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I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4

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CAPITOLO LIII

Il giorno dipoi, l'arrivo de' suoi amici rianimò l'afflittissima Emilia. La valle fu nuovamente l'asilo d'un'amabile società. La sua indisposizione e lo spavento avuto, toglievano a Bianca qualcosa della sua vivacità, ma ella conservava però un'ingenua semplicità, che la rendeva ancor più interessante. La trista avventura de' Pirenei faceva desiderare impazientemente al conte di tornare al suo castello. Dopo una settimana, Emilia si preparò a seguire i di lei ospiti in Linguadoca, ed affidò a Teresa la cura della casa nella sua assenza. La vigilia della partenza, la buona vecchia le riportò l'anello di Valancourt, scongiurandola, colle lagrime agli occhi, di accettarlo. Non aveva più veduto il cavaliere, nè più udito parlar di lui dal momento che glie l'aveva consegnato. Sì dicendo esternava in volto maggior inquietudine che non volesse manifestarne. Emilia represse la sua, e pensando ch'era per certo tornato dal fratello, persistè nel rifiuto, e raccomandò a Teresa di conservarlo, finchè rivedesse Valancourt.

Il giorno seguente partirono tutti dal castello della valle, e giunsero l'indomani a Blangy. La contessa, Enrico e Dupont, che Emilia fu sorpresa di trovare colà, li ricevettero con indicibil trasporti di gioia. La fanciulla si afflisse molto nel vedere che il conte alimentava sempre le speranze dell'amico. La sera del secondo giorno, Villefort le parlò nuovamente delle offerte di Dupont: l'estrema dolcezza di Emilia nell'ascoltarlo lo ingannò sullo stato del di lei cuore; credè egli che Valancourt fosse quasi dimenticato, e ch'ella potesse avere favorevoli disposizioni per Dupont. Allorchè la di lei risposta l'ebbe convinto del suo errore, il suo zelo per assicurare la felicità di due persone che stimava cotanto lo spinse a farle conoscere che, per un affetto male impiegato, avvelenava i più bei giorni della vita. Vedendo il di lei silenzio e l'abbattimento della sua fisonomia, il conte finì per dirle: « Non insisterò di più, ma son convinto appieno che non rigetterete sempre un uomo tanto stimabile come il signor Dupont. » Le risparmiò la pena di rispondere, e s'allontanò subito.

Emilia continuò a passeggiare, affliggendosi che il conte non desistesse da un progetto da lei sempre respinto. Perduta nelle sue tristi riflessioni, si trovò insensibilmente al bosco che circondava il convento di Santa Chiara, alla vista delle cui torri, accortasi allora quanto si fosse allontanata, risolse di prolungare un po' più la passeggiata, e d'andare ad informarsi della badessa e delle monache sue amiche. Entrò nel parlatorio, e non avendovi trovato nessuno, suppose che fossero tutte in chiesa; finalmente giunse una monaca cercando la badessa con aria d'impazienza, senza osservare Emilia. Ella si fece conoscere, ed intese che stavano pregando per l'anima di suor Agnese, la quale aveva languito per molto tempo, ed in quel momento era moribonda. La monaca le fece il dettaglio dei patimenti di suor Agnese, e le orribili convulsioni da essa patite. Era ricaduta in uno stato tale di disperazione, che nè le sue proprie orazioni, alle quali si univano quelle di tutta la comunità, nè le assicurazioni del confessore, non potevano calmarla, e lasciarle gustare un solo istante di quiete.

Emilia ascoltò tutto col massimo interesse; si rammentava lo smarrimento notato sovente nella fisonomia di suor Agnese, non meno che il racconto di suor Francesca, e la di lei pietà diveniva maggiore. Era già tardi; Emilia non potè nè vederla, nè andar a pregare per lei in quel punto; incaricò la monaca de' suoi complimenti per tutta la comunità, e se ne tornò al castello, pensando tristamente alla misera agonizzante.

