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Vae victis!

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Luisa vide Chérie, tremante e pallida, addossata al muro in un lontano angolo della stanza.

«Mirella dov'è?» gridò Luisa.

Chérie rispose: «E' andata disopra. Quell'uomo» – e indicò il capitano – «l'ha mandata a cercargli delle pantofole. Io volevo andare con lei, ma non mi hanno lasciata....» La voce le si ruppe in un singhiozzo.

«Dio di misericordia,» mormorò Luisa, «mi pare tutto un sogno.....»

Il capitano, vedendo Luisa, si era rizzato a sedere.

«Ah!» esclamò, «ecco la mia suora di carità! La mia dolce Samaritana!» E si alzò e le andò incontro nelle sole calze e le prese dalle mani la catinella.

Indi si guardò intorno, incerto dove posarla. Finalmente tirò a se una poltrona di damasco e vi depose la catinella d'acqua. «So gut,» disse. «E qui, cosa abbiamo?»

Tolse di mano a Luisa la piccola fiala di sublimato e ne lesse l'etichetta. – «Perclorato di mercurio – grammi 1. – Benissimo.»

Aprì la boccetta; fece cadere sul palmo della mano una delle pastiglie di color rosa vivo, e la gettò nell'acqua.

«Ed ora, bella signora, volete aiutarmi? Volete lavare la ferita del nemico? Del nemico… ammiratore?»

Denudò l'avambraccio e si rimise sul divano, facendo posto accanto a sè per Luisa. Ma quando tentò di trarsela al fianco essa si svincolò e volle rimanere in piedi davanti a lui.

«Ah! la belle Dame sans Merci!» citò ridendo il capitano.

Luisa aveva immerso il cotone nell'acqua e si chinava a lavare leggermente il braccio ferito, allorchè la piccola Mirella entrò portando in mano un paio di pantofole di suo padre.

Ristette sbigottita sulla porta vedendo sua madre, curva sopra il braccio di quell'uomo. Il piccolo viso le si fece di fiamma. Gettando per terra le pantofole corse a rifugiarsi nell'angolo accanto a Chérie, e le nascose la faccia in seno.

«Toh! Toh! la viperetta!» esclamò Von Wedel con una grossa risata, prendendo un altro sandwich. «E da bere cosa ci date? Non questi sciroppi, spero?» additando con disgusto l'aranciata e la granatina. «Vogliamo dello champagne! Eh, Glotz? Cosa ne dici? Piper Heidsieck, Extra Dry.»

«E del cognac,» aggiunse Fischer che stava esaminandosi il braccio. «Questa graffiatura mi fa maledettamente male.»

Vi fu un istante di silenzio, indi Chérie facendo un rapido passo verso la porta, disse: «Vado a prendere il cognac.»

«Vengo anch'io,» esclamò Mirella.

«No, no, no, no!» rise Von Wedel afferrandole, ciascuna per un braccio. «Voialtre volete scappare! Conosco le vostre malizie. Niente affatto. La viperetta starà qui. E la colombella» – si chinò col viso vicinissimo a quello di Chérie – «la colombella verrà con me a farmi vedere dove si trova il cognac e lo champagne.»

«No! No! voglio venire anch'io!» strillò Mirella avviticchiandosi al braccio di Chérie.

«Tuoni e fulmini!» vociò Von Wedel, «che piccolo scorpione! Qui, Glotz! tienla un po' ferma – o meglio portala via, che mi dà sui nervi!»

A queste parole Luisa smise di lavare la ferita del capitano, e scoppiò in pianto.

Glotz che stava seduto a tavola mangiando tranquillamente, si alzò, asciugandosi la bocca in una delle serviette di carta velina. «So io dov'è la cantina,» disse. «Ci sono passato nella ronda col signor capitano. Se il signor capitano permette andrò io stesso a cercare il cognac.»

Von Wedel lo guardò sdegnato. «Cosa t'immischi, idiota?»

Ma Glotz uscì rapido dalla stanza, senza badare a Von Wedel che lo ingiuriava sommesso.

Luisa frattanto singhiozzava ancora. Invano il capitano le accarezzò la guancia dicendole che a Mirella nessuno avrebbe fatto nulla; essa continuò a piangere amaramente, disperatamente, mentre gli fasciava il braccio.

Von Wedel avendola osservata qualche momento si rivolse a Chérie. «Dimmi un po', che parentela hai con quella Niobe piangente?»

