offici: «Detrahere igitur alteri aliquid, et hominem hominis incommodo suum commodum augere, magis est contra naturam, quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam caetera, quae possunt aut corpori accidere, aut rebus aeternis», ecc.

 

Sono nondimeno alcuni altri, li quali pare che prima facie vogliano e ingegninsi dʼavere piú che il bisogno non richiede, li quali sono a distinguere da questi, percioché, dove i predetti sono pessima spezie dʼavari, quelli, dei quali intendo di dire, non si posson con ragione dire avari, né sono. Son di quegli li quali, in nulla parte passato il dovere, con diligenzia sʼingegneranno di fare che i lor campi loro abbondevolmente rispondano: questo è giusto disiderio e giusta operazione, quantunque ella trapassi il bisogno, percioché quel piú in assai cose commendabili si può poi a luogo e a tempo adoperare. Alcuni altri, per non stare oziosi, con ogni lealtá faranno una loro arte, alcuna mercatanzia, li quali, quantunque piú che lor non bisogna avanzin di questa, non sono perciò da reputare avari. Altri sʼingegnano di riscuotere e di racquistare quello o che hanno creduto o che hanno prestato del loro ad altrui: né questo è da dire avarizia, quantunque sia piú che quel che bisogna a chi il raddomanda. E similmente sono alcuni altri, li quali col sudore e con la fatica loro, o per prezzo o per provvisione si fien messi al servigio dʼalcun altro e con fede lʼavranno servito: il domandar questo, e il volerlo, niuna ragion vuole che sia reputata avarizia.

È, oltre alla predetta, la seconda spezie dʼavarizia, la quale consiste in difetto di dare dove e quanto si conviene; e in questa quasi tutta lʼuniversitá degli uomini pecca. Sonne alcuni, che, poi che per loro opera o per lʼaltrui sono divenuti ricchi, sono sí fieramente tenaci, che, non che pietá o misericordia gli muova a sovvenire eziandio dʼuna piccola quantitá un bisognoso, ma aʼ figliuoli, alle mogli e a se medesimi son sí scarsi, che, non che in altro si ristringano, ma essi né beono né mangiano quanto il naturale uso disidera; e dellʼaltrui prenderebbono, se loro dato ne fosse. Alcuni altri ne sono, li quali né onore né dono voglion ricevere da alcuni, per non avere a dare o ad onorare.

Alcuni altri ne sono, li quali non solamente alle loro vigilie o aʼ cassoni ferrati li loro tesori fidano, ma, fatte profondissime fosse neʼ luoghi men sospetti, gli sotterrano: di che segue assai sovente, come essi vivendo non ne hanno avuto bene, cosí dopo la morte loro non ne puote avere alcun altro. E pallian questi cotali la lor miseria col dire: noi siamo solenni guardatori del nostro, accioché alcuno bisogno non ne costringa a dimandar lʼaltrui, o a fare altra cosa che piú disonesta fosse che lʼavere ben guardato il suo. E di questi cotali sono alcuni piú da riprendere che alcuni altri; sí come noi veggiamo spesse volte avvenire che alcuno per ereditá diverrá abbondante, senza avere in ciò alcuna fatica durata, e nondimeno sará piú tenace che se per sua industria o procaccio ricco divenuto fosse: il che, oltre al vizio, pare una cosa mirabile, percioché in loro non dovrebbe avvenir quello che in coloro avviene, li quali con suo grandissimo affanno hanno ragunato quello che essi poi con sollecitudine guardano; e ciascuno naturalmente, secondo che dice Aristotile, ama le sue opere piú che lʼaltrui, come i padri i figliuoli e i poeti i versi loro. E di questi medesimi si posson dire essere i cherici, neʼ quali è questo peccato tanto piú vituperevole, quanto con men difficultá lʼampissime entrate posseggono, non di loro patrimonio, non di loro acquisto pervenute loro; e, oltre a ciò, con men ragione le ritengono, percioché i loro esercizi deono essere intorno alle cose divine, allʼopere della misericordia e di ciascuna altra pietosa cosa: deono stare in orazione, digiunare, sobriamente vivere, e dar di sé buono esemplo agli altri in disprezzare le cose temporali e ʼl mondo, e seguire con povertá le vestigie di Cristo, accioché, bene adoperando, appaiano le loro opere esser conformi alla dottrina. Le quali cose come essi le fanno, Iddio il vede.

