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Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867

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Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867
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ALLA MIA VENERATA MAMMA
CONFORTO E SVAGO
NELLA SUA TARDA ETÀ
QUESTA BREVE PAGINA
DELLA MIA VITA

PREFAZIONE

Tra tutte le campagne di Garibaldi quella del 1867, nell'Agro Romano, è, senza dubbio, la più bizzarra e la più singolare.

Chi ebbe la fortuna di far parte, in quel tempo, del microscopico esercito condotto dal gran capitano, rammenta, anche oggi, a mente fredda, come una delle più fantastiche e sorridenti visioni, quella baraonda di gente, capitata da ogni parte d'Italia e trascinata da un solo pensiero: Andare a Roma a ogni costo; rifarsi delle busse toccate, l'anno prima, dall'Austria e farla finita col potere temporale.

Erano quasi tutti col vestito che portavano in città e quindi, in meno di quello che si dice, riusciva più facile prenderli per straccioni che per cavalieri di un ideale. I fucili poteano dirsi fratelli gemelli di quelli della guardia civica del 1848, forse erano gli stessi, e, quando si arrivava a poterli scaricare potea dirsi un vero prodigio. Le scarpe ridevano da tutte le parti. Qualche camicia rossa la si vedeva, e si vedeva anche qualche gallone dorato o inargentato, ma tutto insieme era uno strano miscuglio di soprabiti e di giacchette, di giubbe e di cacciatore, di pioppini, di papaline e di cappelli alla calabrese. Stefano Canzio fece tutta la campagna in tuba, ed a Mentana, in mezzo all'infuriare delle palle, appariva più bello del vero, sotto quella copertura così aristocratica!

Un capo armonico comprò da un chierichetto spiantato il suo zimarrone e si battè fino all'ultimo, con quell'indumento sacerdotale…

Oh, le belle serate di Terni che preludiarono le marcie faticose, i forzati digiuni, i sacri entusiasmi delle battaglie, le serene soddisfazioni dei sacrifizi, incontrati sorridendo… tanto era la fede che fioriva nel cuore!

Nei gruppi sussurroni dei giovinotti che facevano della strategia a buon mercato e trinciavano di politica a tutto pasto, incrociavansi tutti i dialetti, confondevansi tutti i vernacoli, apparivano grandiose le bestemmie di tutte le regioni italiche. La bestemmia è l'abituale interpunzione del soldato, specie se è in faccia al nemico!

Gli arruolamenti si facevano sui tavolini dei caffè: qualche foreria era in una bettola e qualche stato maggiore in una locanda.

Il governo chiudeva gli occhi: i ragazzi, la sera, alla ritirata accompagnavano i soldati cantando a squarciagola:

 
Anderemo a Roma santa
A dispetto dei francesi.
 

Gli ufficiali ci guardavano con invidia. Poveri figlioli! Avrebbero dovuto trattenerci e avevano una voglia matta di venir via insieme con noi!

Menotti Garibaldi, dopo aver sconfinato alla Farfa, erasi misurato coi papalini a Monte Libretti, dove, Achille Fazzari, pugnando come un leone, ebbe morto, crivellato da 17 palle, il cavallo e riportò grave ferita alla gamba. Acerbi avanzavasi nel viterbese: Nicotera aveva già occupato Ceprano.

I fratelli Cairoli, doveano in Roma prestar mano a Francesco Cucchi, designato capo dell'insurrezione. Le cose andavano per le lunghe: il comitato nazionale tradiva; i cospiratori perdevansi in infeconde organizzazioni e in preparativi sballati; i vecchi non avevano fede, i giovani migliori, disdegnosi della tirannide papale aveano, da gran tempo, presa la via dell'esilio e, in quell'ora, si trovavano già al loro posto nelle file dei garibaldini. Quando la verità verrà a galla sarà una gran brutta pagina per certi messeri quella dell'abortita rivoluzione del 1867.

Enrico Cairoli, assetato d'azione, rifuggente da ogni indugio, molestato dalla polizia e per breve tempo arrestato, stanco oramai dall'attendere e smanioso di pericolo, un bel giorno lasciò l'eterna città e se ne venne a Terni ove adunò intorno a sè il glorioso manipolo che ha reso eterno nel cuore degli italiani il ricordo di Villa Glori.

