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Il Volto della Morte

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Iniziò a colpire alla cieca, indirizzando i gomiti e i piedi all’indietro, cercando di trovare quel corpo e prenderlo alla sprovvista. L’uomo sibilò sottovoce, imprecando, ripetendole di fermarsi. No. Spinse nuovamente il gomito all’indietro, un tentativo disperato nell’oscurità, e lo sentì urtare violentemente contro qualcosa.

L’autista grugnì dal dolore, e la forza che le serrava la gola si affievolì per un secondo. Rubie cadde in ginocchio, avanzando carponi, trovando via libera. Qualsiasi cosa le avesse stretto attorno al collo, non c’era più. Si alzò da terra e scattò in avanti, ad una giusta angolazione dal fascio di luce dei fari, evitando il percorso illuminato.

C’era qualcosa di caldo e denso che scivolava suo petto mentre correva, boccheggiando all’aria fredda che bruciava come ghiaccio nei suoi polmoni. Di cosa si trattava? La sua mano si sollevò, avvertendo una sensazione di bagnato su tutta la maglietta, indagando cosa fosse mentre i suoi piedi inciampavano sul terreno irregolare. Non riuscì a capire se lui la stesse inseguendo, ma continuò a correre il più velocemente possibile, più veloce di quanto sperava che le sue gambe riuscissero a fare. Quella sensazione di bagnato proveniva dalla sua gola, da dove prima aveva sentito la pressione; una ferita che iniziò a pulsare dal dolore non appena le sue dita la trovarono.

C’era sangue, così tanto sangue, proprio sul suo petto, sullo stomaco. Sentì i rivoletti caldi colare e finire sulle gambe, mentre queste spingevano disperatamente per allontanarsi, cercando di mettere più distanza possibile tra lei e l’autista.

Il sangue non si fermava, ne usciva così tanto. Rubie strinse il collo con entrambe le mani continuando a correre, sacrificando la mobilità e l’ulteriore equilibrio offerti dalle braccia nel tentativo di trattenere il sangue all’interno. C’era una linea che si allungava da un lato all’altro della gola, avvolgendola, dalla quale usciva e colava sempre più sangue col passare del tempo.

Priva di una vista chiara e dell’equilibrio, Rubie mise un piede su qualcosa che sembrava una pietra o un cespuglietto, inciampando. Cadde pesantemente, incapace di interrompere la caduta, con il vento che scivolava su di lei quando i suoi gomiti toccarono, per primi, il terreno. Nello stesso istante sentì un fiotto, come acqua che schizzava da un rubinetto sotto le sue dita.

Non poteva arrendersi. No. Doveva fuggire, andare avanti, il più lontano possibile da quell’uomo. Non osò guardarsi intorno per vedere se lui fosse ancora in piedi davanti alle luci dell’auto, o se si trovasse a pochi passi da lei, pronto ad afferrarla nuovamente. Non poteva perdere tempo. Rubie puntò i piedi e spinse nuovamente verso l’alto, soltanto per cadere flaccidamente, con le sue gambe che si rifiutarono di lavorare.

Sembrava tutto strano, allentato, come se improvvisamente fosse fatta di gelatina; sentì le braccia e le gambe flosce come pesci morti quando cercò di muoverle. L’unica cosa che era certa di riuscire a sentire era il calore del sangue che usciva dalla sua gola macchiando il terreno, sgorgando in quantità per lei incomprensibili.

Rubie alzò la testa per guardare in lontananza, le luci della città dove viveva sua sorella erano soltanto dei puntini all’orizzonte. Così lontane che sarebbero anche potute essere stelle. La ferita alla gola si aprì come una bocca, riversando un altro fiotto di sangue, e lei sentì il suo viso colpire il terreno, non più abbastanza forte da sorreggerlo.

Riuscì vagamente a rendersi conto di non provare più freddo, dopodiché non ci fu più nulla da sentire.

CAPITOLO NOVE

Zoe rimase sbigottita nel vedere che il motel era ancora più squallido all’interno di quanto lo sembrasse dal di fuori.

