Obiettivo Zero

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La seguente era la parte più difficile del suo piano. Tirò il polso fino a tendere la catena delle manette, e in quella posizione voltò la mano per infilare la punta affilata della clip nella serratura che lo teneva bloccato alle sponde del letto. Era complicato e doloroso, ma aveva già scassinato altre manette in passato, e sapeva che il meccanismo di chiusura all’interno era progettato perché una chiave universale potesse aprirne ogni paia. Dato che conosceva il funzionamento della serratura doveva solo eseguire i movimenti giusti per far scattare i perni. Ma era necessario che la catena fosse ben tesa, per evitare che le manette sferragliassero contro le sponde del letto e allertassero le guardie.

Gli servirono quasi venti minuti di contorcimenti, piegamenti e brevi pause per alleviare il dolore alle dita e riprendere il tentativo, ma alla fine la serratura scattò e la manetta si aprì. Rais la sfilò con attenzione dalla sponda.

Aveva una mano libera.

Si tese e liberò rapidamente la sinistra.

Così erano libere entrambe.

Infilò la clip sotto le lenzuola e afferrò la parte superiore della penna, stringendola nel palmo perché solo la punta fosse esposta.

Fuori dalla porta, l’agente più giovane si alzò all’improvviso. Rais trattenne il fiato e si finse addormentato mentre Elias gli lanciava un’occhiata.

“Chiama Francis, per favore?” disse l’agente in tedesco. “Devo andare a pisciare.”

“Certo,” rispose Luca con uno sbaglio. Usò la radio per contattare la sorveglianza notturna dell’ospedale, che di solito era stazionata dietro la reception al primo piano. Rais aveva visto Francis diverse volte; era un uomo di una certa età, sulla sessantina, forse persino con qualche anno di più, con un fisico snello. Era armato di pistola ma si muoveva con lentezza.

Era proprio quello che Rais aveva sperato. Non voleva lottare contro l’agente di polizia più giovane finché era ancora tanto debole.

Tre minuti più tardi apparve Francis, nella sua uniforme bianca e la cravatta nera, ed Elias si affrettò verso il bagno. I due uomini fuori dalla porta si scambiarono convenevoli mentre la guardia dell’ospedale si accomodava con un sospiro sulla sedia di plastica lasciata vuota dal giovane.

Era tempo di agire.

Rais scivolò lentamente verso il bordo del letto e abbassò i piedi nudi sulle piastrelle fredde. Era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva usato le gambe, ma era certo che i suoi muscoli non si fossero atrofizzati tanto da essere inservibili.

Si alzò con cura e in silenzio, ma poi gli cedettero le ginocchia. Strinse l’orlo del letto per sopportarsi e lanciò un’occhiata alla porta. Non arrivò nessuno; fuori continuavano a chiacchierare. I due uomini non avevano sentito niente.

Si raddrizzò tremante e ansimando, e fece qualche passo silenzioso. Certo, aveva le gambe deboli, ma quando era necessario era sempre forte, e così doveva essere in quel momento. Il camice d’ospedale gli ondeggiò attorno, aperto sulla schiena. L’immodesto indumento lo avrebbe solo ostacolato, quindi se lo tolse con uno strattone, rimanendo sfrontatamente nudo nella stanza.

Con la punta della penna nel pugno, prese posizione appena dietro la porta aperta, ed emise un basso fischio.

L’improvviso raschio delle gambe delle sedie gli disse che entrambi gli uomini lo avevano sentito e si erano alzati. La stazza di Luca riempì la porta, mentre l’uomo scrutava dentro la stanza buia.

Mein Gott!” mormorò quando entrò e vide il letto vuoto.

Francis lo seguì, con la mano sulla fondina della pistola.

Non appena l’agente più anziano ebbe varcato la soglia, Rais fece un balzo avanti. Spinse la punta della penna nella gola di Luca e la torse, aprendogli la carotide. Il sangue spruzzò copioso dalla ferita aperta, e in parte schizzò sul muro davanti.

Lasciò andare la punta e assalì Francis, che stava cercando di liberare la pistola. Sgancia, estrai dalla fondina, togli la sicura, punta: la reazione della guardia più anziana era lenta, e gli costò diversi preziosi secondi che semplicemente non aveva.

