Destino Di Draghi

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Из серии: L’Anello Dello Stregone #3
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Destino Di Draghi
Destino Di Draghi
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Читает Edoardo Camponeschi
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CAPITOLO QUATTRO

Thor tentava di respirare mentre cercava di levare l’acqua che gli copriva gli occhi, il naso, la bocca, e che continuava a scrosciare tutt’attorno a lui. Dopo essere scivolato dall’altra parte della nave era riuscito alla fine ad aggrapparsi al parapetto di legno e vi si teneva stretto con tutte le forze mentre quella pioggia inarrestabile cercava di fargli allentare la presa. Ogni singolo muscolo del suo corpo tremava e non sapeva quanto a lungo avrebbe potuto resistere.

Tutt’attorno a lui i suoi compagni facevano lo stesso, disperatamente aggrappati a qualsiasi cosa potessero trovare mentre l’acqua tentava di spingerli fuori dalla barca. In qualche modo resistettero.

Il frastuono era assordante, ed era difficile vedere a più di un metro davanti a sé. Nonostante la calda giornata estiva, la pioggia era fredda e l’acqua dava al suo corpo una sensazione di gelo impossibile da scrollarsi di dosso. Kolk era in piedi, le mani sui fianchi come indifferente al muro di pioggia e gridava in ogni direzione.

“TORNATE AI VOSTRI POSTI!” urlò. “REMATE!”

Kolk stesso si sedette e iniziò a remare, e nel giro di pochi istanti i ragazzi scivolarono e strisciarono sul ponte, diretti verso le loro postazioni. Il cuore di Thor batteva a mille mentre avanzava lui stesso, combattendo per attraversare il ponte. Krohn, dentro la sua camicia, piagnucolò quando Thor scivolò e cadde, atterrando pesantemente sul ponte.

Proseguì strisciando e presto si ritrovò al suo posto.

“LEGATEVI!” gridò Kolk.

Thor abbassò lo sguardo e vide le funi nodose che si trovavano accanto alla sua panca, capendo finalmente a cosa servissero: se ne annodò una attorno al polso, assicurandosi così alla panca e al remo.

Funzionò. Smise di scivolare. E presto fu in grado di remare.

Tutt’attorno a lui anche gli altri ragazzi si rimisero a remare, Reece seduto davanti a lui, e Thor poté sentire che la barca si rimetteva in movimento. Nel giro di pochi minuti il muro di pioggia smise di essere così battente.

Mentre continuava a remare, la pelle bruciante a causa di quella strana pioggia e ogni muscolo del corpo dolorante, finalmente il suono della pioggia iniziò a placarsi, e Thor cominciò a sentire che una quantità minore di pioggia gli cadeva sulla testa. Dopo pochi altri momenti si ritrovarono sotto un bel cielo illuminato dal sole.

Thor si guardò in giro scioccato: non pioveva per niente, tutto era luminoso. Era la cosa più strana di cui avesse mai avuto esperienza: metà della nave era sotto un sole splendente e asciutto, mentre l’altra metà era ancora colpita dal muro di pioggia che stavano terminando di attraversare.

Alla fine l’imbarcazione si venne a trovare completamente sotto un cielo azzurro e giallo, con il sole caldo che li scaldava. Ora c’era silenzio, la pioggia stava velocemente scomparendo e tutti i suoi fratelli d’armi si guardavano meravigliati. Era come se fossero passati attraverso un sipario e fossero entrati in un altro regno.

“LASCIATE!” gridò Kolk.

Tutt’attorno a Thor i ragazzi lasciarono cadere i remi con un sospiro collettivo, affannati, cercando di riprendere fiato. Thor fece lo stesso, sentendo che ogni muscolo gli tremava e provando gratitudine per quella pausa. Si buttò indietro, prese delle buone boccate d’aria e tentò di rilassare i muscoli doloranti mentre la nave scivolava in quelle nuove acque.

Alla fine si riprese, si alzò e si guardò attorno. Osservò l’acqua e vide che aveva un colore diverso: ora era di un rosso chiaro e brillante. Si trovavano in un altro mare.