«E' mia cognata,» rispose Chérie con un filo di voce.

«Eh? Cos'hai detto? Non capisco. Parla più forte,» disse Von Wedel, seduto su un angolo della tavola e accendendo un sigaro del dottor Brandès.

«Mia cognata,» ripetè Chérie quasi afona.

«Tua cognata?» Von Wedel soffiò verso il soffitto una boccata di fumo. «Caruccia!» E le pizzicò il mento. «Ed io sarò tuo cognato; va bene? – Ah! ecco lo champagne!» esclamò vedendo spalancarsi la porta.

Ma non era lo champagne. Era un altro ufficiale, vestito anch'egli di un'uniforme grigia e senza alcun distintivo. Era rosso in faccia e tutto sporco di polvere e di terriccio.

Salutò il capitano, fece un cenno di saluto a Von Wedel; poi allentò il suo cinturone e buttò l'elmetto grigio sul pianoforte vicino agli altri.

«Ah! finalmente, Feldmann,» disse il capitano Fischer. «E così?… Cosa avete fatto?»

«Il mio dovere,» rispose il nuovo arrivato, con una voce stranamente rauca.

«Der Pfarrer?…» chiese Von Wedel.

Il nuovo venuto annuì con un movimento del capo e torse le labbra in una smorfia di disgusto, «Già. E anche quel balordo di un boy-scout. – Era lui,» soggiunse volgendosi a Fischer, «che aveva sparato contro di voi.»

«Ma no, non era lui,» ribattè impaziente il capitano, stringendosi nelle spalle. «Vi ho detto che era un vecchio.... da una finestra vicino alla chiesa....»

«Può darsi. Basta; io non ho visto vecchi, dichiarò il capitano Feldmann.» E questi civili devono imparare la loro lezione. – Cos'avete qui di buono?» E girò lo sguardo intorno alla tavola. «Ho una fame da lupo.»

E ponendo uno sull'altro tre o quattro sandwich, aprì una gran bocca e li mangiò.

«Infetto villaggio!» osservò poi a bocca piena. «Potevamo benissimo tralasciare di venirci.»

«Niente affatto,» dichiarò Fischer in tono severo.

«Basta, non discutiamo su ciò,» ribattè Feldmann. «Tanto, domattina ce ne andiamo. – C'è da bere?»

Chérie si era fatta di fiamma. Una sola cosa aveva afferrato: sarebbero partiti l'indomani mattina!!… Bisognava dare a Luisa questa meravigliosa novella! Difatti glielo disse, rapida e sommessa, in fiammingo.

Luisa che aveva terminato di fasciare il braccio del capitano si rimise a piangere. Stavolta erano lacrime di gioia.

«Queste donne cosa sono?» chiese Feldmann guardandosi attorno. «Paiono ballerine.»

«Quella,» fece Von Wedel additando Luisa, «è la Niobe piangente; e quella» – indicando Mirella – «è la piccola Furia. E questa» – prendendo Chérie per il polso e tirandola a sè – «e questa è la mia adorabile cognatina…»

«E questa è la Vedova Cliquot, '85» – interruppe Glotz, entrando rapido con molte bottiglie polverose in braccio, e intromettendosi come per caso tra Chérie ed il suo tormentatore.

Gli uomini rivolsero subito tutta la loro attenzione ai vini, e mandarono Glotz ripetutamente in cantina a cercarne dell'altro.

Vollero del Martel; poi vollero del Kirsch; poi del Pernod. Dopo di che vollero dell'altro champagne, e degli altri sandwich che Luisa andò a preparare. Poi vollero il caffè che Feldmann insistette a voler fare lui stesso sopra una lampadina a spirito. Rovesciarono la lampadina sulla tovaglia, e i tovaglioli di carta velina presero fuoco. Allora li gettarono per terra e li spensero calpestandoli nel tappeto.

Von Wedel sedette al pianoforte e cantò: «Traum durch die Dämmerung» mentre il capitano con lamentìo fioco faceva il coro. Quindi Feldmann recitò una poesia. Essendo completamente briaco, dovette chiamare Glotz e mettergli un braccio intorno al collo per poter reggersi in piedi; coll'altro braccio gesticolava, accompagnando le parole:

 
«Liebe Mutter, der Mann mit dem Kox ist da!
Schweig still, mein Sohn, das weiss ich ja.
Hab' ich kein Geld, hast du kein Geld,
Wer hat denn den Mann mit dem Kox bestellt?…»
 

Fragorosi applausi accolsero questa declamazione: Glotz soltanto, calmo ed impassibile, col braccio di Feldmann avvinghiato al suo collo, rimaneva immobile e taciturno guardando davanti a sè con espressione vacua.

