Destino Di Draghi

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Из серии: L’Anello Dello Stregone #3
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Destino Di Draghi
Destino Di Draghi
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Читает Edoardo Camponeschi
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“Alistair,” rispose lei umilmente.

“Alistair,” ripeté Erec. Era il nome più bello che avesse mai udito.

“Ma non vedo a cosa possa servirle saperlo,” aggiunse lei sottovoce, sempre guardando il pavimento. “Voi siete un Lord. E io non sono che una serva.”

“La mia serva, per essere precisi,” disse il locandiere, facendo un passo avanti, arcigno. “È vincolata a me. Ha firmato un contratto, anni fa. Ha promesso sette anni. In cambio le dò cibo e alloggio. È qui da tre anni. Quindi potete vedere che è tutta una perdita di tempo. È mia. La possiedo. Non me la porterete via. È mia. Avete capito?”

Erec provava per quel locandiere un odio mai provato per altri uomini. Da una parte avrebbe voluto sguainare la sua spada e colpirlo dritto al cuore per farla finita. Ma per quanto quell’uomo se lo meritasse, Erec non aveva intenzione di infrangere la legge del Re. Del resto le sue azioni si riflettevano sul Re.

“La legge del Re è la legge del Re,” disse Erec all’uomo, con tono fermo. “Non ho intenzione di infrangerla. Detto questo, domani avranno inizio i tornei. E sono autorizzato, come ogni altro uomo, a scegliere la mia sposa. E sia detto qui ed ora che la mia scelta è Alistair.”

Un sussultò scorse per la stanza, mentre tutti si voltavano a guardarsi l’un l’altro, scioccati.

“Cioè,” aggiunse Erec, “se lei acconsente.”

Erec guardò Alistair, il cuore che gli batteva nel petto, mentre lei teneva lo sguardo al pavimento. Poteva vedere che stava arrossendo.

“Lo consenti, mia signora?” le chiese.

Tutti fecero silenzio.

“Mio signore,” disse lei con dolcezza, “tu non sai chi io sia, o da dove io venga, o perché io sia qui. E temo ci siano cose che non posso raccontarti.”

Erec la fissò confuso.

“Perché non puoi raccontarmele?”

“Non ho mai raccontato niente a nessuno dal mio arrivo. Ho fatto un giuramento.”

“Ma perché?” insistette lui, curioso.

Ma Alistair rimase con gli occhi bassi, in silenzio.

“È vero,” si intromise una delle altre servitrici. “Questa qui non ci ha mai raccontato chi è. O perché si trova qui. Non vuole dircelo. Abbiamo provato per anni a convincerla.”

Erec si sentiva profondamente confuso da Alistair, ma questo non faceva che accrescere il mistero che aleggiava attorno a lei.

“Se non posso sapere chi sei, allora non lo voglio sapere,” disse Erec. “Rispetto il tuo giuramento. Ma questo non cambia i miei sentimenti per te. Mia signora, chiunque tu sia, se dovessi vincere questi tornei, allora ti sceglierò come mio premio. Tu fra tutte le donne di questo regno. Te lo chiedo di nuovo: acconsenti?”

Alistair tenne gli occhi fissi al terreno, e mentre Erec la guardava, vide delle lacrime scorrerle lungo le guance.

Improvvisamente lei si voltò e fuggì dalla stanza, correndo fuori e chiudendosi la porta alle spalle.

Erec rimase lì insieme agli altri in un silenzio di sorpresa. Non aveva idea di come interpretare quella reazione.

“Allora lo vedi che stai sprecando il tuo tempo, e il mio?” disse il locandiere. “Ha detto di no. Andatevene quindi.”

Erec gli lanciò uno sguardo torvo.

“Non ha detto di no,” si intromise Brandt. “Non ha proprio risposto.”

“Ha il diritto di prendersi il suo tempo,” disse Erec in sua difesa. “Del resto ci sono molte considerazioni da fare. Neanche lei mi conosce.”

Erec rimase lì, dibattuto sul da farsi.

