Obiettivo Zero

Текст
0
Отзывы
Читать фрагмент
Отметить прочитанной
Как читать книгу после покупки
Шрифт:Меньше АаБольше Аа

CAPITOLO CINQUE

Adrian Cheval era ancora sveglio nonostante l’ora tarda. Era seduto in cucina su uno sgabello, fissando immobile e con la vista annebbiata lo schermo del portatile davanti a lui, battendo freneticamente sulla tastiera.

Si fermò abbastanza a lungo da sentire Claudette che si avvicinava in silenzio e a piedi nudi sulle scale coperte dalla moquette. Il loro appartamento a Marsiglia era piccolo ma accogliente, all’estremità di una strada tranquilla a soli cinque minuti dal mare.

Un momento più tardi una figura minuta dai capelli color del fuoco apparve nel suo campo visivo. La donna gli mise le mani sulle spalle e gliele accarezzò su e giù, fino al petto, appoggiandogli la testa sulla schiena. “Mon chéri,” mormorò. “Amore mio. Non riesco a dormire.”

“Neanche io,” rispose piano lui in francese. “Ho troppe cosa da fare.”

Claudette gli mordicchiò gentilmente il lobo dell’orecchio. “Parlamene.”

Adrian indicò lo schermo, sul quale era in bella mostra la struttura ciclica a doppia elica del RNA del variola major, il virus comunemente noto come vaiolo. “Questo ceppo della Siberia è… incredibile. Non ho mai visto niente del genere. Secondo i miei calcoli, la sua virulenza dovrebbe essere sbalorditiva. Sono convinto che l’unica cosa che possa avergli impedito di eliminare l’umanità migliaia di anni fa sia stata l’era glaciale.”

“Un nuovo Diluvio universale.” Claudette emise un languido sospiro nel suo orecchio, “Quanto manca perché sia pronto?”

“Devo mutare il ceppo, mantenendo la stessa stabilità e potenza,” spiegò lui. “Non è un compito semplice, ma è necessario. Il WHO ha ottenuto dei campioni di questo stesso virus cinque mesi fa; senza dubbio stanno sviluppando un vaccino, se non lo hanno già fatto. Il nostro ceppo deve essere abbastanza unico perché il loro vaccino sia inefficace.” Quel processo era noto come mutagenesi letale, la manipolazione del RNA che avrebbe eseguito sui campioni che aveva ottenuto in Siberia per accrescere la sua virulenza e ridurre il periodo di incubazione. Grazie ai suoi calcoli, Adrian sospettava che il tasso di mortalità del virus del variola major mutato avrebbe potuto raggiungere il settantotto percento, quasi tre volte quella della varietà naturale del vaiolo che era stata distrutta dal World Health Organization nel 1980.

Dopo il suo ritorno dalla Siberia, Adrian aveva visitato per prima Stoccolma e aveva usato le generalità del defunto studente Renault per accedere all’università, dove si era accertato che i campioni rimanessero inattivi mentre lavorava su essi. Ma non poteva sfruttare troppo a lungo l’identità di qualcun altro, quindi aveva rubato l’equipaggiamento ed era tornato a Marsiglia. Aveva montato un laboratorio nello scantinato inutilizzato del negozio di un sarto a tre isolati dal loro appartamento; il gentile proprietario era convinto che Adrian fosse un genetista, che studiasse il DNA umano e niente altro, e lui teneva la porta chiusa con un lucchetto quando non era presente.

“Imam Khalil sarà felice,” sussurrò Claudette nel suo orecchio.

“Sì,” concordò piano Adrian. “Sarà soddisfatto.”

La maggior parte delle donne non sarebbe stata entusiasta di trovare la propria dolce metà a lavoro su una sostanza tanto volatile come un ceppo altamente virulento del vaiolo, ma Claudette non era come la maggior parte delle donne. Era minuta, appena un metro e sessanta rispetto al metro e ottantacinque di Adrian. I suoi capelli erano di un rosso acceso e i suoi occhi verdi come la più fitta giungla, e suggerivano una certa irascibilità.