È, appresso, questo vizio meno abbominevole in una etá che in unʼaltra, percioché lʼessere un giovane avaro, senza dubbio non riceve scusa alcuna, percioché lʼetá del giovane è di sua natura liberale, sí come quella che si vede forte e atante neʼ bisogni sopravvegnenti, ed è piena di mille speranze e dʼaltrettanti aiuti, e molte vie o vede o le par vedere da potere risarcire quello che speso fosse, o dʼacquistar di nuovo; il che neʼ vecchi non puote avvenire, percioché essi, li quali il piú sono astuti e avveduti, non si veggono, procedendo avanti nel tempo, rimanere alcuno aiuto né amico, se non le sustanze temporali; e in contrario si veggono ogni dí pieni di bisogni nuovi e inopinati, e similmente sʼaccorgono che, essendo essi delle dette sustanze abbondevoli, non mancar loro lʼessere serviti e aiutati e avuti cari, da coloro spezialmente li quali sperano, secondo il loro adoperare verso loro, doversi nella fine dettare il testamento; dove spesso, se essi senza denari, senza derrate sono, non che daʼ piú lontani, ma dalle mogli, daʼ figliuoli, daʼ fratelli sono scacciati, ributtati e avviliti e avuti in dispregio. La qual paura se considerata fia, non sará alcuno che si maravigli se essi son tenaci e ancora cupidi dʼavanzare, se il come vedessero.

Contro a costoro gridano la dottrina evangelica, i santi, i filosofi eʼ poeti. Leggesi nellʼEvangelio di Luca, capitolo quinto: «Vae vobis, divitibus!»; e nella Canonica di san Iacopo, capitolo quinto: «Agite nunc, divites, plorate ululantes in miseriis, quae evenient vobis»; e nello Evangelio: «Mortuus est dives, et sepultus est in inferno». Ed Abacuc, capitolo secondo, dice: «Vae qui congregat non sua!»; ed esso medesimo, capitolo decimo: «Vae qui congregat avaritiam malam domui suae!»; e lʼEcclesiastico, decimo: «Avaro nihil est scelestius». E santo Agostino dice: «Vae illis, qui vivunt ut augeant res perituras, unde aeternas amittunt!»; ed esso medesimo: «Maledictus dispensator avarus, cui largus est Dominus». E Seneca a Lucillo, epistola diciassettesima, scrive: «Multis parasse divitias, non finis miseriarum fuit, sed mutatio». E Tullio in primo Officiorum: «Nihil est tam angusti animi parvique, quam amare divitias; nihil honestius magnificentiusque, quam pecuniam contemnere, si non habeas; si habeas, ad beneficentiam liberalitatemque conferre». E Virgilio, nel terzo dellʼEneida:

 
…quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames?
 

E Persio scrive:

 
Discite, o miseri, et causas cognoscite rerum:
quis modus argento, quid fas optare, quid asper
utile nummus habet? ecc.
 

E Giovenale ancora dice:

 
Sed quo divitias haec per tormenta coactas?
Cum furor haud dubius, cum sit manifesta phrenesis,
ut locuples moriaris, egenti vivere fato, ecc.
 