“Solo il meglio per l’FBI,”scherzò Shelley. “È per questo che ci chiamano agenti ‘speciali’, no?”

Zoe grugnì, voltandosi dopo aver esaminato il divanetto logoro che si trovava all’ingresso, appena in tempo per veder tornare il receptionist. “Ecco le vostre chiavi,”disse, lanciando sul bancone una tessera plastificata che scivolò verso di loro, fermandosi poco prima di cadere.

“Grazie,”rispose Shelley, prendendola e sollevando una mano in segno di riconoscenza.

Zoe non pensava che l’uomo lo meritasse, considerando il suo modo di trattare i clienti.

Lui non rispose nulla. Si lasciò cadere sulla sedia e prese il suo cellulare, che si trovava lì davanti, riprendendo l’attività in cui era impegnato quando erano entrate, qualunque essa fosse.

“Sa dove possiamo mangiare qualcosa di decente a quest’ora della notte?”domandò Shelley.

“C’è una tavola calda a circa otto chilometri più avanti,”rispose l’uomo, sollevando il mento nella direzione approssimativa, senza alzare lo sguardo.

Shelley lo ringraziò nuovamente, ottenendo una risposta simile a quella precedente. Lo lasciarono dov’era. Zoe la portò via prima che potesse tentare di instaurare un’altra conversazione con l’impiegato più burbero del mondo, e tornarono al parcheggio, al freddo della notte.

“Dovremmo andare a cenare?”chiese Shelley. “O prima dovremmo sistemare la stanza?”

“Lasciamo almeno i bagagli,”rispose Zoe, sospirando. Si massaggiò la nuca, sentendola indolenzita dopo la giornataccia e le ore di guida. “Poi penseremo a mangiare.”

“Con tanti saluti al fatto di risalire in aereo prima della fine della giornata,” rimarcò Shelley, soppesando la chiave e studiandola alla ricerca del numero della camera. Percorsero il parcheggio fino a raggiungere una porta simile a tutte le altre che componevano l’edificio basso e lungo, passando la chiave ed aprendola immediatamente.

“Pare che questo sia un caso più complicato del previsto,”convenne Zoe. Quelle semplici parole nascondevano la rabbia che covava verso se stessa. Avrebbe dovuto essere in grado di risolvere questo caso, leggere i numeri e sbatterlo dentro. Non lasciargli l’occasione di uccidere nuovamente. Se fosse morto qualcuno stanotte, sarebbe stata soltanto colpa sua.

La camera era piccola, due letti singoli posizionati a meno di trenta centimetri l’uno dall’altro, con antiquati copriletti a fiori. Un genere di articolo che probabilmente era stato acquistato durante gli anni ’80, o ancora prima, e lavato in continuazione fino a farlo diventare sottile e ruvido. Sperando almeno che sia stato lavato, pensò Zoe.

Scalciò una gamba del telaio del letto, esaminandolo attentamente per capire quanto si muovesse. Ne fu soddisfatta, ma non abbastanza. Zoe avrebbe potuto prendere a calci tutto il posto fino a quando la gamba non le avesse fatto male, e nonostante questo non si sarebbe sentita meno frustrata. Avrebbe dovuto essere a casa, ormai, non in un motel in attesa che un assassino rivendicasse un’altra vittima senza che lei potesse fare nulla per impedirlo.

Pensò ad Eulero e Pitagora, sperando che stessero bene. Aveva allestito una mangiatoia a rilascio programmato di cibo per nottate come questa, ma i gatti la sapevano lunga. In passato, erano stati in grado di romperla e di consumare le provviste di mezza settimana in una notte. Era rientrata a casa qualche ora più tardi, trovandoli distesi, pieni e felici, talmente sazi da riuscire soltanto a muovere la coda in risposta alla sua voce.

“Pronta?”chiese Shelley con un tono pacato. Forse capendo che Zoe non era dell’umore adatto per andare a cena. Anzi, che non lo era per fare nulla.