“Resterò qui questa notte,” annunciò alla fine. “Mi darai una stanza per la notte, nello stesso corridoio della sua. Domani mattina, prima che il torneo abbia inizio, glielo chiederò di nuovo. Se acconsentirà, e se vincerò, sarà la mia sposa. Se andrà così, ripagherò la sua servitù da voi e partiremo insieme da questo luogo.”

Era evidente che l’oste non voleva Erec sotto il suo tetto, ma non osò dire nulla. Si voltò e corse fuori dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle.

“Sei sicuro di voler rimanere qui?” chiese il Duca. “Torna al castello con noi.”

Erec annuì con estrema serietà.

“Non sono mai stato tanto sicuro di qualcosa in vita mia.”

CAPITOLO OTTO

Thor precipitò fendendo l’aria, tuffandosi di testa nelle acque turbolente del Mare del Fuoco. Vi sprofondò immergendosi totalmente, sorpreso dal fatto che l’acqua fosse calda.

Al di sotto della superficie Thor aprì un attimo gli occhi, pentendosene all’istante. Ebbe la fuggevole visione di strane e orribili creature marine, alcune grandi altre piccole, con musi insoliti e grotteschi. Era un oceano infestato. Thor pregò che non lo attaccassero prima che potesse raggiungere la barca a remi mettendosi in salvo.

Risalì in superficie boccheggiando e si guardò subito attorno alla ricerca del ragazzo che stava annegando. Lo scorse giusto in tempo: si agitava mentre affondava e se fosse rimasto lì ancora qualche momento sarebbe sicuramente annegato.

Thor gli si avvicinò e lo afferrò da dietro prendendolo da sotto le spalle, poi continuò a nuotare con lui tenendogli la testa sopra la superficie dell’acqua come la sua. Thor udì un guaito e un lamento, e quando si voltò si stupì di vedere Krohn: doveva aver saltato dietro di lui. Il leopardo gli nuotava accanto, spruzzando Thor di acqua e gemendo. Thor era straziato dal fatto che Krohn si dovesse trovare in una situazione così pericolosa a causa sua, ma aveva le mani occupate e c’era ben poco che potesse fare.

Cercò di non guardarsi in giro, di non osservare quelle acque vorticanti e rosse e di non badare alle strane creature che affioravano e poi scomparivano tutt’attorno a lui. Un’orrenda creatura, viola e con quattro zampe e due teste, comparve accanto a lui, gli soffiò e poi scomparve facendolo trasalire.

Thor si voltò e vide la barca a remi a una ventina di metri da loro, quindi nuotò freneticamente usando l’unico braccio libero e le gambe, sempre trascinando il ragazzo. Questo si agitava e gridava, facendo resistenza, e Thor temette che lo facesse annegare con sé.

“Stai fermo!” gli gridò duramente, sperando che il ragazzo lo ascoltasse.

Finalmente il giovane si arrese. Thor provò un momentaneo sollievo, fino a che udì un rumore nell’acqua che lo indusse a voltarsi: proprio accanto a lui era emersa un’altra creatura, piccola, con la testa gialla e quattro tentacoli. Aveva la testa quadrata e nuotava proprio verso di lui, ringhiando e agitandosi. Sembrava un serpente a sonagli proveniente dal mare, a parte per la testa troppo squadrata. Thor si preparò mentre il mostro si avvicinava, pronto ad essere colpito, ma poi improvvisamente la creatura aprì la bocca e gli sputò addosso acqua marina. Thor strizzò gli occhi, cercando di eliminare l’acqua.

La creatura continuò a nuotare loro attorno, disegnando dei cerchi, e Thor raddoppiò i suoi sforzi nuotando più velocemente e cercando di allontanarsi.

Stava effettivamente procedendo bene, avvicinandosi alla barca, quando improvvisamente un’altra bestia emerse dall’altro lato. Era lunga, stretta e arancione, con due zanne nella bocca e decine di piccole gambe. Aveva anche una lunga coda che usava come una frusta agitandola in ogni direzione. Sembrava un’aragosta in posizione eretta. Procedeva a pelo d’acqua come un insetto d’acqua e avanzava verso Thor piegandosi di lato e agitando la coda. Colpì il braccio di Thor e lui gridò per il dolore.