Mostrato che cosa sia avarizia e in che pecchi lʼavaro, percioché in quel medesimo luogo e tormento sono i prodighi tormentati, è sotto brevitá da vedere che cosa sia prodigalitá e in che il prodigo pecchi. È prodigalitá, secondo che Aristotile vuole nel quarto dellʼEtica, lʼuno degli estremi della liberalitá, opposito allʼavarizia; e, cosí come lʼavarizia consiste in tenere dove e come e quando non si conviene, e disiderare e adoperare dʼavere piú che non si conviene, e donde e da cui non si conviene; cosí la prodigalitá consiste in donare e spendere quanto e come e dove non si conviene, e sta questo nel trapassare ogni termine di debita spesa intorno a quella cosa, la quale alcun far vuole o che si conviene: come neʼ vestimenti e negli ornamenti veggiamo spesse volte alcuni trasandare, senza considerare la qualitá, la nazione o lo stato suo, e lʼentrate eʼ frutti delle sue possessioni; come ancora veggiamo nel convitare, nel quale senza considerare a cui, o quando o dove il convito sʼapparecchi, quella spesa si fa per privati uomini, e di bassa condizione o di vile, che se per alcun prencipe o venerabile uomo si facesse (come si legge faceva il figliuolo dʼIsopo filosafo, il quale, rimaso del padre ricchissimo, per dar mangiare aʼ suoi pari, comperava gli usignuoli, i montanelli, i calderugi, i pappagalli, li quali gli uomini hanno carissimi per lo lor ben cantare, e, quando grassi gli trovava, non gli lasciava per danaio, e quegli arrostiti poi poneva innanzi aʼ suoi convitati: per che talvolta avveniva essere per avventura costato il boccone dieci fiorini dʼoro), o come ancora si può fare in cose assai. Il come consiste negli apparati: coroneranno alcuni le sale, ornerannole di drappi ad oro, metteranno le mense splendide, faranno venire i trombatori, i saltatori, i cantatori, i trastullatori, i servidori pettinati, azzimati e leggiadri, non come se scellerati e scostumati uomini vi dovesser mangiare, come le piú volte fanno, ma re o imperadori; useranno ancora maravigliosa sollecitudine, non dico nelle sale o nelle camere, ma nelle stalle e neʼ cellieri, in far le mangiatoie intarsiate, i sedili iscorniciati, e gli altri vasi a questi luoghi opportuni cosí esquisiti, come se negli occhi sempre aver gli dovessero e al lor proprio uso adoperargli. Peccasi ancora nel dove i doni e le spese smisuratamente si fanno, cioè in cui e in quanto: le piú delle volte a ghiottoni, a lusinghieri, a ruffiani, a buffoni, a femminette di disonesta vita e di vilissima condizione si faranno doni magnifichi, li quali sarebbono ad eccellentissimi uomini accettevoli; apparecchierannosi loro cavalcature, farannosi letti e scalderannosi i bagni non altramenti che se nobili e segnalati uomini dovessero pervenirvi: e, se per avventura un valente uomo capitasse alle case di questi cotali gittatori, con tristo viso, con leggieri spese malvolentieri ricevuto vi fia. Ora in queste e in simili cose consiste il vizio della prodigalitá e il prodigo gitta via il suo.

È, oltre a questo, il prodigo in parte simile allʼavaro, in quanto esso disidera, e con ardente sollecitudine, dʼacquistare; e in ciò posta giuso ogni coscienza, ogni onestá e dovere, non cura come né donde si venga lʼacquisto: per che talvolta commette baratterie, frodi e inganni e violenze; ma nol fa al fine che lʼavaro, cioè per adunare, ma per aver piú che gittar via. E se alcuni sono in questo vizio oltre ad ogni misura peccatori, sono i cherici, cioè i gran prelati, percioché essi il piú, senza avere alcun riguardo a Dio, né al popolo loro commesso, o alla qualitá di colui in cui conferiscono, concedono, anzi gittano gli arcivescovadi, i vescovadi, le badie e lʼaltre prelature e benefici di santa Chiesa ad idioti, ebriachi, manicatori, furiosi, dʼogni scelleratezza viziosi e cattivi uomini: di che il popolo cristiano non solamente non è allʼopportunitá sovvenuto, ma dalle miserie e cattivitá di cosí fatti pastori son trasviati allo ʼnferno, dietro al malo esempio.

Piace, oltre alle dette cose, ad Aristotile, questo vizio della prodigalitá essere assai men dannevole che quello dellʼavarizia, percioché, non ostante che dellʼavarizia né lʼavaro né alcun altro abbia alcun bene, dove della prodigalitá pur nʼhanno bene alcuni, quantunque mal degni, pare la prodigalitá non debba potersi accrescere né divenir maggiore, percioché il prodigo continuamente diminuisce le sustanze sue, senza le quali la prodigalitá non si può mandare ad esecuzione, e, diminuendosi, pare di necessitá si debba diminuire il vizio: il che dellʼavarizia non avviene, percioché lʼavaro continuamente accresce il suo, e, accrescendolo, accresce la cupidigia dellʼaver piú. Appresso, il vizio il quale si può in alcuna maniera curare pare essere minore che quello che curar non si può; e la prodigalitá si può curare, il che non si può lʼavarizia: e però pare la prodigalitá esser minor vizio che lʼavarizia. Il che, quantunque per una ragione di sopra mostrato sia, si può ancora mostrar con due altre, cioè che la prodigalitá si possa curare. Delle quali ragioni è lʼuna questa: curasi la prodigalitá dal tempo, percioché, quanto lʼuomo piú sʼavvicina alla vecchiezza, tanto diventa piú inchinevole a ritenere, per la ragione di sopra mostrata, dove si disse perché i vecchi eran piú avari che i giovani: e non è alcun dubbio le ricchezze naturalmente disiderarsi, accioché lʼuom possa per quelle sovvenire aʼ difetti umani; e perciò convenevole pare, quanto alcuno sente i difetti maggiori, tanto piú inchinevole sia a quelle cose, per le quali si puote o rimediare o sovvenire a quegli. La seconda ragione è, percioché la povertá è ottima medica a cotale infermitá, e in essa si perviene assai agevolmente da chi gitta e scialacqua senza modo e senza misura il suo, sí come i prodighi fanno; e chi in essa diviene, non può donar né spendere, e cosí si truova guerito di questo vizio; il che dellʼavarizia non avviene, come mostrato è.

