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Читать книгу: «Terra vergine: romanzo colombiano», страница 6

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– Ecco un popolo molto cortese, a cui bisogna render giustizia; – osservò Damiano. – Non è quello di Quinsay, ma ci si accosta. —

E si accostavano nel fatto gli abitanti del villaggio; poco vestiti gli uni, che parevano i più vecchi, e portavano un pezzo di stoffa di cotone legata intorno alle reni; ignudi gli altri del tutto.

Come furono vicini agli stranieri, i naturali di Bohio, si fermarono; ed uno di loro, che doveva essere un pezzo grosso nella tribù, forse il re in persona, accompagnato da due giovani selvaggi, che in segno di grande rispetto mostravano di sostenerlo sotto le ascelle, rivolse il discorso ai nuovi venuti.

Don Luigi de Torres si lasciò sfuggire quel giorno una stupenda occasione, che è sempre stata da fini diplomatici: quella di tacere in più lingue. Volle in quella vece parlare in tutte quelle che sapeva, e sventuratamente senza riescire a farsi intendere, nè dal suo interlocutore, che lo guardava trasognato, nè dagli interpetri della spedizione, che si guardavano tra loro, e avevano l'aria di dirsi a vicenda: «come parla bene! non si capisce una saetta.»

– Sentite, collega; – disse finalmente Rodrigo di Xeres; – sarà meglio che lasciamo parlare questi selvaggi.

– Sì, sarà meglio; – ripetè Luigi de Torres. – Per altro, non è stato male, fare una prova con tutte le lingue d'Oriente. Siamo sicuri, per conseguenza, di non essere sul territorio del gran Cane.

– Non dico che abbiate fatto male; – replicò Rodrigo di Xeres. – Vi approvo, anzi, e vi lodo del vostro accorgimento. Sappiamo oramai che cosa pensare di questa gente. A te, Caonec, – diss'egli, rivolgendosi al naturale di Guanahani, – parla!

– Quien?– domandò Caonec.

– Quel che ti pare, purchè tu parli.

– Castilla muy grande? Castillano muy fuerte?

– Sì, tutto quello che vorrai, ti ho detto, – replicò don Rodrigo spazientito. – Non vedi che i tuoi connaturali stanno aspettando a bocca aperta le tue parole, come gli antenati del mio collega aspettavano la manna nel deserto? —

Caonec non intese tutte quelle finezze di ragionamento; ma aveva capito di dover parlare, magnificando la potenza e la bontà degli stranieri. Non gli era difficile di dirne assai bene; anch'egli, come tutti i suoi connaturali, credeva che fossero figli del cielo.

E parlò lungamente, con grande scioltezza di scilinguagnolo, in quel suo strano idioma, così ricco di dittonghi e di suoni gutturali; parlò lungamente, facendo inarcare le ciglia del re di Bohio, che di tanto in tanto si volgeva a guardare gli stranieri, chinando la fronte e levando le palme, in atto di adorazione.

Come l'interpetre ebbe finito il suo discorso, il re di Bohio rispose brevemente, s'inchinò da capo, poi disse qualche parola ai suoi sudditi; otto dei quali si avanzarono tosto, s'inginocchiarono a coppie, ogni coppia davanti ad uno degli stranieri, offrendogli per sedile un intreccio di mani e di braccia.

– Seggiolina d'oro! – esclamò Damiano ridendo. – Seggiolina d'oro! Come da noi! Ma sai, Cosma, che son molto civili, questi signori selvaggi? —

Levati di peso i figli del cielo, le coppie umane presero tosto il portante. Anche il re, o capo degli anziani che fosse, non credeva disdicevole alla sua dignità di correre come gli altri. Correva anzi un pochino di più, perchè andava sempre a capo della sua gente, facendo di tanto in tanto qualche allegro scambietto. In verità, il re David, buon'anima sua, poteva andarsi a riporre.

– Guarda, guarda! – continuava Damiano, sentendosi dondolare così piacevolmente a mezz'aria. – È cento volte meglio che in lettiga. E si gode la vista del paese, e non si guasta la digestione. Io ti giuro, Cosma, che sono contento come una pasqua. Incomincio a credere che questi naturali di Bohio siano uomini civili, i quali si sono fatti selvaggi unicamente per non pagare il conto al sartore. A momenti vedremo la loro capitale. Spero bene che ci saranno donne. Altrimenti, come farebbero questi selvaggi a propagare la loro amabilissima specie?