Da un pezzo non parevano badare più affatto alle tre donne, raggruppate insieme nell'angolo più lontano della stanza. Ma se appena queste tentavano muovere un passo verso la porta, subito Von Wedel, con un balzo delle lunghe gambe, le fermava.

«Non si esce di qui. No, no, caruccie mie! Non si esce di qui!»

E a un dato momento, fermando su di loro lo sguardo ebbro e fluttuante dei chiarissimi occhi, andò alla porta, la chiuse, ed intascò la chiave.

Allora le tre creature spaurite si avviticchiarono più strette l'una all'altra e susurrarono colle pallide labbra: «All'alba!… All'alba, andranno via!…»

Ma l'alba – ahimè! – era lontana ancora.

A un dato momento il capitano Fischer sbadigliando disse ch'era tempo di andare a dormire; ma gli altri protestarono con alte voci bestemmiando e dicendogli che era un vecchio gufo. Fischer allora spiegò molto verbosamente che la disciplina militare non li autorizzava a chiamarlo un vecchio gufo. E chiamò anche Luisa a testimonio che lo avevano chiamato un vecchio gufo…

Ma in mezzo al suo discorso Feldmann si mise a cantare a squarciagola: «Gaudeamus igitur», e poichè il capitano non riusciva più a sentirsi parlare, finì col cantare anche lui.

«Su, tortorella, su!» esclamò Von Wedel avvicinandosi con grandi passi barcollanti a Chérie e reggendo due bicchieri colmi di champagne nelle mani. «Brüderschaft trinken! Devi bere alla fratellanza con noi.»

E le spinse in mano uno dei bicchieri, rovesciandole il biondo vino per tutta la veste.

«Così,» – la tenne ritta di fronte a lui – «Ora prendimi a braccetto, là, in faccia a me!» – infilò il suo braccio sinistro sotto il braccio sinistro di lei, ed alzò il bicchiere nella destra.

Chérie si svincolò ansando e si rifugiò dietro Luisa. Ma l'uomo la riafferrò brutalmente per il braccio.

«Obbedienza!» ruggì stralunando gli occhi torvi. «Adesso canterò: «Lebe, liebe, trinke, schwärme – e tu sta attenta. Quando arrivo alle parole «froh mit mir» devi battere tre volte il tuo bicchiere contro il mio. Hai capito?»

 

«Lasciatemi! ve ne prego! Ve ne prego!» pianse Chérie.

«Froh – mit – mir!» ripetè lui dondolandosi sui piedi e fissandola truce traverso le palpebre semichiuse.

E cantò:

 
«Lebe, liebe, trinke, schwärme
Und erfreue dich mit mir.
Härme dich wenn ich mich härme
Und sei wieder
froh —
mit —
mir!»
 

Alle tre ultime parole cozzò il suo bicchiere contro quello di Chérie.

«Bevi!» comandò con voce terribile. «Se non bevi è un insulto che fai all'armata tedesca; un insulto che va punito.»

Con un singhiozzo Chérie si portò il bicchiere alle labbra.

Luisa piangeva torcendosi le mani. «Vili… vili....» gridava; mentre Mirella avvinghiata alle sue vesti fissava con occhi sbarrati la scena.

Il capitano Fischer guardò di sottocchi Luisa.

«Mia Samaritana....» balbettò colla lingua già spessa; «mia suora di carità…»

Si alzò e le si fece vicino con un ebete sorriso. Mirella si scagliò contro di lui come una piccola selvaggia.

«Andate via!» strillò. «Andate via!».

Il signor capitano la prese senza brutalità per le esili spalle.

«Le piccole bambine....» borbottò, «a quest'ora… devono essere a letto. Le mie bambine sono già a letto da un pezzo.»

Luisa torse le mani convulse. «Vi supplico, vi supplico! Abbiate pietà di noi! Lasciateci andar via.... La casa è vostra, ma lasciateci andar via…»

L'ufficiale la guardava con aria istupidita, arricciandosi i baffi grigi. «E dove volete andare?» domandò.

