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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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«Qui pose fine», Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento; e chiamalo «lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e cagione di povertá e di miseria e di pianto, e tra gli altri allʼautor medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo esilio. [Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicon cosí, che, conciosiacosaché singular grazia di Dio sia il prevedere le cose future, e i dannati del tutto la divina grazia aver perduta, non pare che convenientemente qui lʼautore induca lʼanima di Ciacco dannata a dover predire le cose, le quali scrive gli predisse. Alla soluzione del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero alcuna cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual veramente i dannati hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio ad alcune delle sue creature nella loro creazione certe grazie, le quali esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente conoscere che, quantunque gli angeli, li quali per la loro superbia furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine privati fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella loro creazione avea loro conceduta; o vero che questa non fu lor lasciata in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio, percioché quanto piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale per loro difetto perduta hanno, e per conseguente maggiore. supplicio sentono. E cosí similemente crea Nostro Signore lʼanime nostre perfette e simiglianti a sé; e, quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter salire aʼ beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella lor creazione furono lor concedute da Dio, quantunque in danno di loro siano lor lasciate da Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da Dio, sono molte, percioché esso ne dona la ragione, la volontá, il libero arbitrio, e dánne la memoria, lʼeternitá e lo ʼntelletto, e in queste cose ne fa simili a sé: le quali cose, quantunque nella sua ira moiamo, in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua divinitá, la quale conceduta nʼha. E se questa rimane aʼ dannati, meritamente delle cose future si possono addomandare, ed essi ne posson rispondere: per che non pare che lʼautore inconvenientemente abbia del futuro addomandata lʼanima dannata. Ma che le predette dote ne sien concedute, pare che si provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi nel principio del Genesi: «Dixit Deus: – Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram». – E se fece egli questo, che il fece, dunque abbiam noi le cose predette.]

[È il vero che queste cose furon concedute allʼanima e non al corpo, percioché il corpo nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio: percioché Domeneddio, come altra volta è detto, non ha né mani né piedi né alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata forma possan comprendere i misteri, che sotto questa forma la Scrittura intende. Furono adunque concedute allʼanima, la quale esso per ciò chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è lʼuomo, mentre ella sta congiunta col corpo. E di questi cosí magnifichi doni, come che tutti gli eserciti lʼanima mentre viviamo, nondimeno alcuni nʼesercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinitá ne sia conceduta, e che ella nelle nostre anime sia, in certe cose appare vivendo noi, quantunque, essendo oppressa da questa gravitá del corpo, rade volte e con difficultá le intervenga il potere sé esser divina mostrare; nondimeno il dimostra talvolta dormendo, il corpo sobrio e ben disposto e soluto dalle cure corporali, sí come Tullio ne dimostra in libro De divinatione, in quanto, quasi alleviata neʼ sogni, ne dimostra le cose future. Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna viva voce fatta a Simonide poeta, volente dʼuna parte in unʼaltra navicare, che in sua salute gli fece la divinitá della sua anima nel sonno vedere? Aveva il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il quale gittato dal mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli parve, dormendo, vedere, e udire da lui: – Simonide, non salire sopra la nave, su la quale tu ti disponi dʼandare, percioché ella perirá con quegli che su vi fieno in questo viaggio. – Per la qual cosa Simonide sʼastenne; né molti dí passarono, che con certezza gli fu recitato quella nave esser perita. Non fu similemente non una volta, ma due, dimostrato nel sonno ad Astiage che ʼl figliuolo, il quale di Mandane, sua unica figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio dʼAsia? parendogli la prima volta che lʼorina della figliuola allagasse tutta Asia, e la seconda che dalla parte genitale della figliuola usciva una vite, i palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E di queste dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per certo, senza divino lume, né potrebbe conoscer lʼanima, né le potrebbe mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato libro, mostra lʼanima molto della sua divinitá, quando gravissimamente infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è il corpo debole, piú pare che sia il vigor dellʼanima, e massimamente in quanto, per lʼessere le forze corporali diminuite, non pare che possano gravar lʼanima, come quando intere sono. E che lʼanima mostri la sua divinitá vicina alla fine della vita del corpo, sʼè assai volte, non dormendo, ma vegghiando veduto: e sí come esso Tullio recita sé da Possidonio, famoso filosofo, avere avuto, che uno chiamato Modio, morendo, aver nominato sei suoi equali amici, li quali disse dovere appresso di sé morire, esprimendo qual primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli altri; e ciò poi essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato Calano dʼIndia, essendo salito, nella presenza dʼAlessandro, re di Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea fatto, e domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa facesse, gli rispose: – Io ti vedrò di qui a pochi dí; – e quindi, fatto accendere il rogo, si mori. Non istette guari che Alessandro morí in Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in queʼ tempi io non era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nellʼanno pestifero del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali deʼ loro amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo: – vienne, tale e tale, – deʼ quali chiamati e nominati, assai, secondo lʼordine tenuto dal chiamatore, sʼeran morti e andatine appresso al chiamatore. Per la qual cosa assai appare nellʼanime nostre essere alcuna divinitá, e quella essere molto noiata da glʼimpedimenti corporali, e nondimeno, come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo avviene essendo esse neʼ corpi legate, che dobbiam noi estimare che esse debbano intorno a questa lor divinitá dover potere adoperare, quando del tutto daʼ corpi libere sono? Eʼ non è dubbio che molto piú la debban poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente lʼautore aver domandata lʼanima dannata, come altra volta è stato detto, delle cose future, né essa averne risposto; come coloro, che il dubbio moveano, volevan mostrare.]