“Il Mare dei Draghi,” disse Reece, come lui intento ad osservare quelle acque pensieroso. “Dicono che sia rosso per il sangue delle sue vittime.”

Thor abbassò lo sguardo. La superficie del mare ribolliva in alcuni punti, e in lontananza si vedevano affiorare per pochi istanti strane bestie, che poi scomparivano nuovamente sott’acqua. Nessuna rimaneva lì a sufficienza perché potesse osservarla attentamente, e in ogni caso Thor non osava abbassarsi per guardare l’acqua più da vicino.

Poi si voltò e si guardò in giro disorientato. Ogni cosa in quel luogo, da questa parte del muro di pioggia, sembrava estranea, diversa. C’era addirittura una nebbiolina rossastra sospesa nell’aria, sul pelo dell’acqua. Thor scrutò l’orizzonte e scorse decine di isolotti sparpagliati nell’acqua.

Di colpo iniziò a soffiare una forte brezza e Kolk si fece avanti gridando: “ISSATE LE VELE!”

Thor scattò in azione insieme agli altri ragazzi: afferrarono le funi e tirarono per levare le vele e sfruttare il vento. Funzionò e le folate li spinsero avanti. Thor sentì che la nave si muoveva  sotto di loro più veloce che mai, in direzione delle isole. La barca dondolava su grosse onde che si innalzavano dal nulla, oscillando delicatamente in su e in giù.

Thor si diresse a prua, si appoggiò al parapetto e guardò verso l’esterno. Reece e O’Connor lo raggiunsero. Rimasero lì tutti e tre a fissare la catena di isole alle quali si stavano velocemente avvicinando. Restarono a lungo in silenzio, godendo della brezza fresca che dava sollievo ai loro corpi finalmente rilassati.

Alla fine Thor si accorse che si stavano dirigendo verso una particolare isola. Diventava sempre più grande e Thor si sentì rabbrividire quando si rese conto che era quella la loro destinazione.

“L’Isola della Nebbia,” disse Reece con tono timoroso.

Thor la osservò meravigliato. La sua forma si stava delineando davanti a loro: rocciosa e impervia, brulla, si allungava per diversi chilometri in ogni direzione assumendo una forma lunga e stretta, simile a un ferro di cavallo. Onde enormi si infrangevano sulla sua costa, con un frastuono che si udiva anche da lì, creando alti spruzzi di schiuma quando si scontravano con i grossi scogli che ne costituivano la costa. Di fronte all’isola c’era una strettissima striscia di terra, e oltre ad essa una scogliera che si ergeva dritta e alta. Thor non riusciva a capire come avrebbero potuto attraccare la barca in sicurezza.

Ad accrescere la stranezza di quel luogo, una nebbia rossa circondava completamente l’isola, come una sorta di umida condensa che brillava al sole. Trasmetteva una sensazione di malaugurio. Thor vi percepiva qualcosa di non umano, non terreno.

Dicono che sopravviva da milioni di anni,” disse O’Connor. “È più antica dell’Anello. Addirittura più dell’Impero.”

“Appartiene ai draghi,” aggiunse Elden, raggiungendoli e mettendosi accanto a Reece.

Mentre Thor guardava, improvvisamente il secondo sole precipitò, e nel giro di pochi attimi il giorno passò da chiaro e splendente a quasi tramonto e il cielo si tinse di rosso e viola. Da non credere: non era mai accaduto che il sole si muovesse così velocemente. Thor si chiese quali altre stranezze potessero esserci in quella parte del mondo.

“Ci abita un drago su quell’isola?” chiese Thor.

Elden scosse la testa.

“No. Ho sentito dire che abita qui vicino. Raccontano che la nebbia rossa sia prodotta dal suo respiro. Soffia di notte su un’isola vicina e il vento porta il suo fiato a ricoprire l’isola durante il giorno.”