«Nelle nostre camere,» balbettò Luisa.

«Ma non ne avete voi di camere!» fece il capitano, con un sorriso ambiguo. «Sono nostre le camere!» E piegandosi in avanti e spalancando gli occhi, la fissò in modo assai significativo.

Luisa si guardò selvaggiamente attorno, come un povero animale preso in trappola.

Essa vide Von Wedel e Feldmann che tenevano in mezzo a loro Chérie e la forzavano a bere nei loro bicchieri; vide Glotz che si girava e rigirava sullo scanno del pianoforte, imbambolato ed impassibile; e vide quest'uomo di fronte a lei che si sporgeva avanti, che ammiccava lubrico e suggestivo – così vicino che essa ne sentiva in faccia l'alito caldo ed acre. Il nemico! Era il nemico. L'uomo dai piedi imbrattati di fango e di sangue.... ecco, egli tendeva la mano.... la toccava!

Allora Luisa cadde in ginocchio e trasse giù a ginocchi anche la piccola Mirella. Tendendo in alto le mani giunte, levò su di lui il volto rigato di lagrime.

«Le vostre bambine – voi avete delle bambine a casa vostra – ebbene, sono a letto, le vostre bambine! Dormono!… Sono al sicuro… Sono sane e salve, ben chiuse nella loro casa. – Che Dio ve le guardi! Che Dio ve le protegga! Ma voi, oh! abbiate pietà! Proteggeteci! Abbiate cura di noi!… Siate buono – siate buono!» E cadde prona davanti a lui colla testa a' suoi piedi, mentre la piccola Mirella, con rapide lacrime che le scorrevano per il sottile viso alzava lo sguardo implorante su di lui e gli toccava la mano colla piccola mano tremante.

Egli abbassò lo sguardo su quelle due figure inginocchiate ed aggrottò le ciglia.

Sì… è vero… Aveva pure a casa sua, in Mainz, tre piccole bambine, tre buone bambolette bionde. Eh, sì! Bene per loro che erano a Mainz e non nel Belgio. Ma per Dio! Erano delle bambine tedesche, quelle; mentre questa gente qui – Nemici erano… erano belligeranti. Borghesi, se si vuole, ma tuttavia belligeranti.

Il suo sguardo si abbassò su quel capo di donna curva ai suoi piedi, su quella testa bruna, su quelle esili spalle in sussulto.... Poi i suoi occhi si volsero e si fermarono sul bianco viso infantile che la bambina levava su di lui.

«Belligeranti....» brontolò; e tosto fece un cipiglio più che mai fosco ed arcigno. Poi d'un tratto il volto gli si contrasse; ebbe negli occhi un tremolio annebbiato.

«Via dunque!» ordinò con voce secca e rauca. «Via! Via subito! tutt'e due! Andatevene! Nascondetevi. In cantina – in soffitta – dove volete… Non andate fuori. Le strade sono piene di soldati ubbriachi. – Via!»

Luisa gli gettò le braccia intorno ai ginocchi e glieli baciò; gli baciò i piedi, nelle pantofole di Claudio, benedicendolo e piangendo di gratitudine; e Mirella sorrideva col serafico volto ancora inondato di lacrime e diceva: «Grazie! Grazie! Grazie!…» senza neppur sapere di che cosa lo ringraziasse.

«Ma – e Chérie?» Luisa ansante si volse a guardare quella figuretta, smarrita e piangente nella sua bianca veste, in mezzo ai due lubrici uomini briachi. «Non possiamo lasciarla....»

«Portatela via con voi!» disse Fischer, e traversando con passo risoluto la camera, prese Chérie per un braccio e l'allontanò dai due uomini.

«Ma come? Ma cosa fate, vecchio libertino?» urlò Feldmann con una grossa risata. «Si può sapere quante ne volete, voi? Non ve ne bastano due, vecchio porcospino che siete? Per tutti i diavoli! Questa qui la lascerete stare!»

«La lascerete stare anche voi altri,» tuonò il capitano. «Io le ordino di andar via.» E Fischer corrugò selvaggiamente le sopracciglia tentando di ristrappare Chérie alla stretta di Feldmann e di Von Wedel.

«Olà! siete impazzito?» disse Von Wedel andando vicinissimo a Fischer e guardandolo dall'alto in basso con fare provocante e minaccioso.