La creatura sfrecciava avanti e indietro, continuando a lanciare codate. Thor avrebbe voluto sguainare la propria spada e attaccare quella bestia, ma aveva solo una mano libera e doveva nuotare.

Krohn, che gli nuotava accanto, si voltò e ringhiò alla bestia, un rumore da far rizzare i capelli, tanto che spaventò il mostro che scomparve sotto la superficie dell’acqua. Thor tirò un sospiro di sollievo, fino a che la creatura improvvisamente ricomparve dall’altra parte, colpendolo un’altra volta. Krohn si voltò e iniziò a inseguirla, cercando di prenderla schioccando i denti senza mai riuscire ad acciuffarla.

Thor continuò a nuotare, rendendosi conto che l’unico modo per mettersi in salvo era uscire da quel mare. Dopo un tempo che sembrò interminabile, nuotando più veloce di quanto avesse mai potuto, riuscì ad avvicinarsi alla barca a remi che oscillava violentemente tra le onde. Appena la raggiunse, due membri della Legione, ragazzi più grandi che mai avevano rivolto la parola a Thor e ai suoi amici, si prodigarono per aiutarlo. A loro onore si piegarono in avanti e gli porsero la mano.

Thor aiutò prima il ragazzo, allungando le braccia e spingendolo verso la barca. I ragazzi l’afferrarono per le braccia e lo trascinarono a bordo.

Thor prese poi Krohn e lo tirò fuori dall’acqua facendo salire anche lui sulla barca. Krohn grattò il pianale della barca con gran rumore con tutte e quattro le zampe, gocciolante e scrollandosi l’acqua di dosso. Scivolò sul fondale umido, passando da una parte all’altra dell’imbarcazione. Poi si ritirò in piedi, si voltò e corse verso il bordo per cercare Thor. Guardò verso l’acqua e guaì.

Thor afferò la mano di uno dei ragazzi e proprio mentre si stava tirando sulla barca sentì improvvisamente qualcosa di forte e muscoloso che gli si attorcigliava attorno alla gamba dalla caviglia alla coscia. Si voltò per guardare in basso e rimase pietrificato alla vista di una creatura verdognola simile a un calamaro che lo aveva afferrato con uno dei suoi tentacoli.

Thor gridò di dolore avvertendo degli aculei che gli perforavano la carne.

Si rese conto che se non avesse fatto qualcosa velocemente, per lui sarebbe finita. Portò la mano libera alla cintura, estrasse il pugnale corto e colpì il tentacolo. Ma era troppo spesso e il pugnale non riuscì neanche a intaccarlo.

Ma il gesto fece arrabbiare il mostro: la sua testa improvvisamente emerse, verde, senza occhi e con due mandibole sul lungo collo, una sopra l’altra. La bestia aprì le sue file di denti affilati e si chinò verso Thor. Thor sentiva il sangue che gli scorreva dalla gamba e capì che doveva agire velocemente. Nonostante gli sforzi del ragazzo che stava cercando di tenerlo e tirarlo su, la presa di Thor stava scivolando e lui stava ridiscendendo verso l’acqua.

 

Krohn continuava a mugolare, il pelo della schiena ritto, piegato in avanti come fosse pronto a saltare in acqua. Ma addirittura Krohn sapeva che sarebbe stato inutile attaccare quella cosa.

Uno dei ragazzi più grandi si fece avanti e gridò:

“ABBASSATI!”

Thor abbassò la testa mentre il ragazzo tirava la lancia. Fendette l’aria ma mancò il bersaglio, volando innocua e andando ad affondare nell’acqua. La creatura era troppo stretta e troppo veloce.

Improvvisamente Krohn saltò dalla barca ributtandosi in acqua e atterrando con le fauci aperte e i denti digrignati sul retro del collo della creatura. Krohn ruotò e scosse la bestia a destra e a sinistra, senza mai lasciare la presa.