CAPITOLO LIV

La sera del giorno dopo, Emilia, volendo saper le nuove di suor Agnese e rivedere le amiche, persuase Bianca di tenerle compagnia fino al monastero, alla cui porta videro una carrozza co' cavalli bagnati di sudore, lo che indicava essere giunti da pochi minuti. Regnava il più cupo silenzio nel cortile e nei chiostri ch'esse traversarono. Arrivando nel salone, furono informate da una monaca che suor Agnese viveva ancora in perfetto sentore, ma che sicuramente sarebbe morta nel corso della notte. Nel parlatorio, parecchie educande vennero a salutarla e a discorrere con lei. Di lì a poco sopraggiunse la badessa, ed espresse la massima soddisfazione nel rivedere Emilia; le sue maniere però avevano una singolar gravità, ed era di mesto umore. « La nostra casa, » diss'ella dopo i primi complimenti, « è veramente una casa di duolo. Una delle nostre sorelle paga in questo momento il tributo alla natura; voi non ignorate senza dubbio che la nostra povera Agnese è moribonda. La morte ci presenta una grande ed importante lezione; sappiamo profittarne, ed impariamo a prepararci al cambiamento che ci attende. Voi siete giovane, mia cara Emilia, e potete acquistare l'inapprezzabile pace della coscienza. Conservatela in gioventù, affinchè divenga un giorno il vostro conforto. Invano avremo fatto qualche buon'azione nell'età provetta, se i nostri primi anni saranno stati macchiati da qualche delitto. Gli ultimi giorni di Agnese sono stati esemplari. Possano dunque espiare le colpe della sua gioventù! I di lei patimenti attuali sono troppo terribili; ma speriamo che le assicureranno il riposo eterno. L'ho lasciata col suo confessore, e con un signore cui desiderava ardentemente di vedere, e ch'è arrivato or ora da Parigi: ardisco lusingarmi che l'aiuteranno a riacquistare la calma, della quale il suo spirito ha tanto bisogno. Durante la sua malattia, essa vi ha rammentata talvolta. Potrebbe darsi ch'ella provasse qualche consolazione nel vedervi. Quando sarà sola andremo a trovarla, se ne avrete il coraggio. Queste scene straziano il cuore, lo confesso; ma è bene abituarvisi, poichè sono molto salutari per l'anima, e ci preparano a quanto dobbiamo soffrire. »

Emilia divenne grave e pensierosa; questo discorso le rammentava le massime del suo buon padre, e sentì il bisogno di piangere nuovamente sulla di lui tomba. Nell'intervallo del silenzio che susseguì le parole della badessa, le tornarono in memoria alcune minute circostanze de' suoi ultimi momenti: la commozione da lui mostrata udendo d'esser vicino al castello di Blangy, la domanda di essere sepolto in un certo luogo del monastero, e l'ordine così positivo di bruciar quelle carte senza leggerle. Si rammentò inoltre le parole orribili e misteriose del manoscritto lette involontariamente, e cui non si ricordava mai senza una penosa curiosità sul senso che potevano avere e sul divieto del padre. Era nonostante contentissima d'avere obbedito ciecamente.

La badessa non disse altro, essendo tanto commossa dal soggetto trattato che non poteva proseguire, e stavano tutte in silenzio per l'egual motivo. La meditazione generale fu poco stante interrotta dall'arrivo di un forestiere. Era esso il signor Bonnac, che usciva in quel punto dalla cella d'Agnese. Pareva assai turbato; ma Emilia credè notare nelle sue espressioni più orrore che dolore. Trasse in disparte la badessa e le parlò per qualche minuto: ella parve star molto attenta: parlava con riflessione e cautela, e mostrava grande interesse. Dopo ch'egli ebbe finito, salutò tutti rispettosamente, e si ritirò. La badessa propose ad Emilia di andare nella camera di suor Agnese; essa vi acconsentì con qualche ripugnanza, e Bianca restò colle educande.