«Ho detto di lasciarla stare,» sbuffò il capitano; «questi sono i miei ordini. E voi, tenente Von Wedel, se non mi ubbidite dovrete rispondere a chi di ragione.»

«Vecchio scimmiotto! Vecchio cammello ammuffito!» urlò Von Wedel. «Ah! ne dovrò rispondere, io? Ma se siete ubbriaco, voi! Ubbriaco fradicio. E sono ubbriaco anch'io. E me ne infischio di voi e dei vostri ordini.»

E strappando il braccio di Chérie alla stretta di Fischer, lo spinse violentemente all'indietro.

«I vostri ordini....» balbettò l'inebbriato Feldmann, pronunciando a stento le parole e poggiando la sua mano sulla spalla stessa di Fischer per tenersi ritto, «i vostri ordini.... contraddizione diretta con altri ordini… ordini superiori.... che abbiamo ricevuti. Vero?… eh, Von Wedel?» E tentennò la testa, strizzando l'occhio a Fischer. «Sigillo della Germania.... da imprimersi sul paese nemico.... Sigillo della Germania.... Andatevene. Non venite qui a seccarci.»

«Non fate il vecchio cammello,» soggiunse Von Wedel col braccio intorno al collo di Chérie, che vacillava, livida, tramortita, cogli occhi semispenti.

«Vae victis! Se non siamo noi, sarà qualcun altro.» E additando Glotz: «Sarà quello scimunito lì! Guardatelo! Guardatelo già tutto arzillo ed aspettante! Arrectis auribus!… Vero, Glotz?… O allora saranno i nostri soldati ubbriachi,» e additò la finestra infranta, nera breccia aperta sul buio della notte. «Li sentite?…»

Fischer ascoltò. Di fuori i soldati mugghiavano «Die Wacht am Rhein

Il ragionamento di Von Wedel gli parve persuasivo.

«Vae victis!» sospirò, ingurgitando un altro bicchiere di cognac e sogguardando di traverso Luisa che seguiva con occhi stralunati ogni sua movenza. «Se non io.... Glotz.... o qualcun altro.... soldati ubbriachi....»

S'avanzò barcollando verso di lei che si aggrappava disperatamente alla porta. «Guai ai vinti, mia povera donna!… Sigillo della Germania.... ordini superiori.... – Perchè dovrei fare il vecchio cammello?…»

PARTE SECONDA

VI

E' piacevole cosa, in un mite pomeriggio settembrino, starsene seduti nella verde quiete di un giardino in Inghilterra. Piacevole è sorseggiare il thè e discorrere del tempo e della guerra, mentre i passerotti avventurosi vi saltellano vicini sull'erba vellutata, e una lieve brezza vi porta, misto a un profumo di reseda, il lontano alito del mare.

Così pensavano nella loro anima pacata le due sorelle, Miss Jane e Miss Julia Corry, volgendo intorno gli occhi azzurri, sereni, soddisfatti a mirare i prati, i passerotti, il servizio d'argenteria, i crostini imburrati, e la loro migliore amica Miss Lorena Marshall, venuta da Harrow a prendere il thè con loro e di cui le serene pupille brune riflettevano la stessa pacata felicità.

Tutte e tre avevano, sotto alle ravviate chiome grige, il viso ancora giovane; tutte e tre avevano entro il severo petto verginale un cuore impressionabile e tenero; tutte e tre avevano attraversato l'esistenza, contegnose ed impeccabili, senza deviare mai dalla più rigorosa anglosassone convenzionalità.

Erano sublimemente ingenue, divinamente caritatevoli, e inflessibilmente austere.

«E' piacevole cosa, invero,» ripetè Miss Julia colla sua voce in falsetto un po' querula. Essa era la più giovane delle tre – aveva appena quarantacinque anni – e sua sorella e l'amica la trovavano di vedute assai moderne. «Ammetto che anche sul Continente non si sta male, se si passa l'estate nella Svizzera e l'inverno a Montecarlo —»

«Oh! Julia, cosa dici!» interruppe scandolezzata Miss Jane. «Perchè parli di Montecarlo? Se non ci siamo rimaste che un quarto d'ora?»

«Tanto peggio!» ribattè la ribelle Miss Julia. «Dovevamo rimanerci di più. Il mare era di un'azzurrità di sogno, e le toilettes di quelle donne! – una rivelazione! Tuttavia, come dicevamo, l'Inghilterra resta pur sempre....»