[È il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua divinitá in alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla veritá; ma dobbiam credere che, se per virtú di questa divinitá essa prevede alcuna felicitá dʼalcuno, questo essere ad accrescimento della sua miseria, e cosí il prevedere glʼinfortuni, li quali afflizione e noia gli debbono aggiugnere.]

«Ed io a lui», cioè a Ciacco, dissi: – «Ancor», oltre a ciò che detto mʼhai, «voʼ che mʼinsegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi facci dono», dicendomi: «Farinata» degli Uberti «e ʼl Tegghiaio», Aldobrandi, «che fûr sí degni» dʼonore, quanto è al giudicio deʼ volgari, li quali sempre secondo lʼapparenza delle cose esteriori giudicano, senza guardare quello onde si muovono o che importino; «Iacopo Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», deʼ Lamberti.

Furono, questi, cinque onorevoli e famosi cavalieri e cittadini di Firenze; e, perché i loro nomi paion degni di fama, di loro in singularitá domanda lʼautore, dimostrando poi in generalitá degli altri.

«E gli altri», nostri cittadini, «che ʼn ben far», corteseggiando e onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, «poser glʼingegni», cioè ogni loro avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu il sai, «ove sono», se son qui con teco o se sono in altra parte, «e faʼ chʼio gli conosca»; quasi voglia dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento, nel quale seʼ, gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere Se ʼl ciel gli addolcia», cioè con dolcezza consola, «o lʼinferno gli attosca», – cioè riempie dʼamaritudine e di tormento.

«E quegli» (supple) rispose: – «Ei son», coloro deʼ quali tu domandi, «tra lʼanime piú nere».

Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra creatura, ma egli, per superbia peccando, divenne oscuro e tenebroso; e cosí, producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non pecchiamo, nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che noi pecchiamo, incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá, che avevamo, a divenire oscura, e quanto piú pecchiamo, in maggiore oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, deʼ quali lʼautore domanda, essere tra «lʼanime piú nere», cioè piú oscure, e soggiugne la cagione dicendo: «Diverse colpe giú gli grava al fondo». E dice «diverse colpe», percioché per lo disonesto peccato della sogdomia Tegghiaio Aldobrandi e lacopo Rusticucci son puniti dentro alla cittá di Dite nel canto decimosesto di questo libro; Farinata per eresia nel decimo canto; e ʼl Mosca, perché fu scismatico, nel canto ventottesimo. I quali peccati, perché sono piú gravi assai, come si dimostrerá, che non è la gola, gli aggrava e fa andare piú giuso verso il fondo dellʼinferno. «Se tanto scendi», quanto essi son giuso, «gli potrai vedere».