Si erano incontrati solo l’anno prima, quando Adrian aveva toccato il fondo. Era appena stato espulso dall’università di Stoccolma per aver tentato di ottenere campioni di un raro enterovirus, lo stesso che aveva preso la vita di sua madre solo qualche settimana prima. All’epoca, era stato deciso a creare una cura, persino ossessionato da quell’idea, perché nessuno dovesse soffrire come era successo a lei. Ma era stato scoperto dalla facoltà dell’università e allontanato in modo sbrigativo.

Claudette lo aveva trovato in un vicolo, steso in una pozza della sua stessa desolazione e vomito, mezzo-svenuto per l’alcol. Lo aveva portato a casa, ripulito, e gli aveva dato dell’acqua. Il mattino seguente Adrian si era svegliato con quella donna bellissima seduta al suo capezzale, che gli sorrideva dicendogli: “So esattamente di che cosa hai bisogno.”

Roteò sullo sgabello della cucina per voltarsi verso di lei e le accarezzò la schiena. Da seduto era alto quasi quanto lei. “È interessante che tu abbia parlato del Diluvio Universale,” notò. “Sai, ci sono alcuni studiosi che dicono che se è davvero avvenuto, deve essere stato circa sette o ottomila anni fa… quasi all’epoca a cui risale questo ceppo. Forse il Diluvio è una metafora, ed è stato questo virus a purificare il mondo dai malvagi.”

Claudette scoppiò in una risata. “Non credere che non mi sia accorta dei tuoi continui sforzi per riunire la scienza e la spiritualità.” Gli prese con dolcezza il volto tra le mani e gli baciò la fronte. “Ma ancora non capisci che a volte serve solo avere fede.”

Serve solo avere fede. Era ciò che gli aveva prescritto l’anno prima, quando si era svegliato dalla sbronza. Claudette lo aveva accolto e gli aveva permesso di rimanere nel suo appartamento, quello stesso dove vivevano tuttora. Adrian non aveva creduto nell’amore a prima vista prima di incontrare lei, ma la donna era arrivata a influenzare moltissimo il suo modo di pensare. Nel corso di qualche mese, lo aveva introdotto ai principi dell’Imam Khalil, un sant’uomo islamico della Siria. Khalil non si considerava né sunnita o sciita, ma un semplice devoto di Dio, al punto che permetteva al suo piccolo gruppo di seguaci di chiamarLo con qualsiasi nome volessero, perché Khalil credeva che la relazione di ogni individuo con il proprio creatore fosse strettamente personale. Per Khalil, il nome di quel creatore era Allah.

“Voglio che tu venga a letto,” gli disse Claudette, accarezzandogli la guancia con il dorso della mano. “Hai bisogno di riposarti. Ma prima… hai preparato il campione?”

“Il campione,” ripeté Adrian. “Sì, certo.”

C’era solo una minuscola fialetta, poco più grande di un’unghia, del virus attivo, sigillato ermeticamente nel vetro e racchiuso tra due cubi di gomma, all’interno di un contenitore per il trasporto dei campioni biologici in acciaio inossidabile. La scatola stessa era appoggiata, ben visibile, sul ripiano della loro cucina.

“Bene,” mormorò Claudette. “Perché aspettiamo ospiti.”

“Stasera?” Adrian abbassò le mani dalla sua schiena. Non si aspettava che succedesse tanto presto. “A quest’ora?” Erano quasi le due del mattino.

“Da un momento all’altro,” rispose lei. “Abbiamo fatto una promessa, amore mio, e dobbiamo mantenerla.”

“Sì,” bisbigliò Adrian. Aveva ragione, come sempre. Le promesse non andavano infrante. “Ovviamente.”

Un brusco e violento colpo alla porta del loro appartamento fece sobbalzare entrambi.