Noi tutti sappiamo ciò che resta sempre per il cuore delle inglesi l'Inghilterra. E nell'enumerazione dei pregi e privilegi di quella beata isola sarebbe trascorso piacevolmente tutto il pomeriggio, se non veniva Barratt, il domestico, ad annunziare l'arrivo di altre visite.

Era Lady Mulholland e sua figlia Kitty che giungevano in dog-cart da Windford, ed ora s'affrettavano attraverso il prato, colle gonne fruscianti, i cappelli infiorati e le velette di trina al vento.

Si rifece il thè per loro ed esse portarono la loro nota nuova alla conversazione.

«Figuratevi che siamo state a trovare la signora Davidson,» disse Kitty.

«A proposito, non pensate anche voi di prendervi in casa qualche profuga?» chiese Lady Mulholland a Miss Jane. «I Davidson ne hanno presa una.»

«Ma come! I Davidson ne hanno presa una?» esclamò Miss Marshall.

«I Davidson ne hanno presa una!» fecero eco Miss Jane e Miss Julia Corry.

«Sicuro,» disse in tono un po' sarcastico Lady Mulholland. «E mi pare che se loro si permettono di tenerne una in quella meschina casa che hanno, ce lo potremmo permettere anche noi.»

«Già; sono di gran moda oggi i rifugiati,» osservò Kitty a Miss Lorena Marshall. «Tutte le migliori famiglie ne hanno.»

«Sì, ma via! I Davidson!…» esclamò Miss Marshall. «Come mai possono permettersi questo lusso?»

«Hanno licenziata la cameriera,» spiegò Lady Mulholland, «e fanno fare da sguattera a questa povera donna belga.»

«Che a casa sua,» saltò su a dire Kitty, «era una signora dell'aristocrazia. Molly Davidson mi ha assicurato che è veramente una gran dama! Marchesa, contessa, o che so io.»

«Già;» soggiunse sua madre. «Mi hanno anche detto che i letti li rifà molto male.»

«Povera creatura!» sospirò Miss Jane.

«Secondo me,» proseguì Lady Mulholland, «è assurdo che i Davidson si diano il lusso di avere una contessa forestiera a rifare i loro letti, mentre noi, che abbiamo delle discrete entrate e delle case decenti, stiamo a guardare. – Grazie, cara, due pezzi di zucchero. – Difatti, oggi ho scritto al Comitato offrendo ospitalità ad una famiglia di due o tre persone.»

«Quanto sei generosa!» esclamò Miss Jane; e Miss Julia fece una timida carezza alla mano grassoccia di Lady Mulholland che reggeva la tazza di thè.

«Noi altre, a dir vero, non ci avevamo ancora pensato,» si scusò Miss Jane. «Ma se possiamo in qualche modo soccorrere queste infelici, lo faremo con molto piacere.»

«Oh, certo! Siete così angeliche!» esclamò l'impulsiva Kitty, circondando d'un braccio robusto le rigidette spalle di Miss Jane e schioccandole un bacio sulla guancia.

Miss Jane arrossì di piacere.

«E allora, che passi si fanno per avere una di queste profughe?» chiese Miss Lorena Marshall. «Anch'io potrei trovar posto per qualcuna in casa mia. Anzi, non mi spiacerebbe affatto. Sono lunghe le serate per me che vivo sola; e riprenderei volentieri un po' di conversazione francese.»

Lady Mulholland, a cui ella s'era rivolta, indugiò alquanto a rispondere; quindi in tono piuttosto asciutto disse: «Potete scrivere al Comitato per i rifugiati, a Kingsway; oppure al Consolato Belga.» Vi fu una pausa. «I Davidson devono averla avuta dalla Lega pel suffragio femminile. La prevengo però,» soggiunse guardando con occhio frigido la signorina Marshall, «che il Comitato, a quanto mi si dice, è particolarmente rigoroso. S'informa per filo e per segno sul conto di coloro che vogliono i profughi. Non li manda, così, a chiunque ne faccia domanda.»

 

Vi fu un nuovo silenzio; quindi Lady Mulholland e sua figlia si alzarono e presero commiato.

A Miss Julia, che le accompagnò fino al cancello, la signora osservò a bassa voce: «Ma guarda un po' che impertinenza! Quella Miss Marshall che ha il coraggio di voler prendersi in casa una profuga! Lei!… Col suo passato!»