Thor udì un rumore improvviso: all’inizio sembrava un boato, come di tuono, sufficientemente forte e prolungato da scuotere la nave. Krohn, ancora raggomitolato dentro la sua camicia, abbassò la testa e piagnucolò.

Tutti gli altri si voltarono e Thor osservò: da qualche parte all’orizzonte pensò di vedere la confusa sagoma di alcune fiamme che lambivano il tramonto, dissolvendosi poi in fumo nero, come un piccolo vulcano in eruzione.

“Il drago,” disse Reece. “Ora ci troviamo nel suo territorio.”

Thor deglutì preoccupato.

“Ma allora come potremo mai essere al sicuro qui?” chiese O’Connor.

“Non sarete al sicuro da nessuna parte,” gli rispose un voce.

Thor si voltò a guardare Kolk che stava accanto a loro, mani sui fianchi a guardare l’orizzonte da sopra le loro spalle.

“È questo il senso del Cento: vivere con il rischio della morte ogni giorno. Non è un’esercitazione. Il drago vive qui vicino, e non c’è niente che possa impedirgli di attaccare. Probabilmente non lo farà, perché è impegnato a sorvegliare gelosamente il suo tesoro e la sua isola, e ai draghi non piace lasciare i propri tesori incustoditi. Ma sentirete i suoi ruggiti e vedrete le sue fiamme di notte. E se in qualche modo lo facessimo arrabbiare non siamo in grado di prevedere cosa potrebbe succedere.”

Thor udì un altro lieve boato, vide un’altra esplosione di fuoco all’orizzonte, mentre si avvicinavano sempre di più all’isola e alle onde che si infrangevano su di essa. Osservò le scogliere ripide, una muraglia di roccia, e si chiese come avrebbero fatto a raggiungerne la cima, approdando su quella terra piatta e arida.

“Ma non riesco a vedere un solo punto dove la barca potrebbe attraccare,” disse Thor.

“Sarebbe troppo semplice,” ribatté seccamente Kolk.

“E allora come ci arriviamo sull’isola?” chiese O’Connor.

Kolk sorrise, un sorriso arcigno.

“A nuoto,” disse.

Per un momento Thor si chiese se li stesse prendendo in giro, ma poi si rese conto dall’espressione del suo volto che aveva parlato sul serio. Deglutì.

“A nuoto?” replicò Reece incredulo.

“Queste acque sono popolate da creature d’ogni genere!” disse Elden.

“Oh, questo è il minimo,” continuò Kolk. “Le correnti sono pericolose, i gorghi vi potrebbero risucchiare, le onde potrebbero schiantarvi contro quelle rocce seghettate, l’acqua è bollente, e se ce la farete a oltrepassare gli scogli, dovrete trovare un modo di scalare la scogliera per raggiungere la terra asciutta. Sempre ammesso che le creature marine non vi catturino prima. Benvenuti nella vostra nuova casa.”

Thor rimase lì con gli altri, appoggiato al parapetto a guardare il mare schiumante sotto di loro. L’acqua mulinava come fosse una cosa viva, le correnti si facevano ogni momento più forti e dondolavano la barca rendendo difficile per loro mantenere l’equilibrio. In basso l’acqua infuriava d’agitazione, di un rosso brillante che sembrava contenere il sangue dell’inferno stesso. Peggio di tutto, guardando con maggiore attenzione Thor vide un mostro marino che compariva e scompariva dalla superficie, facendo schioccare i suoi lunghi denti ogni volta che affiorava.

 

Improvvisamente venne calata l’ancora. Erano ancora distanti dalla riva e Thor deglutì. Guardò gli scogli che delineavano l’isola e si chiese come avrebbero potuto raggiungerla. L’infrangersi delle onde si intensificò ed era ora necessario urlare per farsi sentire.

Mentre guardava, diverse piccole barche a remi furono calate in acqua, poi guidate dai comandanti a una trentina di metri dalla nave. Non sarebbe stato così facile: avrebbero dovuto nuotare per raggiungerle.

Al solo pensiero lo stomaco di Thor si rivoltò.

“TUFFATEVI!” gridò Kolk.