Zoe annuì e lasciò che la sua partner facesse strada. Raggiunsero la tavola calda senza molto entusiasmo, vedendo le luci come un’oasi nell’oscurità della campagna, già in gran parte spente in previsione della chiusura. Il parcheggio era poco affollato, e attraverso le grandi vetrate disposte su tutti i lati della struttura, notarono la presenza di pochi avventori seduti a mangiare o a bere caffè. Le si mozzò il fiato in gola e la sua mente fu automaticamente travolta da ricordi di cene della sua infanzia.

Zoe soffocò un lamento di protesta mentre entravano. Era una tipica tavola calda di provincia. Tavoli puliti, sedie e separè rivestiti di stoffa color verde, un tentativo di riprodurre lo stile kitsch degli anni ’50 che stonava con le varie apparecchiature moderne e con le foto delle squadre sportive locali affisse in bacheca. Le due cameriere avevano un’aria stanca; entrambe donne di mezza età, indossavano uniformi anonime che non erano né eleganti né tantomeno della taglia giusta. Il suo sguardo le disse che l’uniforme di una era esattamentedi una taglia più piccola, mentre quella dell’altra era una taglia più grande. Chiuse gli occhi, allontanando i numeri dalla sua mente. Voleva soltanto mangiare e infilarsi a letto.

Zoe si sedette ed esaminò il menu. A volte, la vista di un’elenco familiare di voci e il fatto di sapere cosa si volesse ordinare poteva avere un effetto rilassante, ma qui era tutto così irritante. Si trattava di un banale, generico menu di una tavola calda, la tipologia di classici pancake e hamburger che era possibile trovare in qualsiasi altro posto simile in tutto il paese. Avrebbe potuto tranquillamente esserci lo stesso, identico menu nella tavola calda della città natale di Zoe, dove lei si recava malvolentieri dopo la messa, insieme ai suoi genitori, per il pranzo settimanale in famiglia.

Non che fosse mai stata una vera festa, per lei.

Fissò il menu senza leggerlo, quasi come se avvertisse lo sguardo severo di sua madre sopra di sé, quel tipo di sguardo che avrebbe sempre trovato alzando gli occhi.Silenziosamente, come faceva sempre davanti a un menu, lasciò che i numeri le invadessero la mente, stimando il costo per peso di ogni portata, il numero di calorie previste, quale contenesse più grassi e quale più zuccheri. Una cosa inutile, dato che Zoe non aveva mai scelto nulla in base a questi dati. Aveva imparato già da tempo a prendere semplicemente qualcosa che le piacesse e a fare a meno dei numeri.

 

“Desiderate un po’ di caffè?”chiese la cameriera, fermandosi al loro tavolo con una caraffa in mano. Zoe porse la sua tazza senza dire nulla, mentre Shelley acconsentì, ringraziandola. La cameriera andò via nuovamente, promettendo di tornare presto con le loro ordinazioni. I suoi passi pesanti schiaffeggiavano il linoleum delle scarpe basse.

“Cosa prendi?”domandò Shelley. “Io non riesco mai a scegliere. Sono un disastro, non riesco mai a capire cosa voglio mangiare. Sembra tutto così buono.”

Zoe scrollò le spalle. “Un hamburger, probabilmente.”

“Con le patatine fritte?”

“Sono comprese.”

Shelley esaminò il menu ancora un paio di volte prima di annuire e chiuderlo. “Perfetto.”

Zoe sollevò lo sguardo per analizzare momentaneamente l’alcolista, il camionista e il padre di famiglia senza alcun desiderio di tornare a casa prima di aver capito quali clienti valesse la pena osservare.Si voltò a guardare la saliera, stimando la quantità precisa di sale al suo interno e comparandola con lo zucchero contenuto nel rispettivo recipiente, prima di disinteressarsi anche di quello.

I numeri non la stavano aiutando. Il caso era ancora irrisolto, il criminale non si era lasciato niente alle spalle che lei potesse usare, nonostante le sue capacità particolari. E adesso era bloccata in questo sputo di città almeno per un’altra giornata, a guardare cose che le ricordavano la sua infanzia e tutto ciò che, secondo sua madre, fosse sbagliato in lei. Intanto, da qualche parte, una donna probabilmente stava lottando per la propria vita, perdendola in un parcheggio vuoto o sul ciglio di una strada.