– Metti, – rispose Cosma, – che ci abbiano le Amazzoni in un'isola vicina. Noi siamo cascati in un'isola tutta abitata da uomini.

– Dio sperda il tuo augurio, o Cosma! Vuoi tu guastarmi la gioia di questo ingresso trionfale in città?

– Eccola davanti ai tuoi occhi, la città di Bohio; – ripigliò Cosma, sorridendo. – Guarda il popolo che si affolla sugli usci delle capanne. Vedi tu una donna?

– No, per Giano bifronte, tuo santo patrono! – esclamò Damiano. – Non la vedo. E incomincio a credere che i tuoi scongiuri, o nemico delle donne, abbiano operato il prodigio. Ma bada, Cosma! io non ti perdonerò mai questa azionaccia. Che tu non le ami, sta bene; ma io… io, passando l'acqua, ho cambiato di complessione. —

Erano giunti finalmente, come si è potuto anche capire dalla conversazione dei due amici; erano giunti, in mezzo alle grida, alle canzoni, ai salti, alle capriole, di tutto un popolo in festa. Tra uomini e ragazzi, quei naturali potevano essere un migliaio. Le case, in verità, non erano più di una cinquantina; ma tutte per capanne, assai vaste, ed ognuna bastava, come i nostri ambasciatori seppero di poi, per una numerosa famiglia, e magari per due.

Scortati dal re, accompagnati da quelle grida e da quei salti, gli ambasciatori furono calati di seggiolina, davanti ad una casa più vasta delle altre. Colà, il capo della comitiva li invitò molto gentilmente ad entrare in una sala nobilmente arredata di scudi, d'archi e d'altre armi selvagge. Sicuramente era la sala del consiglio, perchè tutto intorno si vedevano dei sedili di legno, tutti d'un pezzo, evidentemente tagliati in un tronco d'albero, e in quel punto del tronco dove questo incomincia a spartirsi in rami. Quei sedili erano di forma stranissima, che indicava un principio d'arte imitativa, raffigurando essi un animale di corte gambe, con la coda rialzata in guisa da formare una spalliera. La testa non lasciava indovinare a qual genere appartenesse la bestia. Forse l'artista aveva voluto creare un animale fantastico; ma certamente era riuscito a farlo prezioso, poichè gli aveva incastonati due pezzi d'oro nelle occhiaie, e d'oro gli aveva fatte le orecchie.

– Noi siamo, – conchiuse Damiano, dopo avere osservate quelle orecchie d'oro, – noi siamo alla corte di Mida. —

Un gesto del re invitò gli ambasciatori a sedere su quegli scanni. Luigi di Torres e Rodrigo di Xeres presero posto nel mezzo, Cosma e Damiano sui lati. Il re stette in piedi, gli altri naturali si accoccolarono sul pavimento. E così fecero fuori dell'uscio tutti coloro che non avevano potuto penetrare nella sala.

– Ed ora, che pesci si pigliano? – disse Damiano tra sè. – Sta a vedere che ci contemplano come rarità, e non si ricordano che abbiamo uno stomaco. —

Damiano, nella sua impazienza, era sempre ingiusto. A buon conto, i naturali di Bohio non li contemplavano soltanto come rarità; li veneravano come figli del cielo. E per tali dimostrarono di averli, poichè il re si avanzò, si gittò bocconi a terra, e baciò a tutti quattro i piedi e le mani. L'atto del re fu imitato con molta compunzione e regolarità da tutti gli astanti: i quali uscirono ad uno ad uno per lasciare il posto a quelli di fuori.

– Non c'è male, non c'è male; – borbottava Damiano; – ma qualche cosa per lo stomaco sarebbe a quest'ora anche meglio. —

Era scritto lassù che tutti i desiderii di Damiano fossero prontamente appagati. Finito il bacio dei piedi, entrarono parecchi naturali, portando su certi piatti larghi, in cui era facile riconoscere dei fondi di zucche, radici arrostite, grani dorati arrostiti del pari, focacce di cassava, frutta di specie diverse, orciuoli di terra con acqua dentro, e piccole zucche dal collo allungato, in cui erano bevande fermentate.