Per la prima volta Thor ebbe paura. Si chiese se questo lo rendesse inferiore a un membro della Legione, inferiore a un guerriero. Sapeva che i guerrieri dovevano essere sempre temerari, ma doveva ammettere che ora provava paura. Odiava il fatto di sentirsi così e avrebbe preferito essere più coraggioso. Ma non ci riusciva.

Ma quando si guardò attorno e vide i volti terrorizzati degli altri ragazzi, si sentì meglio. Tutt’attorno a lui i suoi compagni stavano appoggiati al parapetto, paralizzati dalla paura, e guardavano le acque. Un ragazzo in particolare era talmente spaventato da tremare. Era sempre quello degli scudi, quello che poi durante la traversata aveva perso i sensi.

Kolk doveva aver capito, perché attraversò il ponte diretto proprio verso di lui. Kolk sembrava non essere per niente toccato dalla situazione: il vento gli spingeva indietro i capelli, un ghigno gli solcava il volto e gli conferiva l’espressione di chi è pronto a conquistare la natura stessa. Raggiunse il ragazzo e si accigliò di più.

“TUFFATI!” gli gridò.

“No!” rispose il ragazzo. “Non ce la faccio! Non posso farlo! Non so nuotare! Riportatemi a casa!”

Kolk lo raggiunse mentre quello iniziava ad allontanarsi dal parapetto, lo afferrò per la camicia sulla schina e lo sollevò alto dal terreno.

“E allora impara a nuotare!” gridò e, davanti allo sguardo incredulo di Thor, lo scagliò oltre il bordo.

Il ragazzo volò in aria, gridando e precipitando per quattro metri buoni verso il mare schiumante. Atterrò con un fragoroso tuffo, poi cercò di rimanere in superficie sbracciandosi e annaspando.

“AIUTO!” gridò.

“Qual è la prima regola della Legione?” gridò Kolk, voltandosi verso gli altri ragazzi sulla barca e ignorando quello in acqua.

Thor aveva una vaga idea di quale fosse la risposa corretta, ma era troppo distratto dalla vista del ragazzo che stava annegando per poter rispondere.

“Aiutare un proprio compagno che ha bisogno di aiuto!” gridò Elden.

“E lui ne ha bisogno?” urlò Kolk, indicando il ragazzo.

Il ragazzo sollevò le braccia, salendo e scendendo dalla superficie dell’acqua mentre gli altri lo guardavano dal ponte, tutti troppo spaventati per tuffarsi.

In quel momento a Thor accadde qualcosa di strano. Mentre si concentrava sul ragazzo che stava annegando, tutto il resto svanì. Non pensò più a se stesso. Il fatto che avrebbe potuto morire non gli baluginò neppure nella mente. Il mare, i mostri, le correnti… tutto scomparve. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era salvare qualcun altro.

Thor saltò sul largo parapetto di quercia, piegò le ginocchia e senza pensarci due volte balzò alto nell’aria, di faccia verso l’acqua rossa del mare che si trovava sotto di lui.

CAPITOLO CINQUE

Gareth sedeva sul trono di suo padre nella Grande Sala e strofinava con le mani i lisci braccioli di legno, osservando la scena davanti a sé: centinaia di sudditi erano stipati nella stanza, la gente si era radunata lì da ogni parte dell’Anello per assistere a quell’evento unico, per vedere se lui sarebbe stato in grado di sollevare la Spada della Dinastia. Per vedere se lui era il Prescelto. Era un evento che non si presentava da quando era stato giovane suo padre, e sembrava che nessuno volesse perderselo. L’eccitazione aleggiava nell’aria come una nuvola.