Alla porta della camera, trovarono il confessore, il quale, al loro accostarsi, alzò il capo, ed Emilia riconobbe lo stesso che aveva assistito suo padre; ma egli era astratto, e passò senza osservarla. Entrate nella cella, trovarono suor Agnese distesa sopra una stuoia; presso di lei eravi un'altra monaca. Era essa così cambiata, che Emilia avrebbe difficilmente potuto riconoscerla, se non fosse stata avvertita. La sua fisonomia era tetra ed orribile; gli occhi, infossati e velati, stavan fissi sopra un crocifisso che stringevasi al petto; era così assorta, che da principio non vide nè la badessa, nè Emilia. Finalmente, voltando gli occhi grevi, li fissò con orrore sopra Emilia, sclamando:

« Ah! questa visione mi perseguita fino all'ultimo respiro. »

Emilia indietreggiò spaventata guardando la badessa, che le fece cenno di non temere, e poi disse a suor Agnese: « Figliuola, questa giovine che vi ho condotta è madamigella Sant'Aubert: mi lusingava che l'avreste veduta con piacere. » Agnese non rispose nulla, e considerando Emilia con orribile smarrimento, sclamò: « È dessa. Ah! ell'ha negli sguardi quelle attrattive, che fecero la mia perdita. Che volete? Che cercate? Una riparazione? L'avrete; anzi l'avete già avuta. Quanti anni sono scorsi dacchè non vi ho veduta? Il mio delitto è di ieri; soltanto invecchiai sotto il di lui peso; e voi siete sempre giovine, sempre bella! Bella come all'epoca in cui mi costringeste a quell'esecrabile delitto… Oh! se potessi obliarlo!… Ma a che servirebbe?… Io lo commisi! »

Emilia, estremamente commossa, voleva ritirarsi. La badessa la prese per mano, la incoraggì, e la pregò di aspettare che suor Agnese fosse più tranquilla. Procurò di calmarla, ma la delirante non l'ascoltava, e guardando sempre Emilia, continuò: « A che servono dunque tanti anni d'orazione e di pentimento? No, essi non bastano a lavar la macchia dell'omicidio, sì dell'omicidio. Dov'è egli? dov'è? Guardate, guardate là! s'aggira per questa camera. Perchè venite a turbarmi in questo momento? » ripigliò Agnese, i cui occhi percorrevano lo spazio. « Non son io dunque abbastanza punita? Deh! per pietà, non mi guardate con occhio così severo. Oh cielo! ancora! è dessa! è dessa! Perchè mi guardate con tanta pietà? perchè sorridete? Sorridere a me! Ma qual gemito! udiste?… »

Suor Agnese ricadde, e parve spirare, Emilia, non potendo reggersi s'appoggiò al letto; la badessa e l'assistente s'affrettarono a soccorrere la derelitta. Emilia voleva parlarle.

 

« Zitto, » disse la badessa, « il delirio è finito essa sta alquanto meglio.

– Sorella, è un pezzo che si trova in questo stato?

– Eran parecchie settimane che non aveva avuto un accesso così violento, » rispose la monaca; « ma l'arrivo di quel gentiluomo, che desiderava tanto di vedere, l'ha agitata forte.

– Sì, » ripigliò la badessa, « ed ecco per certo la causa del delirio; quando starà meglio, la lasceremo quieta. »

Emilia acconsentì volentieri; ma benchè fosse di poca utilità, non volle ritirarsi fin quando potè credere d'essere di qualche aiuto.

Quando suor Agnese ebbe ripresi i sensi, guardò ancora Emilia, ma senza smarrimento, e con una profonda espressione di dolore; passarono alcuni minuti prima che potesse parlare, poi disse debolmente: « La somiglianza è maravigliosa! è più che immaginazione riscaldata! Ditemi, ve ne scongiuro, se, malgrado il nome di Sant'Aubert, che voi portate, non siete figlia della marchesa.

– Di qual marchesa? » rispose Emilia attonita. La calma delle maniere d'Agnese le aveva fatto credere al ritorno della sua ragione. La badessa le diè un'occhiata d'intelligenza, ma essa ripetè la domanda.