 

Pare adunque, per le ragioni dette, la prodigalitá essere minor vizio che lʼavarizia. E se cosí è, sará chi moverá qui una question cosí fatta: se la prodigalitá è minor vizio che lʼavarizia, perché dimostra qui lʼautore essere in igual tormento puniti i prodighi e gli avari, conciosiacosaché il minor vizio meriti minor pena? Puossi a questa cosí rispondere: che il vizio della prodigalitá non è in sé minore che lʼavarizia, percioché, dove lʼavarizia procede da naturale appetito, pare che la prodigalitá abbia origine da stoltizia, chʼè spezie di bestialitá. Laonde, se alcuna cosa di questo vizio pare che diminuisca lʼessere curabile, questa bestialitá della stoltizia pare che il supplisca; e, oltre a ciò, quantunque curabile paia questo vizio, egli non si cura né per volontá né per opera laudevole del vizioso, e cosí per questo il vizioso non merita; e similmente, quantunque cessata sia la cagione, e per conseguente lʼeffetto, per le sopradette ragioni, nel prodigo, dove il disiderio non cessi di quel medesimo adoperare, avendo di che, non pare, non che curato sia, ma diminuito il vizio. E nelle nostre colpe riguarda la divina giustizia non solamente lʼopere, ma ancora la volontá: e non pecca in assai cose meno chi vuole e non puote che chi vuole e puote; e perciò, non diminuendosi lʼabito preso del vizio, non diminuisce il vizio nello abituato. Laonde convenientemente segue in igual supplicio punirsi il prodigo e lʼavaro. E percioché questi due peccati sono radice e principio di molti mali, agramente insieme puniti sono, accioché in eterno si pianga lʼavere per loro non solamente dimenticato Iddio, e in luogo di lui avere adorati e onorati i denari, ma ancora vendutolo come fece Giuda, e come molti altri fanno, che, giurando e spergiurando, simoneggiando e ingannando, tutto il giorno il vendono; e lʼaver venduta la giustizia, corrotto le leggi, falsificati i testamenti, i metalli e le monete, assediate le strade, commessi i tradimenti, i furti, gli omicidii; lʼesser lusinghiere divenuto e ad ogni malvagio guadagno inchinevole; lʼaver la loro verginitá, la pudicizia, lʼonestá e ogni vergogna posta giú, e lʼesser divenute menandare, maliose, venefiche e indovine.

La pena adunque attribuita a questi peccatori è da vedere come sia conforme al peccato. Come detto è, tutta la sollecitudine dellʼavaro è in ragunare e in tenere il ragunato e in guardarlo piú che si conviene; e quella del prodigo è in procurare con ogni studio dʼavere e di male spender quello che aver puote: e però assai convenevolmente pare che dalla divina giustizia puniti sieno nel continuo volgere gravissimi pesi col petto, e con quegli lʼavaro e ʼl prodigo amaramente urtarsi e percuotersi insieme. Per lo quale atto è da intendere che, come in questa vita, senza darsi alcun riposo, a diversi e contrari fini faticarono, satisfacendo allʼappetito loro e in quello sentendo dannosa dilettazione; cosí in inferno perduti, per grande afflizion di loro, son posti in continuo esercizio di volger col petto pesi che sien loro faticosi e noiosi: e con quegli, come a diversi fini, vivendo, affannarono, diverse opinioni seguitando, cosí, lʼuno incontro allʼaltro facendosi, si percuotano e molestino, in lor maggior dolore la loro viziosa vita con ontoso verso si rimproverino. E accioché nel tormento loro si dimostri essi mai nella presente vita alcuna quiete non avere avuta, né doverla in quella sperare, vuole la giustizia che il loro discorrimento a tanta noia sia circulare.