 

«Ma, quando tu sarai nel dolce mondo». Possiam da queste parole comprendere quanta sia lʼamaritudine delle pene infernali, quando questa anima chiama questo mondo «dolce», nel quale non è cosa alcuna, altro che piena dʼangoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti chʼalla mente altrui mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste parole, possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale, quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno non lʼha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio lasciare, che egli non addomandasse che lʼautore di lui, tornato di qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti. «Piú non ti dico», cioè dʼaltro non ti priego, «e piú non ti rispondo», – alle cose delle quali domandato mʼhai.

«Li diritti occhi», coʼ quali infino a quel punto guardato avea lʼautore, «torse allora in biechi», come dette ebbe queste parole; e dice «in biechi», quasi «in guerci». «Guardommi un poco»: atto è di coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di vedere coloro che davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde con essa a par degli altri ciechi», cioè deʼ dannati a quella medesima pena, che era dannato esso. E cognominagli «ciechi», percioché perduto hanno il vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di Dio.

«E ʼl duca disse a me», poi che Ciacco fu ricaduto: – «Piú non si desta», cioè non si rileva piú; e cosí pare che, tra lʼaltre pene che i golosi hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per alcuna cagione, come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa levare né parlare; «Di qua dal suon dellʼangelica tromba», cioè di qua dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrá, e con altissima voce, quasi sia una tromba, eʼ dirá: – «Surgite, mortui, et venite ad iudicium»; – «Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati, «la nimica podestá», cioè Cristo, in cui il Padre ha commessa ogni podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella maestá divina, ma il vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui essere turbato verso di loro, come contra nemici: [ma ciò non fia vero, percioché il giusto giudice, come sará ed è Cristo, non si commuove contro a colui il quale ha offeso; percioché, se egli facesse questo, parrebbe che egli animosamente venisse alla sentenza. Ma questo è il costume di coloro che hanno offeso, che, come sentono dire cosa che gli trafigga, cosí si turbano; e come sono turbati essi, cosí par loro che sia turbato colui che meritamente gli riprende.]

E seguisce, al suono dellʼangelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la trista tomba». Dice «rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba», cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua carne e sua figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza, [sará loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma accioché il corpo, il quale fu strumento dellʼanima a commettere le colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;] e, ripreso il corpo, ciascuno «Udirá quel che in eterno rimbomba», cioè risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la sentenza di Dio, nella quale Cristo dirá aʼ dannati: – «Ite maledicti in ignem aeternum», – ecc., le quali parole in eterno non caderanno della mente loro.

«Sí trapassammo». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale lʼautore muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion di quello. Dice adunque: «Sí», cioè cosí ragionando, «trapassammo», lasciato Ciacco, «per sozza mistura Dellʼombre e della pioggia», la quale, essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza ancora diveniva per la terra, la qual putiva, ricevendo la pioggia; «a passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non pativa che molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo; «Toccando un poco la vita futura», cioè ragionando della futura vita. E questo mostra fosse intorno alla resurrezione deʼ corpi, sí per le parole passate, e sí ancora per quello che appare nel dubbio mosso dallʼautore.

«Perchʼio dissi: – Maestro», continuandomi a quello che della futura vita ragionavamo, «esti tormenti», li quali io veggio in queste anime dannate, «Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data da Dio nellʼultimo e universal giudicio, «O fien minori», che al presente sieno, «o saran sí cocenti», – come sono al presente?

«Ed egli a me» (supple) rispose: – «Ritorna a tua scienza», alla filosofia, «Che vuol, quanto la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene, e cosí la doglienza». E questoʼ ci è tutto il dí manifesto, percioché noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli; vedrem similmente un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura, dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e glʼincendi molte volte fattigli nella persona: e cosí adunque, sí come séguita, dobbiam credere dovere avvenire aʼ dannati, quando i corpi avranno riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú sentire.