Ma era una battaglia inutile: la pelle del mostro era troppo spessa e le fibre troppo muscolose. Sbatté Krohn da una parte e dall’altra fino a farlo volare in acqua. Nel frattempo strinse la presa sulla gamba di Thor: il ragazzo sentiva che l’ossigeno gli stava venendo a mancare. I tentacoli bruciavano da morire e aveva l’impressione che la gamba gli si stesse per staccare dal corpo.

Con un ultimo disperato tentativo Thor lasciò andare la mano del ragazzo e con un unico movimento ruotò su se stesso raggiungendo la spada che gli stava appesa alla cintura.

Ma non riuscì ad afferrarla in tempo: scivolò e ruotò, cadendo di faccia nell’acqua.

Si sentì trascinare via, lontano dalla barca: la creatura lo stava trascinando nel mare. Lo tirò all’indietro, sempre più veloce, e mentre lui cercava di allungare le mani senza risultato, vedeva l’imbarcazione che scompariva davanti a lui. Subito dopo si sentì trascinare verso il basso, sotto la superficie dell’acqua, giù nel profondo del Mare del Fuoco.

CAPITOLO NOVE

Gwendolyn correva in un prato e suo padre, MacGil, era acccanto a lei. Lei era più giovane, aveva forse dieci anni, e anche suo padre appariva piuttosto giovane. Aveva la barba corta, senza alcun segno del grigio che sarebbe poi comparso più avanti negli anni, e la sua pelle era liscia, senza rughe, fresca, splendente. Era felice, spensierato, e rideva di gusto mentre lei gli teneva la mano e insieme attraversavano il prato di corsa. Era questo il padre che ricordava, il padre che conosceva.

Lui la sollevò e se la mise in spalla, facendola girare più volte, ridendo sempre più forte e facendo morire anche lei dalle risate. Si sentiva al sicuro tra le sue braccia e voleva che quel momento non finisse mai.

Ma quando suo padre la mise giù, accadde qualcosa di strano. Improvvisamente la giornata passò da pomeriggio assolato a crepuscolo. Quando i piedi di Gwen toccarono terra, non si trovava più tra i fiori del prato, ma nel fango che le saliva fino alle caviglie. Ora suo padre giaceva nel fango, supino ad un passo da lei – più vecchio, molto più vecchio, troppo vecchio – ed era bloccato. Poco più in là, sempre nel fango, c’era la sua corona che luccicava.

“Gwendolyn,” rantolò MacGil. “Figlia mia. Aiutami.”

Sollevò una mano dal fango allungandola verso di lei, disperato.

Lei si sentì pervasa dall’urgenza di soccorrerlo e tentò di avvicinarsi a lui e afferrargli la mano. Ma i suoi piedi non volevano saperne di spostarsi. Abbassando lo sguardo vide che il fango si stava indurendo tutt’attorno a lei, diventando secco e scricchiolando. Lei oscillò e si dimenò cercando di liberarsi.

Sbatté gli occhi e si ritrovò in piedi sul parapetto del castello a guardare in basso, verso la Corte del Re. C’era qualcosa che non andava: mentre osservava non vide il solito splendore e gli abituali festeggiamenti: ora c’era un cimitero che si allargava a macchia d’olio. Dove una volta c’era lo sfavillante splendore della Corte del Re, ora c’erano tombe appena scavate che si estendevano a perdita d’occhio.

Udì un rumore di passi e il cuore le si fermò un momento quando voltandosi vide un assassino: indossava un mantello nero con cappuccio e si avvicinava a lei. Le corse incontro tirandosi giù il cappuccio e mostrando un volto grottesco, senza un occhio e una spessa cicatrice frastagliata che gli tagliava l’orbita. L’uomo ringhiò, alzò una mano che stringeva un pugnale luccicante, l’elsa di un rosso vivo.