« Di qual marchesa? » sclamò Agnese; « io ne conosco una sola: la marchesa di Villeroy. »

Emilia, rammentandosi la commozione di suo padre, allorchè gli fu nominata questa dama, e la domanda da lui fatta di esser sepolto presso le tombe de' Villeroy, provò un estremo interesse, e pregò suor Agnese di spiegare i motivi di tale interrogazione. La badessa avrebbe voluto fare uscire Emilia, la quale, troppo interessata, reiterò la domanda con calore.

« Portatemi la mia cassetta, sorella, » disse Agnese, « e vi svelerò tutto. Guardatevi in quello specchio, e lo saprete; voi siete certo sua figlia; altrimenti come spiegare una somiglianza così perfetta? »

La monaca le portò la cassetta; suor Agnese gliela fece aprire, e ne cavò una miniatura, che Emilia riconobbe esattamente somigliante a quella da lei trovata nelle carte di suo padre. Agnese stese la mano per pigliarla, la contemplò qualche tempo in silenzio, poi alzò gli occhi al cielo, e recitò sottovoce un'orazione; quand'ebbe finito, restituì il ritratto ad Emilia. « Tenetelo, » le disse, « ve lo dono, e credo che ne abbiate diritto; la vostra somiglianza mi ha colpito sovente, ma fino a questo momento non aveva turbata tanto la mia coscienza. Ma restate, sorella, » soggiunse, vedendo che l'infermiera volea partire, « non portate via la cassetta; essa contiene un altro ritratto. »

Emilia tremava per l'ansietà, e la badessa volea trascinarla via. « Agnese torna a delirare, le disse; « osservate come vaneggia! Ne' suoi accessi, essa non è più in sentore, e si accusa, come vedete, de' più orribili misfatti. »

La giovane per altro credette scorgere in quel delirio tutt'altro che follia. Il nome della marchesa, il suo ritratto aveano per lei bastante interesse, e risolse di procurarsi maggiori schiarimenti.

La monaca portò indietro la cassetta. Agnese calcò una molla, e scoperto un altro ritratto, lo mostrò dicendo:

« Ecco una lezione per la vanità; guardate questo ritratto, ed osservate se c'è qualche rapporto fra quello ch'io sono e quello che sono stata. »

Emilia s'affrettò a prenderlo; è impossibile descrivere la sorpresa ed il terrore di lei, allorchè riconobbe in esso la perfettissima somiglianza con quello della signora Laurentini, che aveva veduto al castello di Udolfo: di quella dama sparita in modo così misterioso, e che si sospettava fatta perire da Montoni.

Muta e attonita, la giovine guardava alternamente il ritratto e la monaca moribonda, cercando invano una somiglianza che allora non esisteva più.

« Perchè quegli sguardi severi? » disse suor Agnese, non comprendendo la sorpresa di Emilia.

– Ho già veduta questa figura, » disse infine la giovine; « è egli realmente il vostro ritratto?

– Or potete domandarlo, » rispose Agnese; « ma vi accerto che un tempo era somigliantissimo. Guardatemi attenta e vedete l'effetto del delitto!… Allora io era innocente, e le mie sciagurate passioni dormivano ancora. Sorella mia, » soggiunse gravemente, e prendendo nella sua mano fredda ed umida una mano di Emilia, che fremette a quel tocco, « sorella mia, guardatevi bene dal primo movimento delle passioni! Guardatevi dal primo! Se non si arresta il loro corso, esso è rapido; la loro forza non conosce alcun freno: desse ci trascinano ciecamente a delitti, che non possono venir cancellati da lunghi anni di preghiere e di penitenza. È tale l'impero d'una passione, che domina tutte le altre, e s'impadronisce di tutte le vie del cuore; è una furia che ci rende insensibili alla pietà e alla coscienza, e quando il suo scopo è compiuto, furia sempre più spietata e crudele, ci abbandona per nostro tormento a tutti quei sentimenti che aveva sospesi, ma non soffocati, ai supplizi della coscienza, del rimorso e della disperazione. Ci svegliamo come da un sogno: siamo circondati da un nuovo mondo attoniti e spaventati; ma il delitto è commesso. Il potere riunito del cielo e della terra non può annientarlo, ed i fantasmi ci perseguitano. Cosa sono le ricchezze, la salute e la grandezza, in confronto dell'inestimabil vantaggio di una coscienza pura, in confronto della salute dell'anima? Cosa sono gli affanni della povertà, del disprezzo e della miseria, in confronto dell'angoscia d'una coscienza in preda ai rimorsi? Oh! quanto tempo è scorso da che ho perduto la pace dell'innocenza. Ho gustato ciò che chiamavasi dolcezza della vendetta; ma quanto è passaggiera! Ella spira col di lei oggetto. Rammentatevene, sorella mia, le passioni sono il germe del vizio, come quello della virtù; ambedue possono essere il risultato: ciò dipende dalla maniera di governarle, e guai a coloro che non hanno mai imparato quest'arte tanto necessaria.