«Che passato?» chiese stupita Miss Julia, spalancando gli occhi cilestri un po' sbiaditi. «Che cosa dici mai?!»

«So ben io cosa dico,» ribattè l'amica con una crollata del capo che fece fluttuare ai venti il velo di trina bianca. «So ben io!… cara Julia, credimi: quando si vive tanto tempo all'estero» – e Lady Mulholland scosse vicino al naso di Miss Julia un indice sapiente e ammonitore – «c'è sempre qualche cosa sotto! Qualche gatta che ci cova. – Dunque addio. Vi aspetto mercoledì al thè in casa mia.»

E la gentildonna salì in carrozza seguita dalla sorridente Kitty, lasciando Miss Julia muta ed esterrefatta sotto gli alberi del suo giardino.

Dopo qualche istante di dolorosa riflessione Miss Julia ritraversò il giardino colla fronte pensosa e l'animo turbato. Ma come! Nè lei nè sua sorella si erano mai preoccupate del passato di Miss Lorena Marshall. Era prudente questo?

Miss Marshall a vero dire non evocava per nulla l'idea di un passato; tanto meno di un passato esotico, che alla mente di Miss Julia e di Miss Jane si associava vagamente a un terribile libro intitolato – «Pour lire au bain» – che era loro capitato in mano, ed a certi lochi infernali chiamati Bullier e Tabarin.

No; il pudico cappellino nero, correttamente assiso sulla capigliatura color pepe e sale di Miss Marshall non mostrava invero la più lontana parentela con quei folli «petits bonnets» che si buttano al disopra dei mulini in un momento di giovanile ebbrezza. Le sue solide scarpe a tacco basso e punta quadra respingevano risolutamente ogni idea che il piede così giudiziosamente calzato avesse potuto un tempo scendere danzando la fiorita china del peccato.

«Secondo me, è una malvagia e crudele calunnia,» mormorò Miss Julia; e appena fu sola con la sorella gliene parlò.

Anche Miss Jane respinse sdegnata l'ingiuriosa insinuazione, e quando nella serata il Reverendo Smyth, curato di Pinner, venne per discutere con loro i preparativi di un imminente concerto di beneficenza, le due sorelle confidenzialmente chiesero la sua opinione. Da quanto tempo conosceva egli Miss Marshall? Ne aveva udito parlare prima ch'essa venisse a Pinner? Gli pareva possibile ch'ella avesse un passato? Un passato.... continentale?

Il giovane Reverendo sorrise, e disse che secondo lui tale sospetto era ridicolo e poco caritatevole.

«Lei dirà, caro Mr. Smyth,» disse Miss Jane, «che mia sorella ed io siamo due zitellone noiose, dalle idee ristrette —» il curato fece un gesto di cortese protesta.

«Già; bisogna compatirci. Siamo zitellone noiose dalle idee ristrette,» ripetè Miss Julia.

Era questa una frase prediletta dalle due signorine Corry; la dicevano ad ogni istante – un po' per farsi contraddire e un po' per una specie d'umiltà che sta assai vicina all'orgoglio. Non era già un segno d'indubbia superiorità il riconoscersi dei difetti? E poi questa «ristrettezza d'idee», non è quasi sinonimo di «nobiltà d'idee,» quando significa il giusto aborrimento d'ogni volgarità e sconvenienza?

—–

Quando, il mercoledì seguente, le due signorine Corry andarono a rendere la visita a Lady Mulholland trovarono la sala di ricevimento piena di gente. Tutta Pinner e Hatch End e Harrow si dava convegno ai thè di Park House.

Le due sorelle entrarono, un po' timide; Lady Mulholland, molto circondata e prodigandosi a tutti, le accolse con distratta gentilezza. Kitty, gaia e affettuosissima, offrì loro con premura il thè.

C'erano anche le Davidson. («Che pessimo gusto hanno nel vestire,» osservò Miss Jane a Miss Julia; «nessuno porta il raso per l'afternoon tea!») Madre e figlia Davidson formavano il centro di un gruppo di persone, e, rosse in viso, stavano narrando la serie di guai avuti con la loro profuga contessa belga.

«Anzitutto non era affatto contessa,» diceva Dolly Davidson, con broncio puerile.