I settanta hanno oggi l'onore di appartenere alla leggenda.

Pio Vittorio Ferrari fu del bel numero uno e, dopo trentadue anni, pubblica oggi questo volumetto, nel quale narra minutamente gli episodi giornalieri dell'eroica spedizione.

Anche Pio Ferrari trovavasi a Roma, quando vi era il Cairoli, quando, di momento in momento, dovea scoppiare la rivoluzione e, disilluso anche lui, piantò l'assonnata città per andare con Garibaldi.

La narrazione dell'imberbe giovinetto, scappato, si può dire, dalle sottane della mamma che amava, riamato, dell'affetto più intenso e sbalestrato in un mondo che ei non aveva mai potuto intravedere, improvvisato soldato e cospiratore incosciente, è quanto di più semplice possa mai immaginarsi.

Il pregio maggiore di queste memorie alla casalinga è proprio quello di non contenere alcun artifizio e di esser prive addirittura di qualunque fronzolo o ciarpame rettorico. Il vero vi si rispecchia in ogni frase, in ogni periodo. L'autore non ha la pretesa di fare un'opera d'arte: egli racconta alla buona le peripezie che, lungo le marcie, durante il breve combattimento, nel quale egli fu tra i primi ferito, e nel lungo soggiorno dell'ospedale – a San Spirito e poi a Sant'Onofrio – accompagnarono un breve periodo della sua vita, del quale può andare giustamente orgoglioso.

Uno dei difetti più facili a incontrarsi nelle pubblicazioni che riferisconsi a imprese guerresche e sono narrate in prima persona è quello di sgusciar, non volendo, nel Miles gloriosus di Plauto. Il Ferrari questo difetto non l'ha davvero: anzi, allorchè parla di azione, di eroismi, di pugna ei si ritrae, come una sensitiva, e pare voglia nascondersi…

Nulla però è più efficace della verità; e le scene dei cospiratori in via dei Quattro Cantoni, e il via-vai dei monsignori che vogliono convertire i garibaldini nell'ospedale sono bozzetti addirittura geniali.

Della campagna del 1867 non è stata scritta finora una storia esatta; importanti lavori ne furono pubblicati e non pochi. Basti il citare Da Terni a Mentana del Guerzoni e gli stupendi sonetti, in dialetto romanesco, di Cesare Pascarella, così cari al Carducci, e così efficaci nel ritrarre i particolari più salienti della spedizione dei settanta. Tutti però si sono limitati a dettare memorie personali o ad illustrare fatti isolati. Molti furono i canti, manca insomma il poema.

Sull'azione del glorioso manipolo che con Enrico Cairoli erasi consacrato alla morte, sul fatto stesso di Villa Glori molti furono e sono ancora i commenti, ma, per quanto possano essere disparati i giudizi, per quanto diverse le accuse, per quanto severe le critiche, rimarrà sempre il leggendario ardimento, il sacrifizio epico, la morte radiosa preferita alla complicità della inerzia… Villa Glori fa oggi parte della nostra Epopea nazionale e, finchè innanzi alla colonna funerea, inalzata accanto al mandorlo alla cui ombra esalò l'anima grande Enrico Cairoli, si raccoglieranno, nel glorioso anniversario, i giovani nostri, non ci è da disperare dell'avvenire.

L'esempio di chi muore per un'idea è sempre proficuo.

Lumeggiare, in ogni suo particolare, l'azione grandiosa di un popolo che tanto operò e tanto sofferse per avere una patria – insegnare ai giovani, quanto sia facile farsi maggiore d'ogni privazione e affrontare qualunque sacrifizio, quando si ha la fede nel cuore – dimostrare colla semplice narrazione dei fatti che colla costanza si vincono tutte le nobili cause, e far tutto questo alla spicciola, senza andare in cerca di parole lambiccate, di frasi contorte, di citrullerie metafisiche, e di mirabolanti astrazioni filosofiche, è la propaganda più efficace, la più pratica delle lezioni.

Questo ha voluto fare, e ci è riuscito, il Ferrari, e voglio sperare che il suo libro avrà tra i giovani molti lettori.