Claudette vi si avvicinò in fretta, lasciando inserita la catena e aprendo solo di pochi centimetri. Adrian la seguì, sbirciando sopra la sua spalla per vedere i due uomini dall’altra parte. Nessuno dei due sembrava molto amichevole. Non conosceva i loro nomi, e nella sua mente li aveva nominati ‘gli arabi’, anche se per quel che ne sapeva potevano essere curdi o turchi.

Uno dei due parlò rapidamente a Claudette in arabo. Adrian non capì, il suo arabo era rudimentale nel migliore dei casi, si limitava a poche frasi che la donna gli aveva insegnato, ma lei annuì una volta, tolse la catena e lasciò entrare gli uomini.

Entrambi erano piuttosto giovani, circa sulla trentina, e portavano corte barbe nere sulle guance dalla pelle scura. Indossavano abiti in stile europeo, jeans e magliette, con sopra giacche leggere a proteggerli dalla gelida aria notturna; l’Imam Khalil non pretendeva che i suoi seguaci mettessero abiti o paramenti religiosi. In effetti, da quando erano stati allontanati dalla Siria, preferiva che la sua gente si mescolasse agli altri il più possibile, per motivi che erano ovvi ad Adrian, visto che cosa dovevano recuperare i due uomini lì presenti.

“Cheval.” Uno dei siriani annuì verso di lui, quasi con reverenza. “Avanti? Dicci?” Parlava in un francese molto incerto.

“Avanti?” ripeté Adrian confuso.

“Vuole sapere dei tuoi progressi,” spiegò con gentilezza Claudette.

Lui sogghignò. “Il suo francese è tremendo.”

“Così come il tuo arabo,” ribatté lei.

Giusta osservazione, concesse Adrian. “Digli che il procedimento richiede tempo. È complicato, e richiede pazienza. Ma il lavoro sta andando bene.”

Claudette ripeté il messaggio in arabo, e i due uomini annuirono in segno di approvazione.

“Un piccolo pezzo?” chiese il secondo uomo. Sembrava che volessero far pratica con lui di lingua francese.

“Sono venuti per il campione,” disse Claudette ad Adrian, anche se lui lo aveva capito dal contesto. “Vuoi prenderlo?” Era ovvio che la donna non avesse alcuna intenzione di toccare il contenitore per il trasporto di campioni biologici, che fosse sigillato o meno.

Adrian annuì, ma non si mosse. “Chiedigli perché non è venuto Khalil stesso.”

Claudette si morse il labbro e gli sfiorò un braccio. “Tesoro,” disse piano, “sono sicura che sia impegnato altrove…”

“Che cosa potrebbe essere più importante di questo?” insisté lui. Era stato certo che l’Imam si sarebbe presentato.

Claudette ripeté la domanda in arabo. I due siriani si accigliarono e si scambiarono uno sguardo prima di rispondere.

“Dicono che stanotte è a trovare gli infermi,” disse poi in francese ad Adrian, “sta pregando per la loro liberazione dal mondo fisico.”

Un ricordo della madre gli lampeggiò nella mente, solo qualche giorno prima della sua morte, stesa a letto con occhi aperti ma inconsapevoli. Era stata quasi inconscia per le medicine; senza sarebbe stata in uno stato costante di dolore, e tuttavia dopo averle prese era praticamente comatosa. Nelle settimane prima del suo decesso, non aveva avuto alcun concetto del mondo attorno a sé. Lui aveva pregato spesso perché guarisse, lì al suo capezzale, anche se verso la fine le sue suppliche erano cambiate e si era ritrovato a desiderare una morte rapida e indolore per la madre.

 

“Come lo userà?” chiese Adrian. “Il campione.”

“Si accerterà che la tua mutazione funzioni,” rispose semplicemente Claudette. “Lo sai.”

“Sì, ma…” Il giovane scienziato si interruppe. Sapeva che non era stava a lui mettere in dubbio le intenzioni dell’Imam, ma all’improvviso sentiva il bisogno impellente di sapere. “Lo testerà privatamente? In un luogo remoto? È importante non mostrare troppo presto le nostre carte. Il resto del lotto non è ancora pronto… ”

Claudette disse rapidamente qualcosa ai due uomini siriani, e poi prese Adrian per mano e lo condusse in cucina. “Amore mio,” mormorò piano, “stai avendo dei dubbi. Parlamene.”