“Se non ti piace stare qui, domani potremmo andare da qualche altra parte,”disse Shelley, cercando di tranquillizzare Zoe. “In una città meno piccola di questa. E magari potremmo ordinare da asporto e restare in albergo.”

Zoe alzò lo sguardo. Ancora una volta, rimase stupita dalla perspicacia di Shelley.

“Questo posto va bene. Mi spiace essere così scortese. Speravo di risolvere rapidamente questo caso e tornare a casa. Non voglio che altre persone muoiano.”

“Si, anche io.” Shelley scrollò le spalle. “Ce la faremo. Non preoccuparti, comunque. Con me non occorre che ti comporti come se fossi una sorta di addetta al servizio clienti. Lo vedo che qui non ti senti a tuo agio.”

“Non voglio distrarci dal caso tirando in ballo i miei problemi personali,”rispose Zoe, storcendo la bocca. “Ma immagino non li stia nascondendo bene.”

Shelley rise. “Lavoriamo insieme da poco, Z, ma sto iniziando a capire come funzioni. C’è una differenza tra restare in silenzio perché sei, beh … tu, e farlo perché non ti senti a tuo agio.”

Zoe abbassò lo sguardo sul caffè, versando un cucchiaino esatto di zucchero senza fare calcoli e mescolando, facendo attenzione a non colpire il lato della tazza per non far tintinnare la posata. “Questo posto somiglia troppo a casa mia.”

“Non voglio costringerti a farlo. Voglio dire, non devi per forza parlarmene,”disse Shelley, bevendo un sorso del proprio caffè. “Ma puoi farlo, se lo desideri.”

Zoe scrollò le spalle. Quanto poteva rivelarle? Non aveva cambiato idea sul fatto di mantenere privati i dettagli, ad eccezione, forse, della terapista. Ma i suoi problemi personali stavano influenzando il loro lavoro e Shelley meritava di conoscerne il motivo. Almeno in parte. “Mia madre era manipolatrice,”disse semplicemente. Meglio tralasciare la parte in cui veniva accusata di essere la progenie del diavolo. “Mio padre faceva al massimo da spettatore. Mi sono emancipata legalmente da adolescente.”

Shelley fischiò leggermente. “Sarà stato pesante per te, per arrivare a tanto pur di allontanarti da loro”

Zoe scrollò nuovamente le spalle. Sorseggiò il suo caffè, provando un po’ di fastidio per il calore e appoggiando nuovamente la tazza sul tavolo, con attenzione. Non era mai stata brava a parlare di sé. Ci aveva provato poche volte da bambina, e sua madre aveva immediatamente messo in chiaro che le cose che percepiva e vedeva non erano affatto normali.

“Spero di non diventare mai così,”sospirò Shelley. “Neanche minimamente. Voglio essere una buona madre. Cioè, mi sembra ovvio di non essere spesso a casa, non quanto dovrei esserlo. Ma voglio comunque impegnarmi al massimo.”

Zoe guardò in faccia Shelley, pensierosa e distratta. “Hai figli?”

“Una.” Shelley sorrise, il suo viso si illuminò di gioia. “Mia figlia.”

“Come si chiama?”

“Amelia. È stato difficile. Intendo l’addestramento, e poi il lavoro. Ho preso la decisione di cambiare mestiere dopo il congedo di maternità. Nonostante pensassi di aver trovato la mia strada, è stato pesante separarmi da lei.”

“È il tuo compagno a badare a lei?”chiese Zoe.

“Mia madre. Almeno durante il giorno. Mio marito lavora in ufficio, dalle nove alle cinque. È sempre con lei nei weekend.” Shelley sospirò di nuovo. “Abbiamo entrambi bisogno di lavorare.”

Zoe la guardò a lungo, dopodiché abbassò nuovamente lo sguardo sulla tazza. “Non penso che potresti mai essere una cattiva madre,”disse infine. “Non sarai mai come la mia.”