È deplorevole che quasi tutti coloro i quali frequentan le scole, conoscano, almeno di nome, gli eroi dell'evo antico e sieno affatto digiuni di ogni notizia su chi di quelli eroi seppe accettare il retaggio.

Eppure gli ultimi non impallidiscono innanzi ai primi e talvolta ne vincono il paragone.

Masina che muore, lanciando il proprio cavallo fino al primo pianerottolo del casino dei Quattro Venti può stare alla pari di qualunque paladino dell'Ariosto: Bronzetti che non si ritira e, morendo a Castel Morone, assicura la vittoria del Volturno non ha nulla da invidiare a Leonida: Enrico Cairoli che gitta l'anima grande all'avvenire, e cade col revolver in pugno, proferendo il nome della mamma, è la espressione più nobile del cavaliere dell'ideale.

Narriamo adunque questi fatti, profilando colla parola e collo scritto le belle figure rispecchianti tutta la gentilezza del sangue latino, e se ai nostri racconti, all'evocazione di tanta virtù, se al ricordo di quanto sangue generoso è costata la patria, la gioventù non sentirà fremente il dovere di mantenerla intatta questa nostra povera patria, di migliorarne la sorte, di strapparla al disonore ed alla vergogna, dovremo vergognarci di esser nati italiani!..

I libri, come quelli del Ferrari, sono un ricordo ed un monito.

Sieno i benvenuti, oggi più che in ogni altro tempo, dacchè da tutti è sentita, purtroppo, la deficienza dei caratteri, ed è sui buoni libri che si forma il carattere.

Ettore Socci.

I.
Partenza

Una sera del settembre 1867 mi trovavo al Casino o Circolo sociale di Udine e si chiacchierava secondo il solito, di politica, trinciando il mondo a diritto ed a rovescio con la giovialità e la spensieratezza dei vent'anni.

La compagnia s'accresceva ad ogni istante di qualche amico: finalmente ad un dato punto tutti si levarono come a segnale convenuto e passarono nella sala attigua.

 

Volli seguirli, ma mi fu impedito: ciò che mi parve molto strano.

– O che, ci avete dei segreti? chiesi ad un amico.

– Abbiamo un affare nostro da sbrigare.

– Ed io non posso intervenire?

– No, abbi pazienza: a suo tempo saprai ogni cosa.

– Ma di che si tratta dunque?

– Parola d'onore, te lo dirò.

E mi chiuse la porta in faccia, lasciandomi solo. Per tutto quel giorno almanaccai su quella conferenza a porte chiuse. – Che sarà mai? pensavo. – Affari della società? oh no di certo, perchè io pure sono socio e dovrei saperne qualche cosa!

All'indomani, appena uscito di casa, mi diressi all'ufficio della Sentinella friulana. Era questo il titolo di un periodico settimanale, che si stampava da noi giovani e che aveva per iscopo e programma di educare ed istruire il popolo.

Non saprei dire quanto e come il nobile intento fosse effettivamente da noi raggiunto, nè se i mezzi adoperati fossero i più adatti. Di due cose mi ricordo, le quali per lo meno fan fede delle nostre buone intenzioni: che tutti noi ci mettevamo una grandissima attività e che il periodico era dispensato gratuitamente, come gratuita era l'opera nostra. Ne pagava le spese una eletta schiera di patroni (chiamiamoli così), i quali contribuivano con due lire al mese. Non ricordo quanti fossero: so però che il giornale era letto e se ne distribuiva un migliaio di copie circa.

Questa cuccagna durò, credo, tre o quattro mesi, poi si risolse in un deficit, che troncò miseramente la vita alla filantropica pubblicazione.

Era di buon mattino ancora e però rimasi sorpreso allorchè, entrando nell'ufficio ch'io credevo di essere primo ad aprire, lo trovai invece occupato da alcune persone a me sconosciute, le quali conversavano animatamente. Al mio entrare la conversazione s'interruppe d'un tratto, poi fu ripresa a bassa voce. Io fingendo di non interessarmici, mi misi a sfogliare alcune carte, ma in realtà tendevo l'orecchio. Morivo dalla curiosità.

Poco dopo entrò un comune amico, il quale senza tanti misteri, forse credendomi d'intesa con gli altri, depose sul tavolo alcuni biglietti di banca.