Adrian sospirò. “Sì,” ammise. “Questo è solo un campione molto piccolo, non è affatto stabile quanto lo saranno gli altri. E se non funzionasse?”

“Lo farà.” Claudette lo strinse tra le braccia. “Ho piena fiducia in te, e lo stesso vale per l’Imam Khalil. Ti è stata donata questa opportunità. Sei stato benedetto, Adrian.”

Sei stato benedetto. Erano state le stesse parole che Khalil aveva usato quando si erano incontrati. Tre mesi prima, Claudette aveva portato Adrian a fare un viaggio in Grecia. Khalil, come molti altri siriani, era un rifugiato, ma non uno politico, né per la guerra che stava devastando il paese. Era un rifugiato religioso, cacciato sia dagli sciiti che dai sunniti per le sue nozioni idealistiche. La spiritualità di Khalil era un amalgama di precetti islamici e alcune delle influenze esoteriche filosofiche di Druze, come la verità e la trasmigrazione dell’anima.

Adrian aveva incontrato il sant’uomo in un albergo ad Atene. L’Imam Khalil era una persona gentile con un sorriso gradevole, capelli scuri e una barba ordinata e pettinata, che portava un completo marrone. Il giovane francese era stato preso alla sprovvista quando, durante il loro primo incontro, l’Imam gli aveva chiesto di pregare insieme a lui. Si erano seduti insieme su un tappeto, rivolti verso la Mecca, e avevano pregato in silenzio. La calma aveva avvolto l’Imam come un’aura, una placidità che Adrian non aveva più provato da quando era un bambino tra le braccia della madre ancora in salute.

Dopo la preghiera, i due uomini avevano fumato da un narghilè di vetro e avevano bevuto del tè mentre Khalil parlava delle sue idee. Avevano discusso dell’importanza di essere fedeli a loro stessi; Khalil credeva che l’unico modo in cui l’umanità poteva assolvere i propri peccati era la sincerità assoluta, che avrebbe permesso all’anima di reincarnarsi in un essere puro. Aveva fatto molte domande ad Adrian, sia sulla scienza che sulla spiritualità. Gli aveva chiesto della madre, e gli aveva promesso che da qualche parte sulla terra lei era già rinata, pura, bellissima e in salute. Il giovane francese ne aveva tratto un grande conforto.

Poi il sant’uomo aveva parlato dell’Imam Mahdi, il Redentore e ultimo degli Imam, gli uomini santi. Mahdi sarebbe stato colui che avrebbe portato il Giorno del Giudizio e avrebbe ripulito il mondo dal male. Khalil credeva che sarebbe successo presto, e dopo la redenzione di Mahdi si sarebbe instaurata l’utopia: ogni essere nell’universo sarebbe stato perfetto, genuino e incorrotto.

Per diverse ore i due uomini erano rimasti seduti insieme, fino a notte fonda, e quando la mente di Adrian era stata annebbiata quanto l’aria densa e fumosa che roteava attorno a loro gli aveva finalmente posto la domanda che più gli premeva.

“Sei tu, Khalil?” aveva chiesto il sant’uomo. “Sei tu Mahdi?”

Imam Khalil aveva fatto un ampio sorriso a quelle parole. Aveva preso la mano di Adrian nella propria e aveva detto con gentilezza: “No, figlio mio. Tu lo sei. Tu sei benedetto. Lo riesco a vedere chiaramente quanto vedo il tuo volto.”

Io sono benedetto. Nella cucina del loro appartamento a Marsiglia, Adrian premette le labbra sulla fronte di Claudette. Aveva ragione; avevano fatto una promessa a Khalil e dovevano mantenerla. Prese la scatola d’acciaio per il trasporto dei campioni biologici dal ripiano e la portò agli arabi in attesa. Aprì il coperchio e sollevò la parte superiore del cubo di gomma per mostrare loro la piccola fialetta ermeticamente chiusa all’interno.