“Grazie.” Shelley sorrise. Il sollievo nella sua espressione era evidente. “Avevo bisogno di sentirlo.”

Zoe pensò alla figlia di Shelley e al fatto che tutte le vittime avessero una madre un tempo, e represse l’istinto di uscire quella stessa notte per continuare la ricerca del loro assassino. Ma non sarebbe stata utile a nessuno se non avesse riposato abbastanza da riuscire a pensare in modo lucido, o se non avesse mangiato abbastanza da fare in modo che il proprio corpo funzionasse alla perfezione. Adesso era importante occuparsi di tutto questo, sebbene non avessero alcuna pista concreta in mano.

In qualche modo, sapere che Shelley fosse una madre e che ci tenesse così tanto alla sua piccola famiglia, fece alzare di molto la stima di Zoe nei suoi confronti. La pena che provava per le vittime e per le loro famiglie non era una recita, Shelley era davvero compassionevole: una caratteristica che Zoe avrebbe desiderato avere in misura maggiore. Forse Shelley era esattamente il tipo di collega di cui aveva bisogno.

Soprattutto se, la mattina seguente, avesse dovuto affrontare la famiglia di un’altra vittima e spiegare perché non fosse stata in grado di catturare l’assassino.

CAPITOLO DIECI

Rubie riprese i sensi, il mondo tornò ad essere nitido. Terreno sotto il suo viso. Erba, steli corti e affilati, fastidiosi sotto le guance. Mosse gli occhi, vedendo le luci della città in lontananza e poi gli alberi attorno a sé, che si stagliavano imponenti e oscuri e le bloccavano la visuale sia a sinistra che a destra.

Doveva essere inciampata nel bosco. Ricordava a malapena. Riusciva a concentrarsi soltanto sul sangue, che colava caldo e umido, formando delle pozze sotto il proprio corpo.

Per quanto tempo era rimasta priva di sensi? Era ancora buio, ancora freddo, e lei era ancora viva. Premette la mano sul collo con un piccolissimo movimento e lo sentì ancora bagnato. Non era passato molto tempo, allora. Se avesse sanguinato a lungo, a quest’ora sarebbe morta.

Alle orecchie di Rubie arrivò un rumore vicino; rallentò istintivamente il respiro, compiendo uno sforzo volontario per non farlo in modo rumoroso. Un respiro più lento avrebbe comportato una minor fuoriuscita di sangue dalla ferita alla gola. Era così profonda, l’aria le fluiva attraverso. Premette più forte la mano su quella linea bruciante di dolore, cercando di trattenere tutto il sangue al suo interno.

Rumore di passi. Erano i passi di quell’uomo. Lenti, prudenti, uno dopo l’altro. Stava brancolando nel bosco, si stava muovendo con attenzione. Stava cercando. Cercava lei.

Si sentì stordita, travolta da un improvviso impeto di terrore, e lottò per tenere sotto controllo il respiro, per fare meno rumore possibile. L’uomo si stava avvicinando, si muoveva proprio nella sua direzione. Oh, Dio, se l’avesse trovata nuovamente. Sarebbe stata la fine.

Rubie strinse saldamente la mano sulla propria gola, sentendosi mancare ogni volta che la presa scivolava e la ferita si apriva di nuovo, lasciando fuoriuscire altro sangue. Ogni parte del suo corpo desiderava arrendersi all’incombente oscurità, ritornare in quella dolce inconsapevolezza e incoscienza. Ma lei lo sapeva. Rubie sapeva che se avesse perso nuovamente i sensi, non si sarebbe mai più risvegliata.

I passi erano così vicini che smise del tutto di respirare. Rimase immobile il più possibile, fino a quando l’unico movimento in tutto il suo corpo restò quello del sangue, spinto dal battito cardiaco a schizzare fuori dalla sua gola squarciata. Attese. Per quanto tempo avrebbe potuto trattenere il respiro prima di dover fare altro rumore? E se lui l’avesse vista? Quanto ci avrebbe messo ad ucciderla?