Appresso, lʼesser queste due spezie di vizio poste sotto la giurisdizione di Plutone si dee credere non esser fatto senza ragione. [Io vi mostrai di sopra questo Plutone essere disegnato per lo padre delle ricchezze, e quello che la sua cittá, la corte, i circustanti, il carro, lo sterile matrimonio e il can tricerbero era da intendere: le quali son tutte cose spettanti ed allʼun vizio ed allʼaltro, se sanamente si riguarderá.] E perciò, comeché lʼautor non scriva questo dimonio alcuna cosa adoperare in costoro, che sotto la sua giurisdizion son dannati, nondimeno si può comprendere lui, cioè il suo significato (oltre allʼontoso verso che lʼuna parte contro allʼaltra dice), sempre con la sua presenzia raccendere nella memoria degli avari i tesori, tanto amati da loro e per molte vie acquistati e con vigilante cura guardati, essere stati da loro lasciati e, in un punto, tutti i lor pensieri, tutte le loro speranze, tutte le lor fatiche non solamente essere evacuate e vane, ma essi ancora esserne venuti a perdizione. Per che creder si dee loro con vana compunzione piangere e dolersi che, poiché pur da loro partir si doveano, non li aveano con liberale animo aʼ bisognosi participati: della qual cosa loro sarebbe seguita eterna salute, dove essi, per lo non farlo, ne san caduti in perpetua perdizione. E cosí similmente i prodighi, per lʼaspetto di Plutone si ricordano, se per caso alcuno loro uscisse di mente, deʼ loro tesori e delle loro ricchezze disutilmente, anzi dannosamente spese, donate e gittate; e dove, bene e debitamente spendendole, potevano acquistar quella gloria che mai fine aver non dee, dove per lo contrario si veggiono in tormento e in miseria sempiterna: la quale assidua ricordazione si dee credere esser loro afflizion continua e incomparabile dolore, il quale con inestinguibile fiamma sempre di nuovo accende le coscienze loro.

«Or discendiamo omai a maggior pièta», ecc. Questa è la seconda parte principale di questo settimo canto, nella quale, sí come nella esposizion testuale appare, lʼautore del cerchio quarto discende nel quinto. E avendogli la ragion dimostrato che colpa sia quella del vizio dellʼavarizia e della prodigalitá, e che tormento per quella ricevano i dannati; in questo quinto cerchio gli dimostra punirsi la colpa dellʼira e quella dellʼaccidia. Le quali accioché alquanto meglio si comprendano, e piú piena notizia sʼabbia della intenzion dellʼautore, è alquanto da dichiarare in che questi due vizi consistano, e quindi verremo a dimostrare come con la pena si confaccia la colpa.

Se noi adunque vogliam sanamente guardare, assai leggermente potrem vedere che alcuno deʼ quattro elementi non è, il quale sia tanto stimolato, tanto infestato, né tanto percosso e rivolto dal cielo, dallʼacqua e dagli uomini, quanto è la terra. Questa nelle sue parti intrinseche è con vari strumenti cavata e ricercata, accioché di quelle i metalli nascosi si traggano, evellansi i candidi marmi, i durissimi porfidi e lʼaltre pietre di qualunque ragione, facciansi cadere le fortezze sopra gli alti monti fermate, e facciansi pervie quelle parti, le quali da sé non prestavano leggermente lʼandare; questa nella sua superficie ora daʼ marroni, ora daʼ bómeri e ora dalle vanghe è rivolta, cavata e rotta e dʼuna parte in unʼaltra gittata; questa daʼ templi mirabili, dagli edifici eccelsi delle cittá grandissime è oppressa, caricata e premuta; questa dagli animali, daʼ carri, e da ponderosissimi strascinii è attrita e scalpitata; questa dal mare, daʼ fiumi e daʼ torrenti è rosa, estenuata e trasportata; questa dalle selve, dallʼerbe e dalle semente continue è poppata, sugata e munta; questa è dagli incendi evaporanti arsa, dalle folgori celestiali percossa e daʼ tremuoti sotterranei dicrollata; questa è dai diluvi dilavata, daʼ raggi solari esusta e daʼ ghiacci ristretta. Chi potrebbe assai pienamente raccontare le molestie, dalle quali ella è senza alcuna intermissione offesa e malmenata? Né per tutte le raccontate ingiurie, né per molte altre, leggiamo o veggiamo che essa alcuna volta rammaricata si sia, o si rammarichi; tanta è la sua umiltá costante e paziente. Per la qual cosa forse creder si potrebbe esser piú tosto piaciuto al nostro Creatore dʼaver di quella il corpo dellʼuom composto che dʼaltro elemento o dʼaltra materia, accioché la natura di questa, della qual fu composto, seguitando, fosse paziente, e con tolleranzia fermissima sostenesse i casi per qualunque cagione emergenti.

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