– Sventurato colui, » disse la badessa, « che conosce male la nostra santa religione! »

Emilia ascoltava Agnese in silenzio e con rispetto: considerava la miniatura, e si accertava della somiglianza del ritratto con quello veduto a Udolfo.

« Questa figura non mi è ignota, » diss'ella per far ispiegare la monaca.

– Voi v'ingannate, » rispose suor Agnese, « e non l'avete mai certamente veduta.

– No, » soggiunse Emilia; « ma ho veduto la sua perfetta somiglianza.

– È impossibile, » disse suor Agnese, che ora potremo chiamare la signora Laurentini.

– Era nel castello di Udolfo, » continuò Emilia, guardandola fiso.

– Di Udolfo! » esclamò la signora Laurentini « di Udolfo in Italia?

– Precisamente, » rispose Emilia.

– Allora voi mi conoscete, e siete la figlia della marchesa. »

Emilia stupefatta da quella positiva asserzione, rispose:

« Io son figlia di Sant'Aubert, e la dama che voi nominate mi è affatto estranea.

– Voi lo credete? » rispose la Laurentini.

Emilia le domandò per qual motivo pensasse il contrario.

« La vostra somiglianza, » disse la monaca. « È noto che la marchesa era molto affezionata ad un gentiluomo di Guascogna, quando sposò il marchese per obbedire a suo padre. Donna infelice! »

Emilia, rammentandosi l'eccessiva commozione di Sant'Aubert al nome della marchesa, avrebbe provato allora un sentimento ben diverso dalla sorpresa, se avesse conosciuto meno la probità del padre. Il rispetto che aveva per lui non le permise di fermarsi alla supposizione che le insinuava la Laurentini; la sua curiosità però crebbe a dismisura, e la scongiurò di spiegarsi più chiaramente.

« Non mi sollecitate a tal proposito, » rispose la monaca; « è troppo terribile per me: potessi cancellarlo per sempre dalla memoria! »

Sospirò profondamente, e chiese alla giovine in qual modo avesse saputo il suo nome.

« Dal ritratto che vidi ad Udolfo e dalla somiglianza di questa miniatura.

– Voi dunque siete stata nel castello di Udolfo? » disse la monaca con estrema emozione. « Quali scene mi rammenta quel luogo! Scene di felicità, di patimenti e d'orrore! »

In quel punto, il terribile spettacolo veduto da Emilia in una camera del castello le tornò alla memoria; guardando la signora Laurentini, si rammentò le ultime parole di lei, che la macchia d'un assassinio non poteva esser lavata da molti anni d'orazione e di penitenza, e si vide costretta di attribuirle a tutt'altra causa che al delirio: provò un orrore inesprimibile sembrandole di vedere un'omicida… ed infatti, tutta la condotta della Laurentini confermava questa supposizione; Emilia si perdè in un abisso di congetture, e non sapendo in qual modo chiarire simili dubbi, disse soltanto con parole tronche:

« La vostra improvvisa partenza da Udolfo… » La monaca sospirò. « Tutte le voci che corrono, » continuò Emilia… « la camera di ponente… quel velo di lutto… l'oggetto ch'esso cuopre, quando i misfatti son compiuti… » La monaca sclamò: « Come! ancora? » E cercando di sollevarsi, gli smarriti suoi sguardi parean discernere un oggetto. « Risorgere dalla tomba! Come! sangue e sangue sempre… Non ci fu sangue; tu non puoi dirlo… Oh! non sorridere, non sorridere con quel piglio pietoso… »

La Laurentini cadde in convulsioni: Emilia, incapace di reggere più a lungo ad una tale scena, fuggì dalla camera, ed andò a raggiungere Bianca e le educande ch'erano nel parlatorio. Le si affollarono tutte intorno, e spaventate dal terrore che ella manifestava, le fecero mille domande. Essa evitò di rispondervi, aggiungendo solo che suor Agnese era in agonia. Un quarto d'ora dopo furono informate che stava un poco meglio. La badessa comparve di lì a poco, e pregò Emilia di tornar da lei il giorno dipoi, giacchè aveva una cosa di qualche importanza da comunicarle. La giovane glielo promise, e se ne tornò al castello con Bianca. Cammin facendo, videro Dupont che parlava col forestiero veduto al monastero. Allorchè furono ad essi vicino, il forestiero si congedò, ed egli tornò al castello.

Villefort, udendo nominare Bonnac, disse che lo conosceva da lunga pezza; seppe il tristo oggetto del suo viaggio, ed avendo inteso ch'era alloggiato in un'osteria del paese poco distante, pregò l'amico di andar a cercarlo perchè venisse ad abitare al castello. Dupont vi si prestò con piacere; Bonnac accettò l'invito. Il conte colle sue attenzioni ed Enrico col suo brio fecero di tutto per dissipar la tristezza che sembrava opprimere il loro nuovo ospite. Bonnac era un uffiziale al servizio francese, dell'età di circa cinquant'anni, alto di statura, di nobile portamento, affabile di maniere, e di fisonomia interessantissima. Il di lui volto, che pareva essere stato bello, portava un'impronta malinconica che sembrava provenire da lunghi affanni, anzichè da disposizione naturale.

Si separarono subito dopo cena. Quando Emilia si fu ritirata nella sua camera, le scene di cui era stata testimone se le presentarono nuovamente con orribile energia. Aver trovato in una monaca moribonda la signora Laurentini! Colei che, in vece d'essere stata vittima di Montoni, sembrava anzi rea ella stessa d'un delitto abominevole! Ciò era per lei un gran soggetto di sorpresa e di meditazione. I discorsi fatti sul matrimonio della marchesa, e tutte le sue interrogazioni sulla nascita di Emilia, erano proprie ad ispirare a chiunque sorpresa ed interesse.

L'istoria di suor Agnese, raccontata da suor Francesca, diveniva evidentemente falsa; ma qual potesse essere stato il motivo per cui era stata immaginata, Emilia non sapeva indovinarlo. Quanto poi eccitava maggiormente la di lei curiosità, era la relazione che la marchesa di Villeroy poteva aver avuto col di lei padre. La dolorosa sorpresa dimostrata da Sant'Aubert nell'udirne pronunziare il nome, la domanda da lui fatta d'essere sepolto vicino a lei, e il ritratto di quella dama trovato fra le sue carte, provavano esservi stato qualche rapporto fra loro. Talvolta Emilia pensava che il padre potesse essere stato l'amante preferito dalla marchesa, quando fu costretta di sposare Villeroy; ma non poteva persuadersi ch'egli avesse conservata la sua passione dopo quel matrimonio. Non dubitava però quasi più che le carte, di cui suo padre avevale ordinata la distruzione, non fossero relative alla marchesa, e se fosse stata meno certa dei rigidi principii di Sant'Aubert, avrebbe creduto che il mistero della sua nascita fosse andato sepolto colle ceneri di quei manoscritti. Queste riflessioni l'occuparono gran parte della notte; il sonno le rappresentava del continuo la monaca moribonda, e si svegliò piena d'idee lugubri.