I passi continuarono ad avanzare, e quando Rubie capì che l’avevano superata, dirigendosi altrove, nel folto del bosco, si lasciò andare a un respiro profondo. Il suo corpo tornò in vita, lo capì dai diversi dolori che la travolsero, ricordandole il freddo della terra e dell’aria contrapposto al calore che la stava abbandonando, battito dopo battito.

Se fosse riuscita a fermare l’emorragia, avrebbe avuto una possibilità. Avrebbe potuto trascinarsi lontano da qui, anche strisciando se necessario. Mancava ancora molto all’alba, un sacco di tempo prima che lui potesse approfittare del vantaggio offerto dal sole per individuarla. Fino ad allora avrebbe potuto arrivare in città, raggiungere l’ospedale, mettersi in salvo. Si, poteva farcela. Era forte abbastanza.

Se solo riuscisse a fermare l’emorragia.

Rubie cercò di pensare, costringendo il cervello annebbiato e congelato a fare il suo lavoro. Una benda, ecco di cosa aveva bisogno. Le sue mani erano viscide a causa del sangue e deboli per averne perso così tanto. Non riuscivano a tenere chiusa la ferita, non abbastanza. Una benda avrebbe contribuito a farlo.

Ma dove trovarne una?

Non serviva per forza una benda medica, andava bene qualsiasi cosa. Una striscia di tessuto. Del nastro adesivo. L’aveva visto fare in un film. Anche dei punti metallici. No, niente punti né nastro. Bisognava pensare. Pensa, Rubie. Pensa a qualcosa che hai a disposizione.

Vestiti! I suoi vestiti! Erano fatti di … di stoffa. Cosa indossava adesso? Pantaloncini di jeans, ecco perché sentiva così freddo alle gambe. Una maglietta, aderente e corta. L’unica cosa che separava l’addome dal freddo terreno. Una felpa con la zip, aperta, con il cappuccio avvolto attorno alla sua per tenerla al caldo.

Il suo borsone! Aveva una sciarpa nel borsone. Ma era … no! Era in auto…

Okay, doveva riflettere. I vestiti indossati, aveva soltanto quelli. La maglietta, il tessuto era sottile. Probabilmente più facile da strappare. Avrebbe potuto strapparlo, rimuoverne un’intera striscia dalla parte inferiore. Era questo che facevano nei film, giusto? Avrebbe dovuto semplicemente strapparlo con le proprie mani.

Rubie raccolse le sue ultime forze, togliendo una mano dalla gola, e premette contro il suolo freddo. Le dita affondarono nel terreno umido, che scivolò tra di esse, e finalmente la ragazza iniziò a muoversi. Lentamente, poi in un impeto improvviso non appena la gravità accorse in suo aiuto, si lasciò cadere sulla schiena. L’impatto la fece oscillare avanti e indietro, togliendole l’aria.

Bene. Un passo avanti. Ora il sangue fluiva all’indietro, colando lungo la nuca e bagnandole i capelli, e sentì di poter finalmente armeggiare con il tessuto della sua maglietta.

Tirò, cercando di strapparlo, ma non aveva più forza. I suoi movimenti erano inefficaci, le sue mani perdevano colpi e la stoffa scivolava tra le sue dita congelate.

Pensa, Rubie, pensa.

Le cuciture! Erano i punti deboli.

Cercò le cuciture laterali, trovandole e afferrando entrambi i lati con le proprie mani. Strinse e tirò, facendo un respiro profondo e usando tutte le forze residue. La cucitura cedette, le maglie saltarono e si districarono con un suono simile al Velcro.

Rubie voleva piangere. Ce l’aveva fatta. Ma era soltanto il primo passo.

Passi.

Li aveva sentiti: i passi di lui.

Erano più chiari.

Stava tornando indietro.

 

***

Le diede la caccia senza sosta, con un’energia che nasceva dalle fiamme gemelle di paura e rabbia. Questo non faceva parte del piano. Lei stava rovinando il piano.

Quella stupida ragazza avrebbe dovuto morire quando lui l’aveva afferrata, nel luogo prestabilito. Come ha osato fuggire? E nel bosco, per di più!