Rais gli sferrò due colpi, il primo verso l’alto appena sotto l’ombelico, seguito subito da uno verso il basso al plesso solare. Uno gli riempì i polmoni d’aria, mentre l’altro lo costrinse bruscamente a esalare, e sul suo fisico confuso ebbero un effetto così scioccante e inaspettato da fargli appannare la vista e perdere i sensi.

Francis barcollò, non riuscendo più a respirare, e cadde in ginocchio. Rais si portò con una piroetta alle sue spalle, e con un gesto fluido gli spezzò il collo.

Luca si stava stringendo la gola con entrambe le mani mentre sanguinava, emettendo gorgoglii e leggeri ansimi. Rais lo guardò e contò fino a undici, quando finalmente l’uomo svenne. Senza fermare il flusso sanguigno sarebbe morto in meno di un minuto.

Sfilò le pistole a entrambe le guardie e le appoggiò sul letto. La fase seguente del suo piano non sarebbe stata semplice: doveva sgattaiolare lungo il corridoio, senza essere visto, fino al ripostiglio dove erano conservati i camici di ricambio. Non poteva lasciare l’ospedale nell’uniforme di Francis, era troppo riconoscibile, né in quella di Luca che ormai era fradicia di sangue.

Udì una voce maschile in fondo al corridoio e si fermò.

Era l’altro agente, Elias. Così presto? Fu assalito dall’ansia. Poi sentì una seconda voce, quella dell’infermeria notturna, Elena. A quanto pareva il ragazzo aveva saltato la pausa sigaretta per chiacchierare con la giovane e attraente infermiera, e ora entrambi erano diretti verso la sua stanza. Sarebbero arrivati in pochi secondi.

Avrebbe preferito non dover uccidere la donna. Ma se doveva scegliere tra lei e se stesso, Elena non avrebbe avuto scampo.

Afferrò una delle pistole dal letto. Era una Sig P220, tutta nera, calibro 45. La strinse nella mano sinistra. Il suo peso era gradevole e familiare, come una vecchia fiamma. Con la destra strinse la metà aperta delle manette. E poi rimase in attesa.

Le voci nel corridoio si ammutolirono.

“Luca?” chiamò Elias. “Francis?” Il giovane agente aprì la chiusura della fondina e mise la mano sulla pistola, entrando nella camera buia. Elena si insinuò dietro di lui.

Gli occhi dell’agente si sgranarono per l’orrore alla vista dei due cadaveri.

Rais abbatté il gancio delle manette aperte nel lato del collo del giovane uomo, e poi tirò il braccio all’indietro. Il metallo gli morse il polso e le ferite nella schiena bruciarono, ma lui ignorò il dolore e tagliò la gola dell’agente. Il sangue schizzò in enorme quantità e colò su di lui.

Con la mano sinistra premette la Sig alla fronte di Elena.

“Non gridare,” disse in fretta e a bassa voce. “Non chiamare nessuno. Rimani zitta e vivrai. Fai un rumore e morirai. Hai capito?”

Dalle labbra di Elena si alzò uno squittio, e la donna cercò di soffocare il singhiozzo che seguì. Annuì, con gli occhi pieni di lacrime, mentre Elias cadeva in avanti sulle piastrelle del pavimento.

Lui la studiò da capo a piedi. Era minuta, ma il suo camice era largo e aveva la vita elastica. “Togliti i vestiti,” le disse.

La donna spalancò la bocca in preda al terrore.

Rais emise un suono sdegnato. Poteva capire la sua confusione, certo, dopo tutto era ancora nudo. “Non sono quel tipo di mostro,” le garantì. “Mi servono solo i vestiti. Non te lo chiederò di nuovo.”

Tremando, la giovane donna si sfilò la casacca e si tolse i pantaloni, abbassandoseli sopra le scarpe da ginnastica bianche, in piedi nella pozza del sangue di Elias.

Rais li prese e li indossò, facendo una certa fatica dovendo usare una mano sola, dato che aveva la Sig puntata sulla ragazza. Gli abiti erano stretti, e i pantaloni un po’ corti, ma sarebbero bastati. Infilò la pistola dietro l’elastico delle brache, e recuperò l’altra arma dal letto.