– Ecco tutto quello che ho potuto cavare di tasca al signor X… (il nome non serve), esclamò.

– Basterebbe al più per due di noi, soggiunse uno degli interlocutori.

– Sta bene, ribattè un altro, ma quando saremo sul posto, come si farà? ci toccherà viverci per chi sa quanti giorni!

– Ma io credo che là si provvederà.

– Chi ne sa nulla?

– Intanto potreste partire e quando sarete sul luogo, spediremo dell'altro; frattanto ci adopereremo.

– Non lo credo prudente. Per ritirare denaro quando s'è fuori, fa d'uopo declinare il proprio nome alla posta od alla banca, e noi abbiamo bisogno di tenerci nascosti. Io, fra l'altro, non ho passaporto: quindi non si sa mai quel che possa accadere.

Dal dialogo interrotto, dalla ricerca di quattrini e da altri indizi mi parve comprendere di che si trattasse.

Uscii come se nulla fosse e la prima persona che incontrai fu l'amico del giorno prima, quello che m'avea dato parola di palesarmi il segreto.

– Giurami che mi dirai la verità, gli dissi. Voi combinate qualche cosa per Roma.

– Come lo sai? mi chiese sorridendo.

– L'ho potuto argomentare da un discorso ora udito all'ufficio del giornale. E tu perchè non mi dicevi nulla?

– Sei troppo ragazzo, si temeva che parlassi; ma al momento di partire figurati se non te lo avrei comunicato!

– Quando si parte?

– Ora lo vedremo. E rientrammo all'ufficio.

C'era anche un mio amico triestino, Giusto Muratti. Per partire si attendeva un telegramma da Firenze.

Il telegramma venne finalmente.

– Io parto, dissi al Muratti. Vieni?.. e fu stabilito di lasciare, se fosse possibile, la città quella notte stessa.

Due ostacoli però si frapponevano. Il Muratti non aveva passaporto. Io invece l'avevo e in perfetta regola; ma in compenso non avevo quattrini e se ne avessi chiesto in casa, avrei messo sospetto e certo mi sarebbe stata impedita la partenza.

Al passaporto per il Muratti fu subito provveduto: un amico gli prestò il suo. Più difficile fu risolvere l'affare dei quattrini per me. Un signore me li aveva promessi per la sera: uscii a notte tarda con armi e bagaglio e mi recai da lui, ma non era in casa. Il tempo stringeva e solo un'ora mancava alla partenza del treno.

Inquieto per tale contrattempo, lasciai il mio piccolo bagaglio al Muratti, pregandolo di attendermi, chè avrei fatto un altro tentativo. Erano le nove di sera e certamente poche speranze potevo nutrire a quell'ora per simili affari. Ma io conoscevo le abitudini casalinghe di un amico. A quell'ora doveva essere a cena: ero quindi sicuro di trovarlo in casa.

Andai da lui e lo trovai; gli chiesi trecento lire, me le diede senza aprir bocca e ritornai trionfante dal Muratti che mi attendeva sulla via.

Un'ora dopo il treno diretto della notte ci portava alla volta di Firenze.

In mia casa per quella sera e fino al mezzogiorno del domani non se ne seppe nulla.

S'era bensì vociferato alcuni giorni prima in città della misteriosa partenza di alcuni giovinotti, ma nessuno aveva saputo dare spiegazioni.

Qualche cosa n'aveva inteso anche la mia buona mamma e però forse divinava. In casa seguiva ogni mio passo e quando quella sera picchiò alla mia stanza, dove m'ero rinchiuso per comporre un po' di biancheria entro una piccola sacca, dovetti nascondere sacca e biancheria sotto il letto per non darmi a conoscere.

Voleva che l'accompagnassi presso certi nostri parenti. Le dissi che non potevo perchè dovevo fare una visita di dovere in casa X… E così dopo desinare io andai a vestirmi in abito nero da società con guanti e gibus ed essa venne a vedere di persona se l'abbigliamento era all'ordine e mi stava bene.

– Mi raccomando, sai? mostrati garbato e riverisci da parte mia.

– Sì, mamma. – Le diedi un bacio ed uscii in gran fretta. Mi veniva da piangere.

Forse quel bacio potea essere l'ultimo ed ella non lo sapeva. In ogni modo l'indomani avrebbe provato un grande dolore.