Sembrava che non ci fosse nulla nel vetro, ma ciò era caratteristico di una delle sostanze più letali al mondo.

“Tesoro,” disse Adrian risistemando la gomma e richiudendo il coperchio. “Ho bisogno che tu spieghi loro, senza mezzi termini, che in nessuna circostanza devono toccare la fialetta. Deve essere gestita con la massima cura.”

Claudette ripeté il messaggio in arabo. All’improvviso l’uomo siriano che aveva la scatola in mano apparve molto meno a suo agio di un momento prima. L’altro uomo annuì in segno di ringraziamento verso Adrian e mormorò una frase in arabo, una che lui capì: “Che Allah e la Sua pace siano con te,” e senza un’altra parola, i due uscirono dall’appartamento.

Non appena se ne furono andati, Claudette chiuse la serratura e rimise la catena, poi si voltò verso il suo amante con un’espressione sognante e soddisfatta sul volto.

Adrian, tuttavia, rimase fermo dov’era, la sua espressione severa.

“Amore mio?” disse lei con cautela.

“Che cosa ho appena fatto?” bisbigliò. Conosceva già la risposta; aveva messo un virus mortale non nelle mani dell’Imam Khalil, ma di due sconosciuti. “E se non glielo dovessero portare? E se lo facessero cadere, o lo aprissero, o…”

“Amore mio.” Claudette gli strinse le braccia attorno alla vita e gli premette il capo al petto. “Sono seguaci dell’Imam. Faranno attenzione e lo porteranno dove deve andare. Abbi fede. Hai compiuto il primo passo verso un nuovo e migliore mondo. Tu sei il Mahdi. Non dimenticarlo.”

“Sì,” rispose piano “Ma certo. Hai ragione, come sempre. E devo finire.” Se la sua mutazione non avesse funzionato come doveva, o se non ne avesse prodotto una partita completa, senza alcun dubbio sarebbe stato un fallimento non solo agli occhi di Khalil, ma anche a quelli di Claudette. Senza di lei sarebbe crollato. Aveva bisogno di quella donna quanto aveva bisogno dell’aria, del cibo e della luce del sole.

E nonostante tutto, non poteva evitare di chiedersi che cosa avrebbero fatto con il campione, e se l’Imam Khalil lo avrebbe testato privatamente, in un luogo lontano da tutto, o se sarebbe stato liberato in mezzo alla gente.

Ma lo avrebbe scoperto presto.

CAPITOLO SEI

“Papà, non sei costretto ad accompagnarci fino alla porta ogni volta,” si lamentò Maya mentre attraversavano Dahlgren Quad verso Healy Hall, nel campus della Georgetown.

“Lo so che non sono costretto,” disse Reid. “Voglio farlo. Che c’è, ti vergogni di farti vedere con il tuo papà?”

“Non è così,” borbottò Maya. Il viaggio era stato silenzioso, Maya aveva guardato fuori dal finestrino con aria pensierosa mentre Reid aveva cercato inutilmente un argomento di cui parlare.

La figlia maggiore stava arrivando alla fine del suo terzo anno di liceo, ma aveva già scelto le sue classi del college e aveva iniziato qualche corso nel campus della Georgetown. Era un buon modo per cominciare a guadagnare i crediti del college e l’avrebbe aiutata nella domanda di iscrizioni all’università, specialmente dato la sua prima scelta era proprio la Georgetown. Reid aveva insistito per accompagnarla al college, persino fino alla sua classe.

La notte prima, quando Maria era stata costretta a interrompere il loro appuntamento, Reid era tornato in fretta a casa dalle sue ragazze. Era stato sconvolto dalla notizia della fuga di Rais—le sue dita avevano tremato sul volante dell’auto—ma si era costretto a rimanere calmo e aveva cercato di riflettere lucidamente. La CIA era già all’inseguimento e probabilmente anche l’Interpol. Conosceva il protocollo; avrebbero tenuto d’occhio ogni aeroporto, e sarebbero stati posti blocchi stradali in tutte le arterie principali di Sion. E Rais non aveva più nessun alleato a cui chiedere aiuto.