Elena era rimasta in biancheria, e si stringeva il torace con le braccia. Rais lo notò; prese il suo camice d’ospedale e glielo tese. “Copriti. Poi sali sul letto.” Mentre lei faceva come gli aveva ordinato, trovò un anello di chiavi alla cintura di Luca e si aprì l’altra manetta. Poi passò la catena attorno a una delle sponde del letto e ammanettò le mani della donna.

Appoggiò le chiavi all’estremità del comodino, lontano dalla sua portata. “Arriverà qualcuno a liberarti dopo che me ne sarò andato,” le disse. “Ma prima ho delle domande. Mi serve che tu sia sincera, perché se non lo sarai, tornerò a ucciderti. Lo capisci?”

Lei annuì freneticamente, con la guance rigate dalle lacrime.

“Quanti altri infermieri ci sono in questo reparto stanotte?”

“Ti prego, non far loro del male,” balbettò la donna.

“Elena. Quanti altri infermieri sono in questo reparto, stanotte?” ripeté Rais.

“Du-due…” Tirò su con il naso. “Thomas e Mia. Ma Tom è in pausa. Dovrebbe essere al piano di sotto.”

“Okay.” Il cartellino con il nome appeso al petto di Rais era delle dimensioni di una carta di credito. C’era una piccola foto di Elena, e sull’altro lato era attraversato per il lungo da una striscia nera. “Quest’unità di sera viene chiusa a chiave? E il tuo badge è la chiave?”

Lei annuì e tirò di nuovo su con il naso.

“Bene.” Si infilò la seconda pistola nell’elastico dei pantaloni e si inginocchiò vicino al corpo di Elias. Gli sfilò entrambe le scarpe e ci spinse dentro i piedi. Erano un po’ strette, ma abbastanza vicine al suo numero da poterle usare per la fuga. “Un’ultima domanda. Sai che cosa guida Francis? La guardia notturna?” Indicò l’uomo morto nell’uniforme bianca.

“No-non ne sono sicura. Un… un pick-up, credo.”

Rais frugò nelle tasche del cadavere e ne sfilò un mazzo di chiavi. Ce n’era elettronica; ciò lo avrebbe aiutato a trovare il veicolo. “Grazie per la tua onestà,” le disse. Poi strappò un angolo del lenzuolo e glielo infilò in bocca.

 

Il corridoio era vuoto e ben illuminato. Rais aveva la Sig in mano ma la teneva nascosta dietro la schiena mentre avanzava. Il corridoio si apriva su un ampio piano occupato dalla postazione a forma di U delle infermiere, e al di là di quella, l’uscita del reparto. Una donna con occhiali dalla montatura rotonda e un caschetto moro stava scrivendo a un computer, con la schiena rivolta verso di lui.

“Girati, per favore,” le disse.

La donna sorpresa si voltò e si trovò davanti il loro paziente/prigioniero con indosso un camice e un braccio insanguinato, che le stava puntando una pistola. Rimase senza fiato e strabuzzò gli occhi.

“Tu devi essere Mia,” disse Rais. L’infermiera sembrava sulla quarantina, con un aspetto materno, e cerchi scuri sotto gli occhi sgranati. “Mani in alto.”

Lei obbedì.

“Che cosa è successo a Francis?” domandò a mezza voce.

“Francis è morto,” rispose lui freddamente. “Se desideri unirti a lui, ti basta fare una mossa avventata. Se vuoi vivere, ascolta con attenzione. Adesso me ne andò di qui da quella porta. Una volta che si sarà chiusa alle mie spalle, conterai lentamente fino a trenta. Poi andrai nella mia stanza. Elena è viva ma ha bisogno di aiuto. Dopodiché potrai fare qualsiasi cosa tu sia addestrata a fare in una situazione di questo tipo. Hai capito?”

L’infermiera fece un secco cenno affermativo con il capo.

“Ho la tua parola che seguirai queste istruzioni? Preferisco non uccidere le donne quando posso evitarlo.”

Lei annuì di nuovo, più lentamente.

“Bene.” Rais oltrepassò la stazione, togliendosi nel frattempo il badge dalla casacca dell’ospedale per passarlo nello slot a destra della porta. Una piccola luce rossa divenne verde e la serratura si aprì. Con un ultimo sguardo a Mia, che non si era mossa, spinse la porta e aspettò che gli si richiudesse alle spalle.