Ad alleviarlo, le diressi, poco prima di partire, un bigliettino e lo impostai alla stazione.

Le chiedevo scusa d'averla in tal modo ingannata: partivo per un affare di premura e la pregavo di non fare di me ricerca alcuna perchè a suo tempo le avrei fatto avere mie nuove.

II.
In viaggio

All'albergo della Luna a Firenze, dove prendemmo stanza, ci attendevano parecchi amici partiti prima di noi. Primeggiava fra essi e fungeva da capo Francesco Tolazzi, valoroso soldato, che poi, fino a pochi anni or sono, fu modesto impiegato: ora pur troppo è morto. Nel 1864 era stato intrepido capitano di una piccola banda di insorti friulani i quali, battendosi a Monte Castello, avevano dalle alte vette delle Alpi Carniche messo in iscompiglio ed in moto un intero corpo d'armata austriaco che aveva alla testa il generalissimo Benedek, appositamente chiamato a tal comando. L'intera provincia del Friuli era stata posta in istato d'assedio. La mobilitazione di quel corpo costò all'Austria la bellezza di quasi due milioni di lire, mentre la banda dei volontari non raggiungeva forse i venti uomini!

Parte di costoro erano stati imprigionati, parte ne vidi io stesso rimessi in libertà nel 1866, altri riuscirono a fuggire e ripararonsi nel Regno.

Fra questi il Tolazzi, il Cella ed il venerando Andreuzzi. Quest'ultimo stette ben 17 giorni sotto un crepaccio di montagna mantenendosi a polenta e latte, che gli recava un pastore, e tenendosi la stricnina in tasca, pronto al suicidio piuttosto che cadere in mano al nemico!

Belle memorie!

Quando io ed il Muratti arrivammo, gli amici che ci avevano preceduto si preparavano a proseguire il loro viaggio. Avevano tutti portata seco una rivoltella e fu non piccola difficoltà l'adattarsela in modo che non fosse veduta; la scoperta di una compagnia di giovinotti armati a quel modo avrebbe potuto procurarci seri guai anche colla polizia italiana.

Essi dovevan passare il confine per Orte e Corese; noi insieme a qualche altro amico lo avremmo passato l'indomani dalla parte di Montalto e Civitavecchia.

Partirono dunque assieme gli amici Marzuttini, Berghinz, Andreuzzi juniore, Facci, Cella e Povoleri.

La giovialità serena ed esilarante di quest'ultimo teneva allegra la compagnia. Chi l'avrebbe detto allora! Il Povoleri finì suicida in Alicante pochi anni dopo, ed egual fine si ebbe pure più tardi il povero Cella; egli che aveva sfidato tante volte la morte, che al ponte del Caffaro aveva sostenuto con un capitano austriaco, un duello corpo a corpo da non aver riscontro che nelle epopee antiche1; egli che fu il primo ferito di quella guerra e meritò l'onore di essere chiamato da Garibaldi: prode fra i prodi!

E morto è pure il povero Carletto Facci, anima gentile e dolcissima di intelligente amico! Il Berghinz e l'Andreuzzi da parecchi anni portarono nella libera America l'onesta loro attività e forse non li vedremo più: tutti scomparsi!

L'indomani partimmo anche noi venuti dopo ed a noi si unì pure l'amico Alberto Ceresa di Lodi.

Eravamo in quattro ed anche di noi quattro uno pur troppo or non vive più che nella dolce memoria!

Il Comitato residente in Firenze ci aveva designati gli alberghi dove in Roma dovevamo prendere alloggio. Così alcuni furono mandati all'Hôtel Roma, altri all'Europa, altri all'albergo Cesari; il Muratti ed io fummo destinati alla Minerva, noto sbarcatoio, allora come ora, di tutti i gros-bonnets del legittimismo.

Prima di partire dovemmo far legalizzare i nostri passaporti dal console spagnolo che abitava fuori di Porta al Prato, ed anche questa pratica ritardò la nostra partenza di qualche ora. Curiosa contraddizione! Pio IX avea tanta fiducia nella Francia che si faceva difendere dalle sue truppe, ma per i passaporti esigeva il timbro della Spagna!