Alla mattina, si sentì troppo indisposta per andare a trovar la badessa, e verso mezzogiorno seppe che suor Agnese aveva pagato il tributo alla natura. Bonnac ne ricevè la nuova con dispiacere, ma Emilia osservò ch'egli sembrava meno afflitto del giorno precedente: questa morte senza dubbio l'affliggeva meno della confessione statagli fatta. Comunque fosse, egli era fors'anco un po' consolato pe' legati statigli fatti. La di lui famiglia era numerosa; le stravaganze d'un suo figliuolo l'avevano piombato in un abisso d'affanni, e gettato perfino in carcere. Il dolore che gli cagionava la condotta sconsiderata di questo figlio, le spese e la rovina che ne fu la conseguenza, avevangli dato quell'impressione di tristezza notata da Emilia. Raccontò dettagliatamente a Dupont tutte le sue disgrazie. Egli era stato per molti mesi in prigione a Parigi, senza speranza, per così dire, di uscirne, e trovandosi privo dei conforti della moglie, che, in una provincia lontana, tentava invano di muovere gli amici in suo favore. Infine essa andò a trovarlo: ottenne di entrare nel carcere, ma il cambiamento sensibilissimo in cui gli affanni e la prigionia avevano piombato il suo marito, l'accorò a segno, che ammalò gravemente.

 

« La nostra situazione, » continuò Bonnac, « commosse tutti quelli che n'erano stati testimoni. Un amico generoso, allora mio compagno di sventura, ottenne di lì a poco la libertà, ed il primo uso che ne fece, fu quello di tentare la mia. Vi riuscì; la somma enorme ond'io era debitore fu pagata, e quando volli esprimere la mia gratitudine al mio benefattore, egli era già lungi da me. Io dubito molto che la sua generosità abbia cagionata la sua perdita, e sia ricaduto egli stesso in quei ferri, dai quali mi ha liberato. Per quante ricerche ne abbia fatte, non ho mai potuto saper nulla del suo destino. Amabile ed infelice Valancourt!

– Valancourt! » sclamò Dupont, « di qual famiglia?

– Valancourt dei conti Duverney, » rispose Bonnac.

È impossibile descrivere l'emozione di Dupont quando scoprì nel rivale il benefattore del suo amico. Dopo il primo moto di sorpresa, dissipò le inquietudini di Bonnac, facendogli sapere che Valancourt era in libertà, e trovavasi in Linguadoca. La sua passione per Emilia lo strinse in seguito a fare alcune domande sulla condotta del suo rivale a Parigi. Bonnac ne pareva bene informato; le di lui risposte lo convinsero appieno che Valancourt era stato calunniato, e per quanto doloroso fosse il suo sacrifizio, formò il progetto di riunire Emilia all'amante, non parendogli ora più indegno dei sentimenti ch'essa serbava per lui.

Bonnac raccontò che Valancourt, entrando nel gran mondo, era caduto nei lacci statigli tesi dal vizio e dall'impudenza; passava tutto il tempo fra una marchesa dissoluta ed il giuoco, ove l'ingordigia e l'avarizia de' suoi compagni avevano saputo trascinarlo. Aveva perduto somme vistose colla speranza di riguadagnarne piccole, ed erano appunto queste le perdite delle quali Villefort e Enrico erano stati sovente testimoni. Il conte suo fratello, irritato da tale condotta, ricusò di fargli rimesse rilevanti per soddisfare ai suoi debiti. Valancourt fu dunque imprigionato ad istanza de' creditori, ed il fratello ve lo lasciò per qualche tempo, sperando che un tal castigo avrebbe corretto i suoi costumi, tanto più non avendo avuto il tempo materiale per abituarsi radicalmente al vizio ed alla dissolutezza.