Poi corse.

Si affrettò lungo un corridoio, infilandosi la Sig nei pantaloni. Prese le scale per il primo piano due gradini alla volta, ed emerse da una porta laterale nella notte svizzera. L’aria fresca lo accolse come una doccia purificatrice, e lui si prese un momento per respirare liberamente.

Gli tremavano le gambe, minacciando di cedere di nuovo. L’adrenalina della fuga si stava esaurendo in fretta, e i suoi muscoli erano ancora deboli. Prese la chiave elettronica di tasca e premette il pulsante rosso per le emergenze. Sentì accendersi l’allarme di un SUV e vide lampeggiare le sue luci. Lo spense subito e lo raggiunse di corsa.

Avrebbero cercato l’auto rubata, era ovvio, ma tanto non l’avrebbe usata a lungo. Presto avrebbe dovuto abbandonarla, trovare nuovi abiti, e il mattino seguente si sarebbe diretto verso l’Hauptpost, dove aveva tutto il necessario per scappare dalla Svizzera con una falsa identità.

E quanto prima avrebbe trovato e ucciso Kent Steele.

CAPITOLO QUATTRO

Reid non era nemmeno uscito dal vialetto d’ingresso per andare a incontrarsi con Maria, che già aveva chiamato Thompson per chiedergli di tenere d’occhio casa Lawson. “Ho deciso di concedere un po’ d’indipendenza alle ragazze, stasera,” spiegò. “Non starò via a lungo. Ma in ogni caso, terrebbe gli occhi aperti?”

“Certo,” concordò l’uomo anziano.

“E, uhm, se sente qualsiasi cosa di strano, ovviamente, vada a controllare.”

“Lo farò, Reid.”

“Lo sa, se non riesce a vederle o qualcosa del genere, può bussare alla porta, o chiamarle a casa…”

Thompson ridacchiò. “Non preoccuparti, ho la situazione sotto controllo. E anche loro. Sono adolescenti. Hanno bisogno di un po’ di spazio di tanto in tanto. Goditi il tuo appartamento.”

Tra lo sguardo attento di Thompson e la determinazione di Maya a dimostrarsi responsabile, Reid riteneva di poter stare tranquillo, sapendo che le ragazze sarebbero state al sicuro. Ovviamente, una parte di lui sapeva che era solo l’ennesimo esempio delle sue acrobazie mentali. Ci avrebbe continuato a pensare per tutta la notte.

Dovette usare il GPS sul telefono per trovare il posto. Non conosceva ancora bene Alexandria o i suoi dintorni. Maria invece era già pratica, grazie alla sua vicinanza a Langley e al quartier generale della CIA. Nonostante quello, la donna aveva scelto un posto in cui neanche lei era mai stata, probabilmente per giocare alla pari, per così dire.

Durante il tragitto sbagliò due svolte nonostante la voce del GPS gli dicesse dove andare e quando. Stava pensando allo strano flashback che ormai aveva avuto due volte, prima quando Maya gli aveva chiesto se Kate sapesse di lui, e di nuovo quando aveva sentito l’odore della colonia che la sua defunta moglie aveva amato. Continuava a tormentarlo, tanto che persino mentre cercava di prestare attenzione alle indicazioni stradali continuava a distrarsi.

Il motivo per cui era così strano era che ogni altro ricordo di Kate era estremamente vivido nella sua mente. A differenza di Kent Steele, lei non era mai svanita per davvero; Reid si ricordava il loro primo incontro, gli appuntamenti, le vacanze e l’acquisto della loro prima casa. Si ricordava il loro matrimonio e la nascita delle figlie. Ricordava persino le loro discussioni, o almeno così aveva creduto.

L’idea stessa che avesse perduto una qualsiasi parte di Kate lo turbava. Il dispositivo di soppressione della memoria aveva già dimostrato di avere qualche effetto collaterale, come l’occasionale emicrania provocata da un ricordo ostico. Era una procedura sperimentale, e il metodo di rimozione era stato tutt’altro che professionale.

E se mi avesse rubato di più del mio passato come agente Zero?