Oltretutto, l’assassino era scappato in Svizzera, a più di quattromila miglia di distanza. Metà del continente e un intero oceano lo separavano da Kent Steele.

Nonostante tutto, sapeva che si sarebbe sentito molto meglio quando avesse ricevuto l’informazione che Rais era stato ricatturato. Si fidava delle capacità di Maria, ma si pentiva di non aver avuto la lungimiranza di chiederle di tenerlo aggiornato il più possibile.

Lui e Maya raggiunsero l’ingresso di Healy Hall e Reid si soffermò qualche istante. “Va bene, immagino che ti rivedrò dopo la lezione?”

La figlia lo guardò sospettosa. “Non mi accompagni dentro?”

“Non oggi.” Aveva la sensazione di sapere per quale motivo Maya fosse così silenziosa quel mattino. La sera prima le aveva concesso un briciolo di indipendenza, ma quel mattino era tornato alla normalità. Doveva ricordarsi che non era più una ragazzina. “Senti, so che ultimamente sono stato un po’ opprimente…”

“Un po’?” sbuffò Maya.

“… e mi dispiace per questo. Tu sei una giovane donna capace, intelligente e piena di risorse. E vuoi solo la tua indipendenza. Lo capisco. La mia natura iperprotettiva è un mio problema, non tuo. Non è colpa tua.”

Maya cercò di nascondere un sogghigno. “Hai appena usato la frase: ‘non sei tu, sono io’?”

Lui annuì. “L’ho fatto, perché è vero. Non potrei perdonarmi se ti succedesse qualcosa e io non fossi presente.”

“Ma non potrai essere sempre insieme a me,” replicò la figlia, “non importa quanto ci provi. E io devo essere in grado di occuparmi da sola dei miei problemi.”

“Hai ragione. Farò del mio meglio per lasciarti un po’ di spazio.”

Maya inarcò un sopracciglio. “Me lo prometti?”

“Prometto.”

“Okay.” La ragazza si alzò in punta di piedi e gli baciò una guancia. “Ci vediamo dopo la scuola.” Si diresse verso la porta, ma poi le venne in mente qualcos’altro. “Lo sai, magari dovrei imparare a sparare, giusto per sicurezza…”

Lui le puntò severamente contro un dito. “Non esagerare.”

Maya sorrise e svanì nell’edificio. Reid rimase fermo fuori per un paio di minuti. Dio, le sue ragazze stavano crescendo troppo in fretta. In due brevi anni Maya sarebbe stata legalmente adulta. Presto sarebbero arrivate le macchine, le rate del college, e… prima o poi sarebbero arrivati anche i ragazzi. Per fortuna non era ancora successo.

Si distrasse ammirando l’architettura del campus, mentre si dirigeva verso Copley Hall. Non credeva che si sarebbe mai stancato di aggirarsi per l’università, godendosi la vista degli edifici del diciottesimo e diciannovesimo secolo, costruiti in gran parte nello stile romanico fiammingo che andava tanto nel medioevo europeo. Di certo era d’aiuto che la metà di marzo in Virginia fosse il punto di svolta della stagione; il tempo stava migliorando e la temperatura raggiungeva i venti gradi durante le giornate più assolate.

Il suo ruolo come professore associato faceva sì che avesse classi piccole, dai venticinque ai trenta studenti alla volta e principalmente laureandi in storia. Lui era specializzato in lezioni sull’arte bellica, e spesso sostituiva il professor Hildebrandt, che era titolare di una cattedra e spesso viaggiava per un libro che stava scrivendo.

O magari è segretamente nella CIA, pensò Reid.