L’assassino si muoveva troppo velocemente e lei non riuscì a reagire in tempo. Quindi si preparò sapendo che stava per essere uccisa, mentre lui abbassava il pugnale con piena forza.

Si fermò all’improvviso, a pochi centimetri dal volto di Gwen, e lei aprì gli occhi per vedere suo padre che si trovava lì: un cadavere che teneva il polso dell’uomo fermo a mezz’aria. Strinse la mano dell’uomo fino a che questi non lasciò cadere il pugnale, poi lo tirò per le spalle e lo gettò giù dal parapetto. Gwen udì le sue grida mentre precipitava.

Suo padre si voltò a guardarla, le strinse con fermezza le spalle con le proprie mani decomposte e la guardò con espressione severa.

“Non sei al sicuro qui,” la mise in guardia. “Non sei al sicuro!” gridò, le dita che le affondavano nelle spalle con troppa forza, facendola gridare.

Gwen si svegliò urlando, si mise a sedere sul letto e si guardò attorno nella propria stanza aspettandosi di vedere un aggressore.

Ma non percepì altro che silenzio, lo spesso e quieto silenzio che precedeva l’alba.

Sudando e respirando affannosamente saltò dal letto, indosso la propria vestaglia e si mise a camminare per la stanza. Andò velocemente a un piccolo catino di pietra e si sciacquò ripetutamente il volto con l’acqua. Si piegò contro il muro, sentì la pietra fresca sui piedi nudi in quella calda mattinata estiva, e cercò di ricomporsi.

Quel sogno era stato troppo reale. Sentiva che era più di un sogno: si trattava di un vero avvertimento da parte di suo padre, un messaggio. Sentì l’urgente bisogno di lasciare la Corte del Re, proprio in quel momento, e non tornare mai più.

Sapeva che era una cosa che non poteva fare. Doveva riprendersi, recuperare la propria lucidità. Ma ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva il volto di suo padre, sentiva il suo avvertimento. Doveva fare qualcosa per scrollarsi quel sogno di dosso.

Gwen guardò fuori e vide il primo sole che stava giusto iniziando a salire, e pensò all’unico posto che l’avrebbe potuta aiutare a rimettersi in sesto: il Fiume del Re. Sì, era lì che doveva andare.

*

Gwendolyn si immerse più di una volta nell’acqua gelata del Fiume del Re, tenendosi il naso e mettendo la testa sott’acqua. Sedeva nella piccola vasca naturale intagliata nella roccia, nascosta tra le cascate: un luogo che frequentava da quando era bambina. Tenne la testa sott’acqua e rimase lì per un po’ sentendo le correnti fredde che le scorrevano tra i capelli, sulla nuca, sentendo che le lavavano e detergevano il corpo nudo.

Aveva trovato quel luogo appartato un giorno, nascosto nel mezzo di una macchia d’alberi, in alto sulla montagna: una piccola pianura dove la corrente del fiume rallentava e creava una pozza profonda e quieta. Sopra di lei il fiume scendeva in una cascata e così faceva anche più sotto: solo lì, in quella piana, le correnti si fermavano. La pozza era profonda, le rocce lisce e il posto così ben nascosto che Gwen poteva fare il bagno nuda senza preoccupazioni. In estate andava lì quasi ogni giorno al sorgere del sole, per schiarirsi le idee. Soprattutto in giornate come quella, quando i sogni la perseguitavano, come spesso accadeva, quel luogo era il suo rifugio.

Era difficile per Gwen capire se quello fosse stato solo un sogno o piuttosto qualcosa di più. Come poteva capire se un sogno era un messaggio, un presagio? Capire se fosse solo la sua mente che le giocava degli scherzi o se le era stata data la possibilità di agire?