Nell'ozio del carcere, Valancourt ebbe campo di riflettere, e si pentì. La memoria di Emilia, indebolita dalle sue dissipazioni ma sempre presente al suo cuore, si rianimò con tutte le grazie dell'innocenza e della bellezza; sembravagli lo rimproverasse di sacrificare la sua felicità ed i suoi talenti ad occupazioni vergognose e detestabili. Le sue passioni erano vive, ma il cuore non era corrotto; l'abitudine non l'aveva stretto nelle catene del vizio, e dopo molti sforzi e lunghi patimenti spezzò i lacci della seduzione.

Liberato finalmente per cura del conte suo fratello, e impietosito dalla scena commovente dei coniugi Bonnac, ond'era stato testimonio, il primo uso che fece della sua libertà fu al tempo istesso un esempio d'umanità e di temerità; arrischiò, in una casa da giuoco, quasi tutto il denaro mandatogli dal fratello, coll'unica speranza di restituire ai voti della sua famiglia l'amico infelice lasciato in prigione. La fortuna lo favorì, ma colse tal momento per fare il voto solenne di non ceder mai più alle allettative di quel vizio rovinoso.

Dopo aver ridonato il venerabile Bonnac alla sua riconoscente famiglia, Valancourt era ripartito per Estuvière. Nell'entusiasmo suo di aver reso la felicità a quell'infelice, obliò i propri mali. Si avvide però ben presto di aver perduta tutta la sua sostanza, senza della quale non poteva mai lusingarsi di sposare Emilia. La vita, senza di lei, gli pareva insopportabile. La sua bontà e delicatezza, e la semplicità del suo cuore, ne rendevano la bellezza vie più incantevole. L'esperienza avevagli insegnato ad apprezzare le qualità che aveva sempre ammirate, ma che il contrasto del mondo facevagli allora adorare. Queste riflessioni accrebbero i suoi rimorsi ed il suo rammarico. Cadde in un abbattimento, che non potè essere distratto neppure dalla presenza di Emilia, e si conobbe indegno di lei. In alcun tempo però Valancourt non aveva subìto l'ignominia della liberalità della marchesa di Campoforte, come aveva creduto Villefort, nè partecipato mai alle astuzie colpevoli de' giuocatori. Questi rapporti erano stati fatti da coloro che si compiaciono di avvilire l'infelice. Il conte avevali avuti da una persona distinta, e l'imprudenza di Valancourt era bastata per confermarli. Emilia non glie ne aveva parlato particolarmente, e per conseguenza non aveva potuto giustificarsi; ed allorquando le confessò che non meritava più la sua stima, non avrebbe mai creduto di appoggiare egli stesso un'infame calunnia. L'errore era stato reciproco, e non erasi presentata fino allora l'occasione di rettificarlo.

Quando Bonnac ebbe spiegata la condotta di un amico generoso, ma giovine ed imprudente, Dupont, severo, ma giusto, decise tosto che bisognava disingannare il conte e rinunziare ad Emilia. Un sacrificio come quello che faceva allora il suo amore, meritava una nobile ricompensa; e se Bonnac avesse potuto obliare il benefico Valancourt, avrebbe desiderato che Emilia accettasse la mano di Dupont.

Appena il conte ebbe riconosciuto il suo errore, fu afflittissimo delle conseguenze della sua credulità. I dettagli di Bonnac sulla condotta del suo benefattore a Parigi lo convinsero che Valancourt aveva ceduto agli artifizi del libertinaggio, più per l'occasione di trovarsi co' compagni, che per inclinazione al vizio. Incantato dell'umanità generosa, quantunque temeraria, che mostrava il suo procedere verso Bonnac, ne obliò i falli passaggieri, e riprese per lui quella stima che avevagli inspirata la sua prima conoscenza. La più lieve soddisfazione che potesse accordare a Valancourt, era quella di procurargli il modo di spiegarsi con Emilia. Gli scrisse dunque immediatamente, pregandolo di perdonargli un'offesa involontaria, e l'invitò a recarsi subito a Blangy. La delicatezza del conte lo fece astenere dall'informare Emilia di questa lettera, e siffatta precauzione preservò la fanciulla da un affanno ancor più terribile di quello avesse creduto il conte, ignorando egli i sintomi della disperazione di Valancourt.

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