«Tutto», cioè avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati, «In vera perfezion». «Perfezione» è un nome il quale sempre suona in bene e in aumento della cosa, la quale di non perfetta divien perfetta: e, percioché neʼ dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo per riavere i corpi non saranno piú perfetti, ma piú tosto diminuiti, dice lʼautore: «In vera perfezion giammai non vada». Andrá adunque non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in quanto riavranno i corpi cosí come gli riavranno i beati; ma i beati gli riavranno in aumento di gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento di tormento e di pena, la quale è diminuzione di perfezione. «Di lá», cioè dalla sentenzia di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia, «essere aspetta», – in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti, molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dí che i corpi riprenderanno.

«Noi aggirammo». Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale lʼautor mostra dove pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella strada», e dice «a tondo», percioché ritondo è quello luogo, come molte volte è stato detto; «Parlando piú assai chʼio non ridico», pure intorno alla vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si disgrada», per discendere nel quarto cerchio dello ʼnferno. «Quivi trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.

Il qual Pluto, chi egli sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno il chiama qui lʼautore avvedutamente «il gran nimico», in quanto, come si dirá appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali in tanto sono aʼ mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono il possessor di quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo Cristo nellʼEvangelio: essere piú malagevol cosa ad un ricco entrare in paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dellʼago. [Le quali parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo che ad alcun dottor piace, si deono intendere cosí: cioè essere in Ierusalem stata una porta chiamata Cruna dʼago, sí piccola, che senza scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma scaricato vʼentrava. E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá al ricco, cioè allʼabbondante di qualunque sustanza, ma in singularitá delle ricchezze male acquistate, di porre la soma di quelle giuso, se entrare vogliono in paradiso, lʼentrata del quale è strettissima. Se adunque esse impediscono il nostro entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si possono grandissime nostre nemiche, ecc.]

II
Senso Allegorico

«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Nel principio di questo canto lʼautore, sí come di sopra ha fatto negli altri, cosí si continua alle cose seguenti. Mostrògli nel precedente canto la ragione, come i lussuriosi, li quali nellʼira di Dio muoiono, sieno dalla divina giustizia puniti; e percioché la colpa della gola è piú grave che il peccato della lussuria, in quanto la gola è cagione della lussuria, e non e converso, gli dimostra in questo terzo cerchio la ragione, come il giudicio di Dio con eterno supplicio punisca i golosi.

A detestazion deʼ quali, e accioché piú agevolmente si comprenda quello che sotto la corteccia litterale è nascoso, alquanto piú di lontano cominceremo.