Era buio, ma lui non voleva rischiare di accendere la torcia del cellulare. Se lo avesse fatto, avrebbe potuto essere avvistato dalla strada. Qualcuno avrebbe potuto identificare la sua auto e la polizia gli sarebbe piombata addosso, con tanto di mandati, posti di blocco e ricerche di precedenti. Aveva spento i fari e il motore, abbandonando l’autoal buio, lì dove sperava che nessuno sarebbe passato.

Ma un rischio maggiore rispetto a quello che un autista o un passeggero potessero dare un’occhiata e accorgersi della sua auto, era rappresentato dalla ragazza. Se fosse scappata, avrebbe rovinato lo schema, e non solo.Lei lo aveva visto in faccia, sarebbe stata in grado di descrivere la sua auto. Magari aveva persino visto la targa prima di accettare il passaggio.

Se fosse uscita dal bosco e si fosse rivolta alle autorità, lo avrebbero trovato in un niente.

Avanzò tra gli alberi con crescente disperazione, un ruggito gli salì in gola mentre si allontanava sempre di più dalla strada. Non riusciva a vedere nulla. Le macchie di sangue sul terreno in prossimità dell’auto lo avevano incoraggiato, ma qui la luce della luna non filtrava tra i rami e lui non riusciva più a seguire le tracce.

Sapeva di averla ferita, ma quanto? Se fosse stata soltanto una ferita superficiale, la ragazza avrebbe potuto percorrere tutta la strada fino ad arrivare in città,forse anche prima che lui riuscisse a trovarla. Se mai ci fosse riuscito. Magari a quest’ora lei si trovava già a metà strada.

Si fermò, rimanendo immobile e ascoltando gli alberi che ondeggiavano e frusciavano al vento leggero. Era inutile. Ci sarebbe voluto un miracolo per riuscire a trovarla in tempo. Era quasi finita.

Laggiù … cos’era stato quel rumore? Si voltò, il suo battito cardiaco accelerò, rimbombando così fortemente nelle sue orecchie che ebbe paura potesse attutire qualsiasi altro indizio.

Si mosse nella direzione da cui era arrivato il rumore, sempre più rapidamente, sostituendo la cautela con la fretta. Cos’era stato? Il rumore di uno strappo, pensò, come di un tessuto che si rompeva. Non si trattava del verso di un animale. Non era un uccello, né uno scoiattolo o altro: era la ragazza.

Avanzò al buio, alla cieca, vedendo soltanto gli oggetti più vicini e allungando le mani in avanti per evitare di sbattere contro un albero mentre si concentrava sul terreno ai suoi piedi. Quella era una macchia di sangue?

Diede un’occhiata alla strada alle sue spalle ed esitò, valutando il rischio. Accese lo schermo del suo cellulare, usando soltanto quella debole luce, e si abbassò. Si, era sangue! Orientò lo schermo illuminato in avanti, ancora di più, sempre di più, fino a quando …

Il fascio di luce investì la ragazza, brillando sui suoi occhi,sulle pozze di sangue che la circondavano e sul rivoletto che ancora le colava dalla gola.

Lui sorrise e si mosse verso di lei, accovacciandosi accanto, facendo attenzione a non calpestare il sangue.

Respirava ancora, ma il suo respiro era debole, i suoi occhi stavano già diventando vitrei. Le sue mani, che giacevano vicine all’orlo della t-shirt strappata, erano insanguinate e tremanti, in preda a piccoli spasmi. Rubie lo stava fissando, ma lui non capì se fosse o meno cosciente.

C’era sangue tutto intorno a lei. Sopra di lei. Era intrisa del suo stesso sangue. Era riuscito a ferirla profondamente prima che lei lo colpisse e scappasse. Continuava ancora a uscirne dal taglio profondo che le aveva aperto in gola.

Le mani della donna si placarono. Lui si sporse in avanti verso di lei, avvicinandosi sempre di più, fino a quando il suo viso fu a pochi centimetri da quello di Rubie. Si concentrò, rimanendo immobile e facendo meno rumore possibile.

Aveva smesso di respirare.

Era morta dissanguata, finalmente.