Gwendolyn tornò in superficie per respirare, inalando nel calore della mattinata estiva e ascoltando i cinguettii degli uccelli tutt’attorno a lei tra gli alberi. Si appoggiò a una roccia, il corpo immerso fino al collo, seduta su un ripiano naturale della roccia, riflettendo. Si spruzzò il volto con l’acqua, poi fece passare le mani tra i lunghi capelli color fragola. Abbassò lo sguardo ad osservare l’acqua che rifletteva il cielo, il secondo sole che già iniziava a sorgere, gli alberi che si protendevano verso l’acqua e il suo stesso volto. I suoi occhi a forma di mandorla, blu e brillanti, la fissavano dal riflesso che si increspava. Poteva scorgere in essi qualcosa di suo padre. Distolse lo sguardo ripensando al sogno.

Sapeva che era pericoloso per lei rimanere alla Corte del Re con l’assassino di suo padre, con tutte le spie, tutti gli intrighi, e soprattutto con Gareth come Re. Suo fratello era imprevedibile. Vendicativo. Paranoico. E molto, molto geloso. Vedeva tutti come una minaccia, soprattutto lei. Qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere. Sapeva di non essere al sicuro lì. Nessuno lo era.

Ma non aveva intenzione di fuggire. Aveva bisogno di sapere con certezza chi fosse l’assassino di suo padre, e se si trattava di Gareth, non poteva andarsene fino a che non lo avesse consegnato alla giustizia. Sapeva che lo spirito di suo padre non avrebbe avuto pace fino a che non avessero catturato chiunque l’avesse ucciso. La giustizia era stata il suo primo comando per tutta la vita e lui fra tutti meritava di avere giustizia per se stesso nella morte.

Gwen ripensò all’incontro tra lei e suo fratello Godfrey e Steffen. Era certa che Steffen stesse nascondendo qualcosa, e si chiese cosa potesse essere. Una parte di lei sentiva che lui avrebbe potuto aprirsi a suo tempo. Ma cosa avrebbero fatto se non fosse successo? Sentiva l’urgenza di trovare l’assassino di suo padre, ma non sapeva dove altro cercare.

Alla fine si alzò dalla sua postazione immersa nell’acqua, saltò a riva, tremando nell’aria della mattina e si portò dietro a un albero per raccogliere il suo asciugamano da un ramo come sempre faceva.

Ma quando giunse all’albero si accorse scioccata che l’asciugamano non era lì. Rimase impietrita, nuda e bagnata senza capire. Era certa di averlo appeso lì come sempre.

Mentre stava lì confusa, tremando e cercando di capire cosa potesse essere successo, improvvisamente sentì un movimento alle sue spalle. Accadde velocemente, un movimento fulmineo, e un istante dopo il cuore le balzò in gola quando comprese che c’era un uomo dietro di lei.

Accadde tutto troppo in fretta. In un secondo l’uomo, che indossava un mantello nero con un cappuccio, proprio come nel suo sogno, la afferrò e le mise una mano ossuta sulla bocca, impedendole così di gridare. Con l’altro braccio la tenne per la vita stringendola a sé e spingendola a terra.

Lei scalciò e tentò di gridare, ma lui la mise a terra sempre tenendola stretta. Gwen cercò di liberarsi da quella morsa, ma l’uomo era troppo forte. Vide che teneva un coltello dall’impugnatura rossa, lo stesso del sogno. Era stato decisamente un avvertimento.

Sentì la lama schiacciata contro la gola e lui la teneva così forte che se lei si fosse mossa in qualsiasi direzione, la lama gliel’avrebbe tagliata. Le lacrime le scorrevano lungo le guance mentre cercava di respirare. Era così infuriata con se stessa. Era stata così stupida. Avrebbe dovuto stare più in guardia.

“Riconosci il mio volto?” chiese l’uomo.

Lui si piegò in avanti e lei avvertì il suo alito caldo e tremendo sulla guancia, vedendo il suo profilo. Il cuore le si fermò nel petto: era lo stesso volto del suo sogno, l’uomo senza un occhio e con la cicatrice.

“Sì,” rispose lei, la voce tremante.

Era un volto che conosceva fin troppo bene. Non sapeva il suo nome, ma sapeva che era un brutto ceffo. Un tipo di basso livello, uno di quelli che avevano bazzicato attorno a Gareth da quando era bambino. Era lo scagnozzo di Gareth. Gareth lo mandava da chiunque volesse spaventare, o torturare e uccidere.