Creò il Nostro Signore il mondo e ogni creatura che in quello è; e, separate lʼacque, e quelle, oltre allʼuniversal fonte, per molti fiumi su per la terra divise, e prodotti gli alberi fruttiferi, lʼerbe e gli animali, e di quegli riempiute lʼacque, lʼaere e le selve, tanto fu cortese aʼ nostri primi parenti, che, non ostante che contro al suo comandamento avessero adoperato, ed esso per quello gli avesse di paradiso cacciati, tutte le sopradette cose da lui prodotte sottomise alli lor piedi, sí come dice il salmista: «Omnia subiecisti sub pedibus eius, oves et boves et universa pecora campi, et volucres caeli, et pisces maris, qui perambulant semilas maris»; e, come queste, cosí molto maggiormente i frutti prodotti dalla terra, di sua spontanea volontá germinante. Per la qual cosa con assai leggier fatica, sí come per molti si crede, per molti secoli si nutricò e visse innocua lʼumana generazione dopo ʼl diluvio universale. I cibi della quale furono le ghiande, il sapor delle quali era aʼ rozzi popoli non men soave al gusto, che oggi sia aʼ golosi di qualunque piú morbido pane; le mele salvatiche, le castagne, i fichi, le noci e mille spezie di frutti, deʼ quali cosí come spontanei producitori erano gli alberi, cosí similemente liberalissimi donatori. Erano, oltre a ciò, le radici dellʼerbe, lʼerbe medesime piene dʼinfiniti, salutevoli non men che dilettevoli, sapori; e le domestiche gregge delle pecore, delle capre, deʼ buoi prestavan loro abbondevolmente latte, carne, vestimenti e calzamenti, senza alcun servigio di beccaro, di sarto o di calzolaio; oltre a ciò, lʼapi, sollecito animale, senza alcuna ingiuria riceverne, amministravano a quegli i fiari pieni di mèle; e la loro naturale piú tosto che provocata sete saziavano le chiare fonti, i ruscelletti argentei e gli abbondantissimi fiumi. E a queste prime genti le recenti ombre deʼ pini, delle querce, degli olmi e degli altri arbori temperavano i calori estivi, e i grandissimi fuochi toglievan via la noia deʼ ghiacci, delle brine, delle nevi e dei freddi tempi; le spelunche deʼ monti, dalle mani della natura fabbricate, daʼ venti impetuosi e dalle piove gli difendeano, e sola la serenitá del cielo, e i fioriti e verdeggianti prati dilettavan gli occhi loro. Niun pensiero di guerra, di navicazione, di mercatanzia o dʼarte gli stimolava; ciascuno era contento in quel luogo finir la vita, dove cominciata lʼavea. Niuno ornamento appetivano, niuna quistione aveano, né era tra loro bomere, né falce, né coltello, né lancia. I loro esercizi erano intorno aʼ giuochi pastorali o in conservar le greggi, delle quali alcun comodo si vedeano. Era in queʼ tempi la pudicizia delle femmine salva e onorata; la vita in ciascuna sua parte sobria e temperata e, senza alcuno aiuto di medico o di medicina, sana; lʼetá deʼ giovani robusta e solida, e la vecchiezza deʼ lor maggiori venerabile e riposata. Non si sapeva che invidia si fosse, non avarizia, non malizia o falsitá alcuna, ma santa e immaculata semplicitá neʼ petti di tutti abitava; per che meritamente, secondo che i poeti questa etá discrivono, «aurea» si potea chiamare.

Ma, poi che, per suggestion diabolica, sí come io credo, cominciò tacitamente neʼ cuori dʼalcuni ad entrare lʼambizione, e quinci il disiderio di trascendere a piú esquisita vita, venne Cerere, la quale appo Eleusia e in Sicilia prima mostrò il lavorío della terra, il ricogliere il grano e fare il pane: Bacco recò dʼIndia il mescolare il vino col mèle, e fare i beveraggi piú dilicati che lʼusato; e con appetito non sobrio, come il passato, furon cominciate a gustare le cortecce degli alberi indiani, le radici eʼ sughi di certe piante, e quelle a mescolare insieme, e a confondere nel mèle i sapori naturali, e a trovare gli accidentali con industria: furono incontanente avute in dispregio le ghiande. Similmente, avendo alcuni, in lor danno divenuti ingegnosi, trovato modo di tirare in terra con reti i gran pesci del mare, e di ritenere neʼ boschi le fiere, e ancora dʼingannare gli uccegli del cielo; furon da parte lasciati i lacciuoli e gli ami, e la terra riposatasi lungamente, cominciata a fendere, e ʼl mare a solcar daʼ navili, e portare dʼun luogo in un altro, e recare, i viziosi princípi: si mutaron con esercizi gli animi. E giá in gran parte, sí come piú atta a ciò, Asia sí per gli artifici di Sardanapalo, re degli assiri, e sí per gli altrui, da questa dannosa colpa della gola, come lo ʼncendio suol comprender le parti circostanti, cosí lʼEgitto, cosí la Grecia tutta comprese, in tanto che giá non solamente neʼ maggiori, ma eziandio nel vulgo erano venuti i dilicati cibi e ʼl vino, e in ogni cosa lasciata lʼantica simplicitá. Ultimamente, sparto giá per tutto questo veleno, aglʼ italiani similmente pervenne; e credesi che di quello i primi ricevitori fossero i capovani, percioché né Quinzi né Curzi né Fabrizi né Papirii né gli altri questa ignominia sentivano; e giá era perfetta la terza guerra macedonica, e vinto Antioco magno, re dʼAsia e di Siria, da Scipione asiatico, quando primieramente il cuocere divenne, di mestiere, arte.