Per un secondo desiderò lanciare un urlo di vittoria, e il secondo dopo si sentì scoppiare dalla rabbia. Era sbagliato, tutto sbagliato. Era morta nel posto sbagliato! La puttana aveva rovinato tutto, tutto! Lo schema era infranto, sbagliato, distrutto!

Si alzò e prese a calci il cadavere di Rubie, colpendola sul fianco con un tonfo soddisfacente, un rumore che gli ricordò quello della carne quando veniva colpita con un batticarne.

Ma non abbastanza soddisfacente, considerando che lei aveva infranto il suo schema e rovinato tutto ciò per cui lui aveva lavorato.

Fece un passo indietro, respirando a fatica, e guardò la scena, usando la luce del cellulare per esaminare la donna. Doveva sbarazzarsi del sangue. Ora come ora c’erano troppe prove, troppi indizi che suggerissero agli investigatori in che direzione muoversi.

Ma cos’era quello…? Ora che guardava più attentamente… si, doveva essersi ribaltata, allontanandosi dalla posizione in cui era caduta inizialmente. E lì, sbocciando come un fiore in modo quasi perfettamente simmetrico, il sangue era sgorgato dalla sua gola. Era… stupendo. No, guardando ancora più attentamente, era simmetrico, un fiore perfetto, come una macchia di Rorschach.

Uno schema.

Il suo respiro iniziò a rallentare, regolarizzandosi nuovamente, come anche il battito accelerato del suo cuore. Anche adesso c’era uno schema, che gli stava dicendo che andava tutto bene.

La ragazza non aveva rovinato nulla. No, si trattava soltanto di una leggera deviazione dal piano. Aveva comunque commesso l’omicidio esattamente nel punto in cui l’aveva pianificato. Lei era scappata, ma era già morta nel momento in cui le aveva avvolto il cappio in gola, esattamente come il corpo di una gallina che continua a muoversi dopo essere stato decapitato.

Lo schema era ancora intatto.

Proprio come il vecchio, l’unico che non avevano ancora ritrovato, in quella fattoria dove nessuno lo vedeva da giorni. Anche lui aveva provato a scappare. Alla fine, non aveva fatto alcuna differenza. Lo schema era iniziato lì, e qui è stato in grado di continuare. Come la Divina Provvidenza, lo manteneva sulla retta via, permettendogli di realizzare completamente la sua opera.

Il momento di felicità durò poco. Ora che si era assicurato che sarebbe andato tutto bene, c’erano alcune cose importanti da fare. Lo schema doveva andare avanti, e per questo non poteva permettersi di lasciare dietro di sé alcuna prova che gli investigatori potessero usare per fermarlo prima che portasse a termine l’omicidio del giorno seguente, o di quello dopo, o di quello dopo ancora.

Come prima cosa, avrebbe dovuto occuparsi delle tracce di sangue. Se lo avesse fatto, avrebbe potuto andar via prima del sorgere del sole e nessuno si sarebbe mai accorto di nulla.

Si rialzò, sgranchendosi le spalle, ruotandole verso la schiena. Ancora una volta, c’era del lavoro fisico da compiere, cosa che a lui non dispiaceva affatto. Purificava la scena, lasciando intatto esclusivamente lo schema. Rimuovere le proprie tracce aveva lo stesso significato del gesto, da parte di un artista, di farsi da parte e lasciar parlare il proprio dipinto.Era un atto di rimozione dell’ego, una reiterazione della sua devozione allo schema, la convinzione che quest’ultimo fosse più grande di sé.

Trovò un ramo secco che si era spezzato da poco, foglie e rametti ancora attaccati. Perfetto per rimuovere le tracce da una scena del crimine. Lo raccolse e iniziò a cancellare una parte delle proprie impronte attorno al cadavere, attento a camminare a ritroso, seguendo il tragitto della ragazza.

Si irrigidì quando il delicato fruscio del ramo fu interrotto da un altro rumore. Si immobilizzò per ascoltare nuovamente, premendo un tasto per attenuare la luce del suo cellulare. Cos’era? Un cinguettio?

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