«E poi non era nemmeno belga,» soggiunse la povera signora Davidson, scotendo il capo piumato. «Mi stupisco che la Lega per il Suffragio Femminile ce l'abbia mandata. Figuratevi che ci confessò, partendo, d'essere una artista di varietà, nata a Linz! E non sapeva parlare che il tedesco e lo czeco. Dire che noi abbiamo sempre creduto che parlasse fiammingo!»

Le ascoltatrici dissimularono appena sotto un'apparenza di lieve commiserazione i loro sorrisi di giubilo. Ah, che meritata lezione! Ma come?! Questa insignificante Clara Davidson (Davidson padre aveva qualche oscuro impiego nella city) si era data tante arie con quella sua contessa! Ed ecco che doveva confessare d'aver ospitata una canzonettista austriaca!

«Mia povera cara amica!» esclamò Lady Mulholland. «Come avete fatto a liberarvene?»

«Ma…» balbettò la infelice signora Davidson arrossendo, «venne un uomo – un brutto tipo – a cercare di lei tardi l'altra sera, e fecero molto chiasso in anticamera. Non so se litigavano o altro…»

«Poi sono andati disopra tutt'e due,» aggiunse la loquace Dolly Davidson. «La mamma ha mandato su Reggy a chiamarli.» Reggy, un torpido adolescente che in quel momento aveva la bocca piena di torta, arrossì – «per dire che dovevano scendere e andar via subito. Ma Reggy rimase su, e quando sono salita io a cercarlo l'ho trovato che guardava dal buco della chiave.»

«Non è vero,» borbottò Reggy.

«Basta; abbiamo dovuto chiamare un policeman,» concluse rapida la signora Davidson. «E' stata una cosa veramente spiacevole.»

Il penoso silenzio che seguì fu rotto da Lady Mulholland.

«Confesso,» disse, «che non è senza trepidanza ch'io attendo l'arrivo dei miei profughi.»

«Quanti ne aspetti, cara?» chiese Miss Julia Corry.

«Quattro,» rispose lugubre Lady Mulholland. «Se potessi mandare un contrordine!…»

«Ah, no!» esclamarono in coro tutte le amiche. «Una volta che le hai invitate devi accettarle.»

—–

Arrivarono difatti il giorno seguente: una madre, magra e insignificante, due ragazzotti taciturni e grassi, e una ragazzina dall'aria furba, con due occhi vividi da furetto.

Si chiamavano Pitou.

Dal giorno che avevano abbandonato la patria, la casa e i beni – questi consistevano in un piccolo Restaurant in un'oscura viuzza di Bruxelles esalante un effluvio perenne di ragoût di montone – i quattro esuli non si erano trovati troppo male.

Appena sbarcati in Inghilterra avevano appreso ch'erano degli eroi. Erano stati acclamati, insieme ai loro compatrioti, quali salvatori d'Europa. Con stupore non disgiunto da compiacenza avevano ascoltato i discorsi pronunziati in loro onore, nei quali si assicurava che la riconoscenza del mondo intero non avrebbe mai ripagato il debito che la civiltà aveva contratto verso di loro.

Non c'era quindi da stupirsi se questi profughi – come molti altri – accettavano come di diritto e colla massima naturalezza tutto ciò che veniva loro offerto.

Mangiavano tutto il giorno – e nella notte tenevano accanto al letto dei biscotti che all'indomani buttavano via. Esigevano burro e marmellata a tutti i pasti; mettevano zucchero nel vino e acqua di fior d'arancio nel latte; si lagnavano assai che il caffè non era buono.

Se faceva freddo si mettevano sulle spalle il mantello di lontra di Lady Mulholland e le sciarpe di seta di Kitty. Parlavano poco, e sempre a bassa voce tra di loro.

Passavano gran parte della giornata nel salotto, sdraiati in poltrona a sfogliare le riviste illustrate. Scrivevano molte lettere e prendevano i francobolli dal cassetto della scrivania di Lady Mulholland.

Non ringraziavano mai di nulla.

Perchè avrebbero dovuto ringraziare?

Non avevano forse salvato l'Europa? Se non erano loro, dove sarebbe a quest'ora il mantello di lontra di Lady Mulholland? Se non era il Belgio a quest'ora sui divani di casa Mulholland si sdraiavano gli Ulani; e verrebbero gli Ussari della Morte a mangiarsi le conserve di casa Mulholland, a servirsi di francobolli e a criticare il caffè. Comment donc!

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