Sostammo a Livorno la notte per riprendere di buon mattino il treno maremmano. I carabinieri alla stazione non ci diedero noia. A noi però sembrava ci tenessero d'occhio e non respirammo liberamente che quando il treno si mosse.

A Montalto visita doganale. Un ricevitore sfogliò due o tre volte una Guida d'Italia che gli si affacciò nell'aprire la mia sacca, poi mi diè una sbirciata di sottecchi. Forse volea scrutare nel mio volto un possibile lettore di libri proibiti.

Da Follonica in giù eravamo rimasti in coupé noi quattro con altri due giovinotti che non conoscevamo. Costoro, forse indovinando o fidando nella lealtà della gioventù che non tradisce, cavarono di tasca prima d'arrivare a Montalto due rivoltelle e cominciarono a consultarsi fra loro sul modo di poterle nascondere prima di arrivare al confine.

Vedendo quelle armi, immaginammo che il loro viaggio avesse l'identico scopo del nostro. Lo chiedemmo e ce lo confermarono. Allora suggerimmo loro di nascondere le rivoltelle nell'imbottitura dei sedili cavando un poco di stoppa: così fu fatto; e poi che ebbero subìta la visita doganale e ripresi i loro posti, ricuperarono senza inconvenienti le loro armi.

Erano due bravi giovinotti: li lasciammo alla stazione di Roma e non li rividi più. Ricordo però il nome di uno, Natale Capaccioli, nome che rividi più tardi nella funebre lista dei morti a Mentana.

Apparteneva al glorioso battaglione livornese guidato dal Mayer2.

 

Il sole era già calato in un ampio manto di nuvole d'oro: cominciava ad imbrunire.

Il treno correva monotono attraversando le desolate ed interminabili lande della campagna romana; la conversazione nostra era andata gradatamente languendo: il crepuscolo stesso invitava al silenzio.

Un senso indistinto di brivido m'aveva preso.

La certezza di trovarmi in paese nemico; la possibilità di essere pedinati dalla polizia, scoperti e gettati in un carcere senza nemmeno il merito d'aver mosso una paglia; l'impresa non ben determinata che ci attendeva in Roma; il ricordo della famiglia lasciata la quale forse in quel momento era in tutte le angosce non sapendo dove e come fare di me ricerca; ciò tutt'assieme dava ai miei pensieri una tristezza meditabonda alla quale invitava anche la stessa ora tarda della sera ed il paesaggio che ci si svolgeva innanzi agli occhi, malinconico e desolante.

Si attraversavano immense praterie che andavano a confondersi a perdita d'occhio col lontano orizzonte, colline e vallate alternantisi per interminabili pendii, ma spoglie affatto d'ogni vegetazione e solo popolate qua e là da mandrie di pecore, di bufali e di cavalli. Non un arbusto, non un boschetto, non una casa! Il treno correva correva… passata Civitavecchia, passato anche Palo, ultima fermata del diretto, e via via Palidoro, Maccarese, Magliana e finalmente Roma!

Roma, termine dei nostri pensieri, meta delle nostre aspirazioni, delle aspirazioni d'ogni italiano! l'avremo?.. chi lo può dire? come l'avremo?.. chi lo sa? ci sono armi? è preparata la popolazione? insorgeranno?.. e se ci lasciassero soli?.. faremo le barricate; e se ci agguantano?.. ci fucileranno, ci impiccheranno come congiurati, come framassoni!.. e la mamma? Questo dolce ricordo che facea capolino fra l'incertezza di sì tristi presentimenti, mi produsse il senso di un'angoscia disperata. Guardai i miei compagni: alcuni dormivano, altri meditavano pur essi, e mi pareva scorgere anche sui loro volti i segni d'una preoccupazione profonda!

Ma io quando il treno, finalmente rallentando, sostò e udii proferire il gran nome: Roma! io asciugavo due grosse lagrime!

Alla stazione ci dividemmo senza saluti e commiati come fossimo affatto sconosciuti l'uno all'altro.

Alla Minerva si convenne fra me e il mio compagno di parlare sempre in dialetto per il caso che qualche spia origliasse alle porte. Ottima precauzione, che però corse pericolo di venir guastata fin dalla prima sera dal carattere impetuosamente istintivo del compagno mio.