I figli del cielo assaggiarono un po' di tutto, e a certi piatti ritornarono, senza far cerimonie. Il viaggio aveva aguzzato l'appetito, e quelle radici arrostite in ispecie erano molto gustose. Damiano, per altro, rendendo giustizia ad ogni cosa, diede la palma al dolce liquore spiritoso che era contenuto nelle piccole zucche, e che gli era versato in certi mezzi gusci di durissimo legno, che egli vedeva per la prima volta, e non sapeva per ciò a qual frutto appartenessero. Lo seppe più tardi, quando ebbe veduti i gusci intieri, e ne assaggiò la polpa bianca di latte, che aveva sapore di mandorle.

– Cocco; – gli disse Caonec, vedendolo contemplare con grande attenzione il frutto maraviglioso.

– Cocco? sta bene; – rispose Damiano. – È delizioso. Ma bisogna maritarci ancora un sorso di quella bevanda, anche più deliziosa del cocco. —

Il pasto non era finito ancora, quando, ad un cenno del re, i naturali si allontanarono tutti dalla sala del convito. Una strana musica, come di nacchere e di tamburi, si sentiva di fuori.

– Che è ciò? dell'altre novità? – disse Damiano. – Io incomincerei a sentire il desiderio di sdraiarmi sull'erba, all'ombra amica di un palmizio. E poichè siamo destinati a non vedere il gentil sesso di Bohio… —

Ma ve l'ho detto poc'anzi; ogni voto di Damiano doveva essere esaudito, come nelle favole orientali, per opera di un genio benefico.

I naturali del sesso forte erano tutti partiti. E al suono di quella musica strana, apparve sull'uscio uno stuolo di donne.

Era una cortese attenzione del re, ed anche una bella improvvisata. I figli del cielo poterono ammirare a lor posta le grazie delle figlie degli uomini, coperte a mezzo da grembialini di cotone, e da mantelli girati graziosamente a tracolla. Ma dei figli del cielo, due erano Castigliani di nascita; gli altri due lo erano di elezione. E tutti quattro si levarono prontamente in piedi, offrendo i loro sedili alle dame.

Non accettarono esse l'offerta. Volevano buttarsi a' piedi dei figli del cielo, per imitare l'atto di adorazione dei loro uomini. E qui, naturalmente, fu una gara scambievole: delle donne, per baciare i piedi degli ospiti; degli ospiti, per ricusare quell'atto di umiliazione.

– Caonec! – disse Damiano al naturale di Guanahani. – Dirai a queste Veneri di Bohio che da noi non è costume che le dame bacino i piedi agli uomini; ma piuttosto, quando le dame li han belli, si usa di baciarli noi alle dame. —

Se Caonec intendesse a puntino il discorso, non saprei dirvi io. Certo è che l'interpetre parlò lungamente alle Veneri di Bohio; dopo di che esse si contentarono di baciare le mani ai figli del Cielo.

E dopo averle baciate, vollero anche lavarle. Andarono infatti a prendere gli orciuoli dell'acqua, e ne versarono sulle mani degli ospiti. Dopo averle bagnate, era mestieri asciugarle, e le strofinarono diligentemente con batuffoli d'erbe aromatiche.

– Ma questa è civiltà sopraffina; – disse Rodrigo di Xeres. – Che ve ne sembra, signori?

– Si capisce, per altro; – rispose Luigi di Torres, con la sua asseveranza dottorale. – Il lavar le mani è qui una conseguenza naturalissima del mangiar con le dita.

– Popolo senza forchetta, volete dire? – ripigliò Rodrigo di Xeres. – E l'uso dell'erba per rasciugar le mani si spiegherebbe ugualmente, in un popolo senza salvietta. Ma osservate, don Luigi, che sono erbe aromatiche.

– Dare essenze odorose alle mani degli ospiti è costume dell'estremo Oriente; – replicò Luigi di Torres, imperturbato. – Nell'India pastinaca, se crediamo a Beniamino di Tudela…

– Ah sì! nell'India pastinaca; – interruppe Rodrigo di Xeres, che non voleva conoscere le opinioni di Beniamino di Tudela. – Ma qui dobbiamo esserne molto lontani, perchè il vostro siriaco non lo capisce nessuno, don Luigi mio caro. —

Don Luigi si degnò di sorridere, e si strinse nelle spalle, quasi in atto di rispondere: – «Se questi ignoranti non mi capiscono, che cosa ci posso far io?»