Quel pensiero non gli piaceva affatto. Era una brutta china; non ci sarebbe voluto molto perché cominciasse a credere di aver perso anche dei ricordi delle sue ragazze. E la cosa peggiore era che non aveva modo di accertarsene senza recuperare del tutto la sua memoria.

Era troppo, e sentì salirgli di nuovo il mal di testa. Accese la radio e alzò il volume per cercare di distrarsi.

Il sole stava calando quando entrò nel parcheggio del ristorante, un gastropub chiamato The Cellar Door. Aveva qualche minuto di ritardo. Uscì rapidamente dall’auto e corse verso l’ingresso dell’edificio.

Poi rimase di sasso.

Maria Johansson era una svedese-americana di terza generazione, e come copertura per la sua vera attività di agente della CIA faceva la contabile per l’amministrazione pubblica di Baltimora. Secondo Reid avrebbe dovuto essere una fotomodella per le copertine delle riviste, o magari per i paginoni centrali. Intorno al metro e ottanta, era alta quasi quanto lui, con lunghi capelli lisci e biondi che le ricadevano con eleganza sulla schiena. I suoi occhi erano color grigio ardesia, e molto intensi. Nell’aria fresca della primavera, indossava solo un semplice abito blu scuro con una profonda scollatura a V e uno scialle bianco sulle spalle.

La donna lo notò mentre lui si avvicinava e sorrise. “Ehi. Da quanto tempo.”

“Io… wow,” esclamò Reid. “Voglio dire, uhm… sei bellissima.” Gli venne in mente che non l’aveva mai vista truccata. L’ombretto blu era in tinta con l’abito e faceva sembrare i suoi occhi quasi luminescenti.

“Neanche tu sei male.” Maria annuì con aria d’approvazione per la sua scelta di vestiario. “Vogliamo entrare?”

Grazie, Maya, pensò Reid. “Sì, certo.” Afferrò la maniglia della porta e la tenne aperta per lei. “Ma prima di iniziare, avrei una domanda. Cosa accidenti è un ‘gastropub’?”

Maria scoppiò a ridere. “Credo che ai nostri tempi lo definissimo una bettola, solo che ora servono cibo più alla moda.”

“Chiaro.”

L’interno era intimo, se non addirittura piccolo, con mura di mattoni e travi di legno esposte sul soffitto. L’illuminazione veniva da lampadine in stile vintage, che contribuivano a creare un ambiente caldo e circoscritto.

Perché sono nervoso? pensò mentre si accomodavano. Conosceva quella donna. Insieme avevano impedito a un’organizzazione terroristica internazionale di assassinare centinaia, se non migliaia, di persone. Ma quella era una situazione diversa, non era un’operazione o una missione. Era piacere, e in qualche modo ciò faceva la differenza.

Conoscila meglio, gli aveva detto Maya. Fai del tuo meglio per essere interessante.

“Dunque, come va il lavoro?” finì per domandarle. Dentro di sé gemette per quel tentativo poco riuscito.

Maria sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto. “Sai che non posso parlarne.”

“Certo,” replicò Reid. “Ovviamente.” La donna era un agente operativo attivo della CIA. Anche se lui fosse stato un agente attivo, non avrebbe potuto condividere i dettagli di un’operazione a meno che non stessero lavorando insieme.

“E tu?” chiese Maria. “Come va con il nuovo lavoro?”

“Non male,” ammise lui. “Sono un associato, quindi per ora è part-time, ho solo qualche lezione alla settimana. Un po’ di compiti da correggere e cose del genere. Ma non è particolarmente interessante.”

“E le ragazze? Come stanno?”

“Eh… cercano di scendere a patti con la situazione,” rispose. “Sara non vuole parlare di quello che è successo. E Maya, in realtà…” Si fermò prima di dire troppo. Si fidava di Maria, ma allo stesso tempo non voleva confessare che la figlia maggiore aveva indovinato, con molta precisione, in che cosa fosse coinvolto. Gli si colorarono le guance di rosa e disse: “Mi ha preso in giro. Ha detto che questo è un appuntamento.”

“E non lo è?” domandò Maria a bruciapelo.

Reid sentì il volto cambiare di nuovo colore. “Sì, immagino che lo sia.”