“Buongiorno,” disse ad alta voce entrando in classe. La maggior parte degli studenti si era già accomodata prima del suo arrivo, quindi si affrettò a raggiungere il centro della sala, appoggiò la borsa sulla cattedra e si sfilò la giacca di tweed. “Sono in ritardo di qualche minuto, quindi cominciamo subito.” Era piacevole essere di nuovo in classe. Quello era il suo elemento, o almeno uno di essi. “Sono sicuro che qui qualcuno sa dirmi: quale è stato l’evento più devastante, per numero di morti, della storia europea?”

“La seconda guerra mondiale,” rispose subito una voce.

“Uno dei peggiori al mondo, certo,” replicò Reid, “ma la Russia se l’è cavata molto peggio dell’Europa, a giudicare dalle cifre. Altre idee?”

“La conquista mongola,” disse una ragazza mora con i capelli raccolti in una coda di cavallo.

“Un’altra buona ipotesi, ma state pensando a dei conflitti armati. Io ho in mente qualcosa di meno antropogenico, e più biologico.”

 

“La Peste Nera,” borbottò un ragazzo biondo in prima fila.

“Sì, è giusto, signor…?”

“Wright,” rispose il ragazzo.

Reid sorrise. “Signor Wright? Un cognome importante, scommetto che è popolare tra i suoi coetanei.”

Il ragazzo sorrise timidamente e scosse la testa.

“Comunque sì, il signor Wright ha ragione: la Peste Nera. La pandemia della peste bubbonica è iniziata nell’Asia Centrale, ha attraversato la Via della Seta, è stata portata in Europa dai ratti sulle navi mercantili, e si stima che nel quattordicesimo secolo abbia ucciso dalle settantacinque alle duecento milioni di persone.” Per un momento camminò avanti e indietro in silenzio, per enfatizzare il concetto. “C’è un’enorme differenza tra le due cifre, vero? Come mai i numeri sono così incerti?”

La ragazza mora in terza fila alzò appena la mano. “Perché settecento anni fa non avevano un ufficio censimenti?”

Reid e qualche altro studente ridacchiarono. “Beh, certo, questo è vero. Ma è anche per via della velocità con cui la peste si è diffusa. Voglio dire, stiamo parlando della morte di un terzo della popolazione dell’Europa in due anni. Per farvi capire, sarebbe come se l’intera East Coast e la California svanissero.” Si appoggiò alla cattedra e incrociò le braccia. “Ora so che cosa state pensando. ‘Professor Lawson, lei non è il tizio che viene qui e ci parla della guerra?’ Sì, e adesso ci arrivo.”

“Qualcuno ha accennato alla conquista mongola. Per un breve periodo Genghis Khan ha avuto il più grande impero della storia, e il suo esercito marciò contro l’Europa dell’Est negli anni della peste in Asia. Si ritiene che Khan sia stato uno dei primi a usare quella che noi classifichiamo come guerra batteriologica; se una città non si arrendeva a lui, il suo esercito catapultava corpi infetti dalla peste oltre le mura nemiche e poi… gli bastava aspettare un po’.”

Il signor Wright, il ragazzo biondo in prima fila, arricciò il naso per il disgusto. “Non può essere vero.”

“È vero, glielo garantisco. Per esempio durante l’assedio di Caffa, in quella che ora è la Crimea, nel 1346. Vedete, vogliamo pensare che la guerra biologica sia un concetto nuovo, ma non lo è. Prima di avere i carri armati, o i droni, o i missili, o persino le pistole nel senso moderno, noi, uhm… loro, eh…”

“Perché hai una cosa del genere, Reid?” chiede Kate in tono accusatorio. I suoi occhi sono più spaventati che arrabbiati.

Dopo aver pronunciato la parola ‘pistole’, il ricordo gli apparve all’improvviso nella mente, lo stesso del giorno prima, ma più chiaro. Erano nella cucina della loro casa precedente, in Virginia. Kate aveva trovato qualcosa mentre spolverava i condotti dell’aria condizionata.