Damiano, frattanto, in mezzo a quello stuolo di donne, aveva adocchiata la sua. Dico la sua, perchè ogni uomo crede di doverla trovare, nel numero. E qualche volta, per tema d'ingannarsi, ne prende più d'una. Affrettiamoci a dire, per onor di Damiano, ch'egli ne prese una sola; anzi meglio, non la prese per mano, la scelse a occhio, rivolgendo a lei tutta la sua attenzione.

– Son collocato; – diss'egli a Cosma. – Quella brunettina là si è impadronita del mio cuore. Non mi dir nulla. So già quel che vorresti dirmi. Tutti discorsi al popolo! Quella donna è il mio sogno; lasciami sognare. —

Capitolo VI.
Il primo sigaro fumato nel nuovo mondo da un abitante del vecchio

Rendiamo quest'altra giustizia a Damiano. Se le giovani donne di Bohio erano Veneri, quella che egli aveva scelta in un impeto subitaneo d'affetto, era l'Anadiomene. E non vi paia che si sprechi il nome di Venere, con donne che avevano la pelle color di rame. Ogni professore di fisica vi dirà che i colori per sè stessi non esistono. Ogni fisiologo vi soggiungerà che i gusti sono diversi, e i capricci egualmente. Io vi ricorderò che se noi associamo il color bianco alla immagine di Venere, la colpa è tutta del marmo Pario e del Pentelico, in cui l'abbiamo sempre vista scolpita. Nel fatto, per piacere a Marte, a Vulcano, ad Anchise e ad altri personaggi dell'antichità, Venere sarà stata di buon colore come ogni altra femmina o dea, e magari più d'ogni altra. Il colore del rame è un incarnato un po' carico; questione di più o di meno.

Aggiungete che la bella selvaggia non era neanche tanto bruna, o era bruna con riflessi luminosi, come di rosa pavonazza. Era poi fatta a pennello; aveva le labbra tinte nel succo della melagrana; aveva gli occhi umidi e languidi sotto l'arco delle ciglia lunghe, e quegli occhi nereggiavano come due more salvatiche entro due coppe d'indaco stemperato. Che occhi, Dio creatore! E dicevano un visibilio di cose; tutte quelle, almeno, che ameremmo farci dir noi, vedendo due occhi di quella fatta.

Damiano aveva trovato modo di farsi lavare e strofinar le mani da lei. E poi, afferrato a sua volta il batuffolo delle erbe aromatiche, aveva voluto strofinar la sua parte anche lui. Con la eloquenza del gesto, le aveva dimostrato che il bisogno c'era. In fatti, la bella Anadiomene, versando dall'orciuolo si era rovesciata l'acqua sulle mani, e le aveva inumidite anche lei. Bisognava dunque rasciugarle. Ed egli si mise a strofinare con molta coscienza, ma perdendo altrettanta erba per via. Non ne aveva più un filo tra le dita, che strofinava ancora.

La bella Anadiomene lasciava fare, guardandolo coi suoi grandi occhi d'indaco stemperato. Ma infine, vedendo che il suo servente non accennava a finire, si mise a ridere, mettendo in mostra due file di denti che erano tante perline.

– Come vi chiamate, signora? – le disse con languido accento Damiano.

Ella non rispose, e lo guardò con aria trasognata.

– Che bestia! – proseguì egli allora, ma rivolgendo la parola a sè stesso. – Ella non capisce lo spagnuolo. Se le parlassi genovese! Ma no, questo bisogna serbarlo per i casi estremi. —

Fatto questo ragionamento, chiamò a sè l'interpetre di Guanahani.

– Caonec! domanda a questa bella bambina come si chiama, e trova anche il modo di farle sapere che il mio nome è Damiano. —

L'interpetre parlò; e Damiano, sentendo profferire nel discorso il suo nome, capì che la commissione era fatta.

– Si chiama Samana; – disse l'interpetre, come ebbe finito il suo breve dialogo con la bella selvaggia.

– Samana! oh dolce nome, Samana! Già, capisco, è sempre dolce, il nome che piace… fosse pur Cunegonda. E che cosa vuol dire Samana?

– Sama… – disse Caonec.