La donna sorrise di nuovo con aria maliziosa. Sembrava che stesse ridendo del suo imbarazzo. In campo, nei panni di Kent Steele, lui aveva dimostrato di essere sicuro di sé, abile, e composto. Ma lì, nel mondo reale, era goffo quanto lo sarebbe stato chiunque altro dopo quasi due anni di celibato.

“E di te cosa mi dici?” continuò Maria. “Come te la cavi?”

“Sto bene,” rispose. “Sono tranquillo.” Non appena l’ebbe detto, se ne pentì. Non aveva appena imparato dalla figlia che l’onestà era la migliore politica? “Non è vero,” si corresse subito. “In realtà non va tutto così bene. Mi tengo impegnato con ogni genere di faccenda inutile, e mi do degli alibi, perché se mi fermo abbastanza a lungo da rimanere da solo con i miei pensieri, mi tornano in mente i loro nomi. Vedo le loro facce, Maria. E non riesco a non pensare che non ho fatto abbastanza per impedirlo.”

Lei sapeva esattamente di che cosa stava parlando, delle nove persone che erano state uccise nell’unica esplosione che Amun era riuscito a innescare a Davos. Maria si sporse attraverso il tavolo e gli prese la mano. Il tocco gli spedì una scarica elettrica su per il braccio, e sembrò calmargli i nervi. Le dita della donna erano calde e morbide sulle sue.

“È questa la realtà con cui dobbiamo fare i conti,” disse lei. “Non possiamo salvare tutti. So che non hai ancora recuperato tutti i tuoi ricordi come Zero, ma se li avessi, lo sapresti.”

“Forse non voglio saperlo,” rispose Reid a bassa voce.

“Lo capisco. Dobbiamo provarci lo stesso. Ma se credi di poter tenere tutto il mondo al sicuro diventerai matto. Sono state prese nove vite, Kent. È successo, e non possiamo tornare indietro. Ma avrebbero potuto essere un migliaio. È questo l’unico modo per vederla.”

“E se non ci riesco?”

“Allora… trovati un hobby, magari? Io faccio l’uncinetto.”

A Reid sfuggì una risata. “L’uncinetto?” Non riusciva a immaginare Maria che sferruzzava. Mentre usava i ferri da maglia come arma per storpiare un dissidente? Certo. Ma mentre faceva sul serio l’uncinetto?

Lei rimase a testa alta. “Esatto, faccio l’uncinetto. Non ridere. Ho appena finito una coperta più morbida di qualsiasi cosa tu abbia mai toccato in vita tua. Il punto è che devi trovarti un hobby. Ti serve qualcosa che ti tenga le mani e la mente impegnate. Che mi dici della tua memoria? Ci sono miglioramenti?”

Reid sospirò. “Non molto. Immagino che non mi sia successo niente in grado di smuoverla. È ancora tutto confuso.” Mise da parte il menu e intrecciò le mani sopra al tavolo. “Anche se, dato che ne stiamo parlando… poco fa mi è successa una cosa strana. È riemerso un frammento di un ricordo. Era su Kate.”

“Oh?” Maria si morse il labbro inferiore.

“Già.” Reid rimase in silenzio per un lungo momento. “Le cose tra me e Kate… prima che lei morisse. Andavano bene, giusto?”

Maria lo fissò dritto in faccia, i suoi occhi grigio ardesia puntati su quelli di lui. “Sì. Per quanto ne so, tra di voi le cose sono sempre andate bene. Kate ti amava moltissimo, e tu provavi lo stesso per lei.”

Reid trovò difficile sostenere il suo sguardo. “Già. Certo.” Scosse la testa. “Dio, sentimi. Sto parlando della mia defunta moglie a un appuntamento. Ti prego, non dirlo a mia figlia.”

 

“Ehi.” La donna gli strinse di nuovo le dita tra le proprie sopra al tavolo. “Va tutto bene, Kent. Lo capisco. Per te è una cosa nuova. Neanche io sono un’esperta qui, quindi… ne verremo a capo insieme.”

Rimasero fermi, mano nella mano. Era una sensazione piacevole. No, era qualcosa di più, era giusto. Lui ridacchiò nervosamente, ma il suo sorriso si trasformò in una smorfia perplessa quando fu colpito da uno strano pensiero, cioè che Maria lo chiamava ancora Kent.

“Che c’è?” domandò la collega.