Poco dopo aver preso possesso del nostro alloggio, ecco un cameriere tutto giuggiole e tutto inchini a domandarci ossequiosamente i nostri riveriti nomi, o meglio ancora, se non c'era d'incomodo, i rispettivi passaporti. Consegnammo i nostri nomi scritti su di un polizzino, non essendo il caso di porgere carte da visita; quanto ai passaporti, rispondemmo che li avremmo consegnati l'indomani, perchè ci scomodava levarli allora dal fondo dei bauli.

Il cameriere ricevette la carta, mormorò uno strascicato e gentile: Benissimo! poi avendoci chiesto se desideravamo mangiare, scendemmo senza altro con lui al restaurant.

Era un salone vastissimo decorato a marmi e stucchi con colonne di marmo, nicchie e statue; qualche cosa di mezzo fra l'aula accademica e la chiesa. Un unico candelabro illuminava il vasto ambiente, che rimaneva quasi tutto in penombra o buio, e davanti al candelabro sedevano a tavola un prete e un suo giovane allievo. Mangiammo di buon appetito. Il prete e l'allievo sorbivano un the, e rammento ancora la strana impressione che ci fece il veder l'allievo, prima di bere e dopo aver bevuto, fare certi enormi segni di croce, come se avesse avuto da esorcizzare la bevanda.

Cenando però mi venne un dubbio, che cioè il protrarre al domani la presentazione dei passaporti potesse dare qualche sospetto; ne feci motto al mio compagno ed egli pure fu del mio avviso. Perciò, finito alla meglio il desinare, risalimmo nella stanza e chiamammo il cameriere.

– Eccole i nostri passaporti, disse tosto il Muratti con un tono burbero in lui abituale, e accentuando le parole sì che uscivano come schioppettate.

– Oh si figuri! rispose l'altro cerimoniosissimo. Non occorreva che lor signori si disturbassero per questo; facciano il loro comodo; se non è questa sera, sarà domattina che daranno conto di sè alla polizia.

Questa parola, detta, io credo, affatto innocentemente da quel loiolino ganimede, fece scattare il mio compagno come se l'avesse punto una vipera, e affrontando minaccioso il cameriere

– Che polizia! gridò.

– Sì, riprese impaurito ed officioso il cameriere, la polizia, cioè l'ufficio dei passaporti, perchè l'ordine è così; sa, noi non c'entriamo per nulla!

– Che polizia, che polizia! per chi ci prende lei? Eccole i passaporti! e li buttò al cameriere con tale una grazia, che questi pel suo meglio sgattaiolò lesto come una gazzella e scese di corsa per il corridoio probabilmente a raccontare al padrone le suscettività tempestose del forestiere nuovo arrivato, mentre io strapazzavo di santa ragione l'amico, dicendogli che con simili modi non si va a cospirare in paese nemico e che se cominciavamo così, non sarebbe passato un giorno che ci avrebbero legati, e l'avremmo finita male!

1«Qui accadde un fatto degnissimo di poema e di storia, e fu che certo capitano austriaco sfidò a singolare tenzone il tenente Cella friulano; entrambi valorosi davvero e l'uno competente all'altro; però o la maggior perizia o piuttosto la fortuna sovvenisse il tenente, il fatto sta che il capitano, rilevate diciassette ferite, si ebbe a rendere: finchè durò questo duello cessarono di tirare da una parte e dall'altra, e il vincitore con parole blande consolò il vinto, chè a questo modo deve costumare chiunque abbia voglia che la virtù gli frutti lode e non biasimo». Guerrazzi, Il secolo che muore, cap. X. – Posso aggiungere che i due feriti furono trasportati a Salò e curati in uno stesso ospedale, divennero poscia amici.
2I sessanta carabinieri livornesi, la vecchia guardia della giornata, lasciarono circa la metà di loro sul terreno. Fra questi dodici morti, dei quali troviamo in un album pietoso registrati i nomi, che ci par sacro ripetere: Bertagni Vincenzo, Boni Egidio, Caillon Gustavo, Capaccioli Natale, Cipriani Ubaldo, Costa Pietro, Franceschi Francesco, Grotta Giovanni, Lircan Bellini, Giuliani Francesco, Paci Silvestro.
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