E dopo aver proferita quella prima parte del nome, accostò l'indice alla bocca aperta, e subito lo allontanò, in atto di cavarne fuori qualche cosa.

– Soffio? – disse Damiano, facendo l'atto di respirare.

Caonec rispose con un atto di diniego.

– Voce? – riprese Damiano.

E per dare un esempio di ciò che diceva, mandò fuori le cinque vocali, coi loro dittonghi rispettivi. Caonec sorrise, e fece un atto affermativo.

– Ah, sia lodato il cielo. E poi?

– Ana… – riprese Caonec.

– Sicuro, Ana; sentiamo che cosa vuol dire Ana; – rispose Damiano.

Caonec prese una piastrella d'oro che Damiano portava al collo, e accennandola rispose:

– Ana… Oro!

– Ah, bene, – gridò Damiano. – Samana, contrazione di Samaana; voce d'oro! È un bel nome. Su per giù, è come il nostro Boccadoro, che noi, per altro, non abbiamo mai usato per le donne. E questo non ci fa onore, sia detto di passata. Tu sei bella, o Voce d'oro, o Grisostoma. A proposito… Caonec! Dille a mio nome che è bella. Come si dice bella, in questi paesi?

– Taorib; – rispose l'interpetre.

– Diciamo dunque Samana Taorib; – gridò Damiano, volgendosi alla giovane selvaggia, che rideva a più non posso; – Samana Taorib, ah! se tu volessi trovare taorib anche me, come sarebbe taorib! Vedete, amici? Io sono l'uomo più felice di tutte le isole del mar Oceano. Mi fermo qui, col permesso del signor almirante; non mi muovo più dal fianco di Samana Taorib, e la domando in isposa.

– Con che rito? – disse Rodrigo di Xeres.

– Con quello dei suoi paesi; e non ci vedo modo di fare altrimenti; – rispose Damiano. – Se per altro vuol esser sposata là col nostro rito, venga con noi, la sposerò davanti al Prete Janni. —

Cosma si era avvicinato all'amico, e gli bisbigliava all'orecchio:

– Non dir sciocchezze, ti prego. E non ne fare, mi raccomando.

– Sciocchezze! – esclamò Damiano, ribellandosi alle voci dell'amicizia. – E perchè, di grazia? Sciocchezza per te, se mai, non per me. Tu odii le donne. Io sono più giusto. Perchè una… Ma già, non mi fare gli occhiacci! Volevo dire che se fossi nel vecchio mondo, potrei forse pensare come te. Ma qui siamo nel nuovo, mi capisci? nel nuovo. Avessi anche giurato di non amar più, siamo agli antipodi; agli antipodi il giuramento non regge, casca nel vuoto. Non è vero, Samana Taorib, che voi siete la più bella creatura dell'universo mondo? —

Samana rideva, rideva sempre, come ridono, sotto ogni latitudine, le donne che sanno di non perder grazia a quel giuoco.

Quel fiume di parole aveva tirata su Damiano l'attenzione di tutta la brigata. Le donne di Bohio, sentendo quel visibilio di taorib, prodigati a Samana, avevano fatto cerchio, come ad uno spettacolo di piazza. Sentivano invidia e gelosia, le donne di Bohio? A vederle così allegre, ci sarebbe stato da scommettere che le sullodate furie non fossero penetrate ancora nelle isole del nuovo mondo. Ma forse, chi sa? le donne sanno padroneggiarsi così bene! Comunque sia, non cerchiamo di approfondire certi misteri. Molti fatti sono rimasti oscuri, molti particolari inesplorati, nei primi viaggi di scoperta di là dall'Atlantico. Ai giorni nostri, se si dovesse scoprire una sesta parte del globo, andrebbero botanici, zoologi, fisiologi, psicologi, medici, speziali, perfino giornalisti, e si saprebbe ogni cosa appuntino. Ma allora, niente di ciò; e troppe cose son rimaste nell'ombra.

Samana aveva dette, sulla spalla di Damiano, alcune parole al naturale di Guanahani. Se ne avvide Damiano, e, sospettoso come un europeo, chiese tosto a Caonec:

– Che cosa ti domanda il mio sole?

– Domanda, – rispose Caonec, – se quel giovane che ti ha parlato poc'anzi è tuo fratello.

– No, non è mio fratello.

– E gliel ho detto.