 

È intra ʼl mestiere e lʼarte questa differenza, che il mestiere è uno esercizio, nel quale niuna opera manuale, che dallo ʼngegno proceda, sʼadopera, sí come è il cambiatore, il quale nel suo esercizio non fa altro che dare danari per danari; o come era in Roma il cuocere aʼ tempi che io dico, neʼ quali si metteva la carne nella caldaia, e quel servo della casa, il quale era meno utile agli altri servigi, faceva tanto fuoco sotto la caldaia, che la carne diveniva tenera a poterla rompere e tritar coʼ denti. Arte è quella intorno alla quale non solamente lʼopera manuale, ma ancora lo ʼngegno e la ʼndustria dellʼartefice sʼadopera, sí come è il comporre una statua, dove, a doverla proporzionare debitamente, si fatica molto lo ʼngegno; e sí come è il cuocere oggi, al quale non basta far bollir la caldaia, ma vi si richiede lʼartificio del cuoco, in fare che quel, che si cuoce, sia saporito, sia odorifero, sia bello allʼocchio, non abbia alcun sapore noioso al gusto, come sarebbe o troppo salato o troppo acetoso o troppo forte di spezie, o del contrario a queste; o sapesse di fumo o di fritto o di sapor simile, del quale il gusto è schifo.

Era dunque, al tempo di sopra detto, mestiere ancora il cuocere in Roma, in che appare la modestia e la sobrietá loro; ma, poi che le ricchezze eʼ costumi asiatichi vʼentrarono, con grandissimo danno del romano imperio, di mestiere, arte divenne; essendone, secondo che alcuni credono, inventore uno il quale fu appellato Apicio: e quindi si sparse per tutto, accioché i membri dal capo non fosser diversi; e non che le ghiande eʼ salvatichi pomi e lʼerbe o le fontane eʼ rivi fossero in dispregio avute, ma eʼ furono ancora poco prezzati i familiari irritamenti della gola: e per tutto si mandava per gli uccelli, per le cacciagioni, per li pesci strani, e quanto piú venien di lontano, tanto di quegli pareva piú prezzato il sapore. Né fu assai aʼ golosi miseri lʼavere i lacciuoli, le reti e gli ami tesi per tutto il mondo, alle cose le quali dovevano poter dilettare la gola ed empiere il ventre misero, ma diedero e dánno opera che nelle cose, le quali sé eʼ loro deono corrompere, fossero gli odori arabici, accioché, confortato il naso, e per lo naso il cerebro, lui rendessero piú forte allʼingiurie deʼ vapori surgenti dallo stomaco, e lʼappetito piú fervente al disiderio del consumare. Né furono ancora contenti aʼ cibi soli, ma dove lʼacqua solea salutiferamente spegner la sete, trovati infiniti modi dʼaccenderla, a dileticarla non a consumarla, varie e molte spezie di vini hanno trovate; e, non bastando i sapori vari che la varietá deʼ terreni e delle regioni danno loro, ancora con misture varie gli trasformano in varie spezie di sapore e di colore. E, accioché piú lungo spazio prender possano ad empiere il tristo sacco, hanno introdotto che neʼ triclini, nelle sale, alle mense sieno intromessi i cantatori, i sonatori, i trastullatori e i buffoni, e, oltre a ciò, mille maniere di confabulazioni neʼ lor conviti, accioché la sete non cessi. Se i familiari ragionamenti venisser meno, si ragiona, come Iddio vuole, in che guisa il cielo si gira, delle macchie del corpo della luna, della varietá degli elementi; e da questi subitamente si trasvá alle spezie deʼ beveraggi che usano glʼindiani, alle qualita deʼ vini che nascono nel Mar maggiore, al sapore degli spagnuoli, al colore deʼ galli, alla soavitá deʼ cretici: né passa intera alcuna novelletta di queste, che rinfrescare i vini eʼ vasi non si comandi. Ed è tanto questa maladizione di secolo in secolo, dʼetá in etá perseverata e discesa, che infino aʼ nostri tempi, con molte maggior forze che neʼ passati, è pervenuta; e, secondo il mio giudicio, dove che abbia ella molto potuto, o molto possa, alcuno luogo non credo che sia, dove ella con piú fervore eserciti, stimoli e vinca gli appetiti, che ella fa appo i toscani; e forse non men che altrove appo i nostri cittadini nel tempo presente. Con dolore il dico: e, se lʼautore non avesse solamente Ciacco, nostro cittadino, essere dannato per questo vituperevol vizio, nominato, forse senza alcuna cosa dire del nostro esecrabile costume mi passerei. Questo, adunque, mi trae a dimostrare la nostra dannosa colpa, accioché coloro, li quali credono che dentro aʼ luoghi riposti delle lor case non passino gli occhi della divina vendetta, con meco insieme, e con gli altri, sʼavveggano e arrossino della disonestá la quale usano. Intorno a questo peccato, non quanto si converrebbe, ma pure alcuna cosa ne dirò.