“Sei il cane di mio fratello,” gli sibilò addosso con tono di sfida.

Lui sorrise, rivelando che gli mancavano alcuni denti.

“Sono il suo messaggero,” disse. “E il mio messaggio arriva con un’arma speciale per aiutarti a ricordarlo. Il suo messaggio per te oggi è di smetterla di fare domande. È un avvertimento che imparerai bene, perché quando avrò finito con te la cicatrice che lascerò su questo bel visino te lo farà ricordare per tutta la vita.”

Sbuffò, poi sollevò in alto il coltello e iniziò ad abbassarlo verso il suo volto.

“NO!” strillò Gwen.

Si  preparò al taglio che le avrebbe cambiato al vita.

Ma mentre la lama scendeva, accadde qualcosa. Improvvisamente si udì lo stridio di un uccello che calò in picchiata scendendo proprio verso l’uomo. Lei sollevò lo sguardo e lo riconobbe all’ultimo momento: Estofele.

 

Volò verso il basso, gli artigli protesi in avanti, e graffiò il viso dell’uomo mentre questo stava abbassando il pugnale.

La lama aveva appena iniziato a segnare dolorosamente la guancia di Gwen, quando improvvisamente cambiò direzione: l’uomo strillò, lasciò cadere il pugnale e sollevò le mani. Gwen vide un chiaro bagliore bianco nel cielo, il sole che splendeva dietro ai rami, e mentre Estofele volava via capì, comprese all’istante che era stato suo padre a mandare il falco.

Non sprecò altro tempo. Ruotò su se stessa, si piegò indietro e, come i sui allenatori le avevano insegnato, diede all’uomo un forte calcio nel plesso solare, prendendo la mira alla perfezione con i piedi nudi. Lui cadde su un fianco, sentendo la forza delle sue gambe che avevano diretto il calcio alla perfezione contro di lui. Le era stato inculcato in testa fin da piccola che non c’era bisogno di essere forti per difendersi da un aggressore. Bastava usare i muscoli più forti, le cosce. E mirare con precisione.

Mentre l’uomo stava lì accasciato, lei si fece avanti, lo afferrò per i capelli e sollevò un ginocchio, di nuovo con perfetta precisione, e lo colpì esattamente sul setto nasale.

Udì uno scricchiolio soddisfacente e sentì il sangue caldo che sgorgava riversandosi sulla sua gamba. Quando l’uomo si riaccasciò a terra ebbe la certezza di avergli rotto il naso.

Sapeva che avrebbe dovuto finirlo completamente, prendere quel pugnale e conficcarglielo nel cuore.

Ma rimanendo lì, nuda, il suo primo istinto fu quello di rivestirsi e andarsene da lì. Non voleva macchiarsi le mani del suo sangue, per quanto quell’uomo lo meritasse.

Quindi prese il pugnale, lo gettò nell’acqua e si avvolse i vestiti attorno al corpo. Si preparò a fuggire, ma prima di farlo si voltò e gli diede il calcio più forte che poté all’inguine.

L’uomo urlò di dolore e si raggomitolò come un animale ferito.

Gwen tremava dentro di sé, avvertendo quanto fosse stata vicina a essere uccisa, o almeno mutilata. Sentiva il taglio che le bruciava sulla guancia, e si rese conto che probabilmente ne avrebbe portato la cicatrice, sebbene leggera. Si sentiva traumatizzata. Ma non lo diede a vedere. Perché allo stesso tempo sentiva anche una nuova forza che le cresceva dentro, la forza di suo padre, di sette generazioni di re MacGil. E per la prima volta si rese conto che anche lei era forte. Forte quanto i suoi fratelli. Forte quanto ciascuno di loro.

Prima di girarsi e andarsene si chinò verso l’uomo sufficientemente vicino perché potesse sentirla tra i suoi gemiti.

“Riavvicinati a me,” gli ringhiò contro, “e ti ucciderò con le mie mani.”

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