– Ma dille ancora che Cosma mi è più che fratello, amico del cuore. Capisci? del cuore. —

Caonec aggiunse qualche parola alla sua risposta, per contentare Damiano.

Frattanto, per invito delle donne di Bohio, si usciva dalla sala del convito in giardino, a prendere una boccata d'aria. Damiano offerse galantemente il braccio a Samana Taorib. La fanciulla non capiva che cosa significasse quell'atto, per cui l'uomo si accosta così gentilmente alla forma di un'anfora col manico. Ma ella vide che Rodrigo di Xeres e Luigi di Torres facevano lo stesso, pigliando a braccetto due altre donne di Bohio, e si adattò subito ad imitar le compagne. Si voltò, per altro, a guardare che cosa facesse il quarto figlio del cielo, e vide che il quarto non faceva manico d'anfora a nessuna tra le figlie degli uomini.

– Cosma… – mormorò ella.

E proseguì la frase, ma nella sua lingua; donde avvenne che il suo cavaliere non capisse altro che il nome dell'amico, un nome da lei imparato poc'anzi.

Damiano si volse per notizie all'interpetre.

– Che cosa dice la mia sultana? – gli chiese.

– Vuol sapere, – rispose Caonec, – perchè il tuo amico non fa come gli altri.

– Ah sì, è vero; – disse Damiano. – Cosma fa sempre tutto alla rovescia degli altri. Dille che Cosma non ama le donne. —

Cosma udì le parole dell'amico, e alzò sdegnosamente le spalle.

– Mi raccomando, – diss'egli poscia, in vernacolo genovese, – non far sciocchezze; non ne dire, almeno. Credo in verità che quel liquore maledetto ti abbia dato al cervello. —

Damiano voleva rispondergli. Ma quell'altro si era già allontanato.

Erano andati a sedersi, come desiderava Damiano, sull'erba del prato, all'ombra dei palmizi e dei cocchi. Le donne di Bohio si erano sedute accanto ai figli del cielo. I colibri svolazzavano di fiore in fiore: i pappagalli facevano un casaldiavolo sui rami degli alberi giganteschi; l'idillio e l'egloga intenerivano i cuori della comitiva satolla.

Poco stante, capitarono anche gli uomini della tribù. E chiesero, con l'aiuto degli interpetri, se i figli del cielo fossero rimasti contenti; pregarono che volessero rimanere molti giorni con loro, nella pace pastorale di Bohio, per riposarsi dei loro viaggi nell'aria e sul mare. Ma no, era impossibile, facevano rispondere i capi dell'ambasciata. Erano venuti per conoscere il paese, per chiedere come fosse grande quell'isola, quanti fossero i villaggi, e quanti i re; da chi dipendessero; se su quell'isola, o in altra terra vicina, imperasse il gran Cane, o il Prete Janni, od altro monarca; dopo di che, era necessario che ritornassero alla costa, per dar ragguaglio di tutto al loro grande almirante, signore dei mari, ma soggetto egli stesso al più grande monarca del mondo. Era necessario che partissero: sarebbero rimasti a Bohio solamente quella notte. Ma perchè il re di Bohio non sarebbe andato ad accompagnarli fino alla costa, per conoscere l'almirante, signore dei mari, che lo avrebbe accolto come un fratello, e gli avrebbe fatti dei ricchi presenti, per lui e per i principali uomini di Bohio?

Erano in questi discorsi, quando venne un selvaggio, probabilmente un servo del re, portando una cesta intessuta di vimini colorati. In quella cesta si vedeva una quantità di piccoli arnesi, di color lionato carico, in forma di fusi. Ma non erano fusi di legno; parevano di carta, o piuttosto di foglie disseccate.

– Che roba è? – disse Luigi di Torres.

– Come? – esclamò Rodrigo di Xeres. – Non lo sapete? Nell'estremo Oriente, nell'India pastinaca, non c'è nulla di simile? E non vi dà lume di niente il vostro Beniamino di Tudela?

– Voi scherzate, don Rodrigo!

– Eh, Dio buono, a quest'ora, dovrebb'essere permesso. Non avete voi pranzato di buon appetito? —

Frattanto avevano presi fra le dita quei fusi, li palpavano, li guardavano, li fiutavano. L'aspetto non era brutto; la sostanza cedeva al tatto, come un composto di foglie secche; l'odore era buono, ma di un aroma sconosciuto.