È adunque in tanto moltiplicato e cresciuto appo noi, per quel che a me paia, lʼeccesso della gola, che quasi alcuno atto non ci si fa, né nelle cose publiche né nelle private, che a mangiare o a bere non riesca. [In questo i denari publici sono dagli uficiali publici trangugiati, lʼestorsioni dellʼarti e neʼ sindacati, il mobile deʼ debitori dovuto alle vedove e aʼ pupilli, le limosine lasciate aʼ poveri e alle fraternite, lʼesecuzioni testamentarie, le quistioni arbitrarie, e a qualunque altra pietosa cosa, non solamente i laici, ma ancora li religiosi divorano.] E questo miserabile atto non ci si fa come tra cittadino e cittadino far si solea, anzi è tanto dʼogni convenevolezza trapassato il segno, che gli apparati reali, le mense pontificali, gli splendori imperiali sono da noi stati lasciati a dietro; né ad alcuna, quantunque grande spesa, quantunque disutile, quantunque superba sia, si riguarda; ogni modo, ogni misura, ogni convenevolezza è pretermessa. Vegnono oggi neʼ nostri conviti le confezioni oltremarine, le cacciagioni transalpine, i pesci marini non dʼuna ma di molte maniere; e son di quegli, che, senza vergogna, dʼoro velano i colori delle carni, con vigilante cura e con industrioso artificio cotte. Lascio stare glʼintramessi, il numero delle vivande, [i savori] di sapori e di color diversissimi, e le importabili some deʼ taglieri carichi di vivande tra poche persone messi, le quali son tante e tali, che non dico i servidori, che le portano, ma le mense, sopra le quali poste sono, sotto di fatica vi sudano. Né è penna che stanca non fosse, volendo i trebbiani, i grechi, le ribole, le malvagíe, le vernacce e mille altre maniere di vini preziosi discrivere. E or volesse Iddio che solo aʼ principi della cittá questo inconveniente avvenisse; ma tanto è in tutti la caligine della ignoranza sparta, che coloro ancora, li quali e la nazione e lo stato ha fatti minori, queste medesime magnificenze, anzi pazzie, trovandosi il luogo da ciò, appetiscono e vogliono come i maggiori. In queste cosí oneste e sobrie commessazioni, o conviti che vogliam dire, come i ventri sʼempiano, come tumultuino gli stomachi, come fummino i cerebri, come i cuori infiammino, assai leggier cosa è da comprendere a chi vi vuole riguardare. In queste insuperbiscono i poveri, i ricchi divengono intollerabili, i savi bestiali; per le quali cose vi si tumultua, millantavisi, dicevisi male dʼogni uomo e di Dio; e talvolta, non potendo lo stomaco sostenere il soperchio, non altramente che faccia il cane, sozzamente si vòta quello che ingordamente sʼè insaccato; e in queste medesime cosí laudevoli cene sʼordina e solida lo stato della republica, diffinisconsi le quistioni, compongonsi lʼopportunitá cittadine e i fatti delle singular persone; ma il come, nel giudicio deʼ savi rimanga. In queste si condanna e assolve cui il vino conforta, o cui lʼampiezza delle vivande aiuta o disaiuta: e coloro, aʼ quali i prieghi unti e spumanti di vino sono intercessori, procuratori o avvocati, le piú delle volte ottengono nelle lor bisogne.

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