“No. Stavo solo pensando… Non so nemmeno se Maria Johansson è il tuo vero nome.”

La donna scrollò le spalle, senza sbilanciarsi. “Potrebbe esserlo.”

“Non è giusto,” protestò Reid. “Tu conosci il mio.”

“Non sto dicendo che non sia il mio vero nome.” Si stava divertendo a prenderlo in giro. “Mi puoi sempre chiamare agente Calendula, se preferisci.”

Reid scoppiò a ridere. Calendula era il suo nome in codice, come Zero per lui. Gli sembrava buffo, usare i nomi in codice quando si conoscevano personalmente, ma d’altra parte, la parola Zero sembrava incutere paura in molte persone che aveva incontrato.

“Quale era il nome in codice di Reidigger?” chiese piano poi. Era quasi doloroso da domandare. Alan Reidigger era stato il migliore amico di Kent Steele—no, pensò Reid, era il mio migliore amico—un uomo dalla fedeltà apparentemente incrollabile. L’unico problema era che non ricordava quasi nulla di lui. Ogni memoria di Reidigger era svanita insieme all’impianto che Alan aveva aiutato a inserire.

“Non te lo ricordi?” Maria fece un sorriso gentile, ripensandoci. “È stato Alan a darti il nome Zero, lo sapevi? E tu hai dato a lui il suo. Dio, erano anni che non ci pensavo. Eravamo ad Abu Dhabi, mi sembra, avevamo appena terminato un’operazione ed eravamo ubriachi in un qualche albergo snob. Ti definì ‘Ground Zero’, come il punto d’impatto di una bomba, perché avevi la tendenza a lasciarti dietro solo macerie. Poi divenne solo Zero, e il nome ti rimase attaccato. E tu lo chiamasti…”

Un telefono squillò, interrompendo la sua storia. Istintivamente Reid lanciò un’occhiata al proprio cellulare, appoggiato sul tavolo, aspettandosi di vedere il numero di casa sua o del telefono di Maya sullo schermo.

“Tranquillo,” disse Maria, “sono io. Lo ignorerò…” Guardò il proprio cellulare e corrugò le sopracciglia perplessa. “In realtà, è dal lavoro. Solo un secondo.” Rispose. “Sì? Mmh-mmh.” Il suo sguardo serio incontrò quello di Reid. Lo sostenne mentre la sue espressione si faceva sempre più accigliata. Qualsiasi cosa stessero dicendo dall’altro capo della linea non erano di certo buone notizie. “Ho capito. Okay. Grazie.” Riappese.

“Mi sembri turbata,” notò lui. “Lo so, lo so, non puoi parlare di lavoro e…”

“È scappato,” mormorò la donna. “L’assassino di Sion, quello in ospedale? Kent, è fuggito, meno di un’ora fa.”

“Rais?” esclamò Reid sbalordito. Subito un sudore gelido gli coprì la fronte. “Come?”

“Non ho nessun dettaglio,” rispose in fretta lei mentre rinfilava il cellulare nella borsetta. “Mi dispiace così tanto, Kent, ma devo andare.”

“Sì,” mormorò l’uomo. “Capisco.” Era come se fosse a centinaia di chilometri di distanza dal loro intimo tavolo nel piccolo ristorante. L’assassino che aveva lasciato per morto—non una volta ma due—era ancora vivo, ed era in libertà.

Maria si alzò, e prima di andarsene, si chinò e premette le labbra alle sue. “Presto ci rivedremo di nuovo, te lo prometto. Ma per adesso, il dovere mi chiama.”

“Ma certo,” replicò lui. “Vai e trovalo. E, Maria? Stai attenta. È pericoloso.”

“Lo sono anche io.” Gli fece l’occhiolino, e poi uscì rapidamente dal ristorante.

Reid rimase seduto da solo per un lungo momento. Quando la cameriera si avvicinò, non la sentì nemmeno parlare; le fece solo un vago cenno a indicare che stava bene così. Ma la realtà era che stava tutt’altro che bene. Non aveva nemmeno sentito un brivido nostalgico quando Maria lo aveva baciato. Tutto ciò che aveva provato era una stretta allo stomaco per l’ansia.

L’uomo convinto di essere destinato a uccidere Kent Steele era scappato.

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