Il re, forse per dare il buon esempio ai suoi ospiti, prese uno di quei fusi, ne introdusse una estremità fra le labbra, e accostò l'altra ad un tizzone acceso che gli porgeva un famiglio. Appiccato il fuoco a un capo del fuso, il re si mise a tirare il fiato dall'altro, e incominciò a render fumo dalla bocca.

– Oh, taorib!– esclamò Damiano, che aveva seguita con occhio curioso l'operazione regale.

L'interpetre di Guanahani spiegò a Damiano e alla compagnia che quello non era taorib, ma si diceva kohiba.

– Siamo lì! – disse Damiano. – E a che serve quel succhiar foglie accese e dar fumo dalla bocca?

L'interpetre stentava a capire. La frase di Damiano accoglieva troppi vocaboli nuovi per lui.

– Ti domando, – riprese Damiano, – che cosa è questa kohiba.

– Un'erba, – rispose allora l'interpetre, – un'erba che scaccia gli spiriti della sera.

– Spiriti?.. che sono in corpo? – domandò Damiano, aiutando le parole col gesto.

Caonec rispose affermativamente. Ma forse intendeva di spiriti che possono entrare in corpo. Nondimeno, si trattava sempre di spiriti, e della utilità grande di mandarli a quel paese.

– Ah! – disse Damiano. – Credo di averne bisogno ancor io. Vuoi tu accendermi questa kohiba, dolce Samana Taorib? —

La fanciulla non capì le parole, ma il gesto era eloquente; ed ella appagò il desiderio del suo cavaliere. Prese il fuso, lo accostò alle labbra, lo accese al tizzone, e poi lo porse graziosamente a Damiano.

Questi incominciò a guardare devotamente la traccia umida che le labbra di Samana avevano lasciata sulla estremità del fuso. E più divotamente accostò le sue labbra a quella traccia; poi diede la stura agli inni, rubando frasi ed immagini al Cantico dei Cantici.

– Taorib! Taorib! Sono dolci i tuoi amori, e il succo delle tue labbra è migliore del miele. Non parlo del vino, come termine di confronto, perchè il vino della Santa Maria non è altro oramai che un cattivissimo aceto, un aceto con sapore di muffa, neanche buono a condire il cappone in galera. Taorib! Taorib! i tuoi occhi sono due pezzi di lapislazzuli, in mezzo a cui l'orafo divino ha incastonati due diamanti purissimi. Il tuo collo è come la torre di Sion, a cui Davide appendeva le targhe dei prodi, ed io appenderei una collana di baci. I tuoi orecchi sono come capriuoli… cioè, no, veramente non sono i tuoi orecchi; ma, sono capriuoli egualmente, sebbene non si levino tra i gigli. Ed io mi levo… mi levo su, leggero leggero, enfiato come una vela maestra, dal soffio di una legione di amori. —

Non era più un discorso, quello di Damiano; era un mormorio; un bisbiglio all'orecchio di Samana, mentre intorno a loro erano parecchie conversazioni avviate. Samana Taorib stava a sentire la filastrocca, come trasognata, cadente dalle nuvole, mentre egli, sentendosi più leggero che mai, andava con la fantasia più alto che non dicesse a parole.

– Taorib! Taorib!– seguitava egli, balbettando. – Vuoi tu seguirmi lassù? Ti porto in cielo. Strappo un par di raggi alla prima stella che passa, e te ne faccio un diadema; qualche goccia di rugiada alle nubi, e te ne faccio una collana di perle. Taorib!Samana Taorib!… —

Samana Taorib, più confusa che mai da quella monotonia di suoni deprecativi, volgeva intorno i suoi grandi occhi d'indaco.

– Caonec! – diss'ella, vedendo l'interpetre seduto sulle calcagna, a pochi passi da lei. – Cosma kohiba nericama?

Damiano incominciava a sentirsi impacciata la lingua; ma aveva ancor sano l'orecchio.

– Caonec! – diss'egli a sua volta. – Che dice, la mia bella sovrana?

– Domanda, – rispose Caonec, – perchè il tuo amico non ha voluto fumare kohiba.

– Dille che Cosma odia la kohiba come odia le donne; – rispose Damiano. – Cosma è uno sciocco.