Una pistola sul tavolo, una piccola, una LC9 da nove millimetri argentata. Kate la indica come un oggetto maledetto. “Perché hai una cosa del genere, Reid?”

“È… solo per protezione,” menti.

“Protezione? Ma almeno sai come si usa? E se una delle ragazze l’avesse trovata?”

“Non la…”

“Lo sai quanto può essere curiosa Maya. Gesù. Non voglio nemmeno sapere come l’hai ottenuta. Non voglio questa cosa a casa nostra. Ti prego, portala via.”

“Ma certo. Mi dispiace, Katie.” Katie, il nome che usi solo quando è arrabbiata.

Prendi con esitazione l’arma dal tavolo, come se non fossi certo di come maneggiarla.

Dopo che se ne sarà andata a lavoro, dovrai recuperare le altre undici nascoste per tutta la casa. Sarà meglio trovare dei posti migliori.

“Professore?” Il ragazzo biondo, Wright, guardò Reid preoccupato. “Sta bene?”

“Uhm… sì.” Reid si raddrizzò e si schiarì la gola. Gli dolevano le dita; aveva stretto forte il bordo della cattedra quando il ricordo era riemerso. “Sì, scusatemi.”

Non aveva più alcun dubbio. Era sicuro che avesse perso almeno un ricordo di Kate.

“Uhm… scusate, ragazzi, ma non sono molto in forma,” disse alla classe. “Tutto a un tratto non mi sento bene. Per oggi… finiamola qui. Vi darò qualche capitolo da leggere, e riprenderemo lunedì.”

Gli tremavano le mani mentre enunciava i numeri delle pagine. Il sudore gli imperlava la fronte durante la lenta sfilata degli studenti fuori dalla porta. La ragazza mora si fermò alla sua cattedra. “Non ha un bell’aspetto, professor Lawson. Ha bisogno che chiamiamo qualcuno?”

Gli stava spuntano un’emicrania al centro della testa, ma si costrinse a sorridere in una maniera che sperò fosse educata. “No, grazie. Starò bene. Mi serve solo un po’ di riposo.”

“Okay. Spero che si senta meglio, professore.” Anche lei uscì dalla classe.

Non appena rimase da solo, frugò nel cassetto della cattedra, trovò un’aspirina e la mandò giù con dell’acqua da una bottiglia che aveva nella borsa.

Si appoggiò allo schienale della sedia e aspettò che i battiti del suo cuore rallentassero. Il ricordo che gli era appena tornato alla mente non aveva avuto solo un impatto psicologico o emotivo, ma anche uno molto fisico. Il pensiero di aver perso anche solo un istante delle sue memorie di Kate, quando già la moglie gli era stata strappata dalla vita, gli aveva fatto venire la nausea.

Dopo qualche minuto l’orrenda sensazione che aveva allo stomaco iniziò a calmarsi, ma non fu così per i pensieri che gli si agitavano nella testa. Non poteva più addurre delle scuse, doveva prendere una decisione. Avrebbe dovuto decidere che cosa voleva fare. A casa, in una scatola nel suo ufficio, c’era una lettera che indicava da chi sarebbe dovuto andare per chiedere aiuto: un medico svizzero di nome Guyver, il neurochirurgo che gli aveva installato il soppressore della memoria. Se qualcuno poteva far qualcosa per ripristinare i suoi ricordi, quello era lui. Reid aveva passato l’ultimo mese in preda all’incertezza, non sapendo se tentare o meno di recuperare tutta la memoria.

Ma un pezzo di sua moglie era svanito, e non aveva modo di sapere che cos’altro fosse stato occultato dal soppressore.

Ormai era pronto.

Бесплатный фрагмент закончился. Хотите читать дальше?
Купите 3 книги одновременно и выберите четвёртую в подарок!

Чтобы воспользоваться акцией, добавьте нужные книги в корзину. Сделать это можно на странице каждой книги, либо в общем списке:

  1. Нажмите на многоточие
    рядом с книгой
  2. Выберите пункт
    «Добавить в корзину»