– Cosma taorib!– mormorò Samana.

Un'opinione così recisamente espressa, non poteva piacere a Damiano, che si voltò scorrucciato alla sua bella vicina.

– Ecco, signora; – diss'egli. – Bisogna distinguere. Cosma sarà taorib finchè vorrai, ed anche di più. Ma ti prego di credere che nel mio paese, agli occhi di una donna, non è taorib che un uomo solo. Non mi capisci, Samana? Ora te lo faccio spiegare da Caonec. O piuttosto, no!.. – soggiunse egli, ravvedendosi. – Non leviamo il velo dell'innocenza a questa divina creatura. Ella vede che Cosma è mio amico, e crede farmi un piacer matto, decorandolo dell'epiteto di taorib. Certo, il mio compagno non è… non è… come si dice il contrario di taorib? A te, Caonec! Come si dice brutto nella tua lingua?

– Uruab;– rispose prontamente l'interpetre.

– Ah sì? Uruab? Dovevo immaginarmelo. Dicevo dunque a questa cara fanciulla che Cosma non è uruab. Tutt'altro! Anzi, la signora Nina lo trovava taorib… molto taorib… la qual cosa non tolse che un bel giorno… Ma già, c'è sempre nel mondo un taorib che è più taorib di noi, o sembra tale, e viene a vogarci sul remo. Ebbene, che cosa dicevo? Samana Taorib… tu mi guardi?.. Cioè, non mi guardi affatto. Ma il tuo fumo di kohiba mi dà maledettamente alla testa. Caonec! Caonec! dell'acqua… un sorso d'acqua, ti prego… —

Caonec corse nella capanna a prendere l'orciuolo, e ritornò prontamente, per accostarne l'orlo alla bocca del fumatore giacente.

– Oh bene, grazie, Caonec. È buona, l'acqua; e noi siamo qualche volta ingiusti con essa. Ancora un sorso… e un altro… È tanto buona, che la tracannerei tutta d'un fiato. Ma dov'è Samana Taorib, che non la vedo più al mio fianco? Partita! perchè?.. Dell'acqua ancora! E ti prego, raccogline un poco nel cavo della mano, e spruzzami il viso… Mi arde la testa, e mi vengono i sudori freddi alle tempie. Che diavol è? Pigliami tra le braccia, Caonec; tirami su, a sedere… così! Ma no, tirami su, del tutto, in piedi… e sorreggimi. Sento che mi si rovescia lo stomaco. Vorrei passeggiare, Caonec. Là, dietro a quegli alberi, ci dev'essere più aria. —

Caonec, intelligente selvaggio, obbediva a tutti i cenni di quel figlio del cielo. Presolo sotto le ascelle, lo condusse barcollante verso la macchia.

– Che c'è! – domandò Rodrigo di Xeres, vedendo la scena.

– Niente, don Rodrigo; – balbettò Damiano, tenendosi lo stomaco, e stralunando gli occhi. – Vado a prendere un po' d'aria.

– Infatti, siete assai pallido.

– Sfido io… con quella kohiba! Ma l'aria fresca mi farà bene. So un poco di medicina, don Rodrigo, e penso che potrò liberarmi… da questa oppressura. Vapori, capite? vapori dello stomaco. Ippocrate dà dei consigli, in proposito; Galeno raccomanda; e Celso non contraddice. —

Così dicendo, Damiano si allontanò, appoggiandosi al braccio di Caonec. Le gambe lo reggevano male, ma il braccio del suo compagno era saldo. Così avesse egli avuto saldo lo stomaco! In quella vece, o Dio liberatore!.. Ma è giusto che certe cose avvengano, per salutare esempio, se non per edificazione dei popoli.

Mezz'ora dopo, respirata l'aria fresca della macchia, risciacquata la bocca e la fronte allo zampillo di una sorgente vicina, con lo stomaco debole e il cervello intronato, Damiano ritornò verso la comitiva. Il sole era tramontato, e la notte si avvicinava a gran passi. Nell'ombra della sera, e attraverso le nebbie dei suoi occhi, Damiano vide Cosma che stava presso l'uscio della capanna. La fanciulla dagli occhi d'indaco era vicina a lui, e pareva guardarlo con molta attenzione.

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Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
25 июня 2017
Объем:
380 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain
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