Gareth stesso era in stato confusionale per l’attesa. Mentre osservava la stanza che non smetteva di riempirsi, con un numero continuamente crescente di persone che vi si stipavano, inizò a chiedersi se i consiglieri di suo padre avessero ragione, se effettivamente fosse stata una cattiva idea quella di tenere l’evento nella Grande Sala e aprirlo al pubblico. Gli avevano proposto di fare il tentativo nella piccola Sala della Spada, in privato. Avevano detto che se avesse fallito solo pochi ne sarebbero stati testimoni. Ma Gareth non si fidava della gente di suo padre, aveva più fiducia nel suo destino che nella vecchia guardia del precedente Re, e voleva che tutto il regno fosse testimone del suo successo, vedesse che lui era il Prescelto proprio nel momento in cui ciò veniva confermato. Aveva voluto che quel momento potesse essere registrato all’istante. Il momento in cui il suo destino si compiva.

Gareth era entrato nella stanza con incedere elegante, l’aveva attraversata con portamento impettito accompagnato dai suoi consiglieri, indossando corona e mantello, con lo scettro in mano: voleva che tutti capissero che lui – non più suo padre – era il vero Re, il vero MacGil. Come si era aspettato non gli ci era voluto molto per capire che quello era il suo castello, e quelli i suoi sudditi. Voleva che la sua gente provasse ora la stessa sensazione, voleva che quella dimostrazione di potere apparisse davanti agli occhi di tanti. Dopo questo giorno avrebbero saputo per certo che lui era il loro unico e vero Re.

Ma ora che Garerh era seduto lì, solo sul trono, a guardare i rebbi di ferro vuoti al centro della stanza, dove la spada sarebbe stata posizionata, illuminati da un raggio di sole che entrava dal soffitto, non si sentiva più così sicuro. Il peso di ciò che stava per fare lo opprimeva. Quello era un passo dal quale non sarebbe potuto tornare indietro. E se avesse fallito? Cercò di scacciare il pensiero dalla mente.

L’enorme porta dalla parte opposta della stanza si aprì con uno scricchiolio, e in un silenzio carico di eccitazione tutta la gente nella sala rimase in attesa. Una dozzina di uomini tra i più forti della corte entrarono nella stanza sorreggendo la spada e arrancando sotto il suo peso. C’erano sei uomini per parte e camminavano lentamente trasportando la spada verso la sua collocazione.

Il cuore di Gareth accelerò mentre li guardava avvicinarsi. Per un breve momento la sua sicurezza ebbe una battuta d’arresto: se quei dodici uomini, più grossi che mai, riuscivano a malapena a sorreggerla, quali possibilità poteva mai avere lui? Ma cercò subito di scacciare questi pensieri dalla testa: del resto la spada si basava sul destino, non sulla forza. E si costrinse a ricordare che era il suo destino quello di trovarsi lì, di essere il primogenito di MacGil, di essere Re. Cercò Argon tra la folla: per qualche ragione ebbe un improvviso e intenso desiderio di cercare il suo consigliere. Quello era il momento in cui aveva maggiormente bisogno di lui. Per qualche ragione non riusciva a pensare a nessun altro. Ma ovviamente non era da nessuna parte.

Finalmente i dodici uomini raggiunsero il centro della stanza, trasportando la spada nel fascio di luce e posizionandola sui rebbi di ferro. La posarono con un clangore metallico che riverberò nell’aria rimbalzando sulle pareti. Tutti tacquero.

Istintivamente la folla si aprì, creando un passaggio dove Gareth potesse camminare e raggiungere la spada per tentare di sollevarla.

Gareth si alzò lentamente dal trono, assaporando quel momento, assaporando quell’attenzione. Poteva sentire tutti gli occhi su di lui. Sapeva che un momento come quello non si sarebbe ripetuto, un momento in cui l’intero regno lo guardasse con tale attenzione e intensità, analizzando ogni suo singolo movimento. Aveva vissuto quel momento così tante volte nella sua mente, da quando era ragazzo, e ora era giunto. Voleva che tutto avvenisse lentamente.

Scese i gradini dal trono, facendone uno alla volta, gustandoli tutti uno per uno. Camminò sul tappeto rosso, sentendone la morbidezza sotto i piedi e avvicinandosi sempre di più alla chiazza di luce, verso la spada. Mentre avanzava gli sembrava di trovarsi in un sogno. Una parte di lui si sentiva come se avesse camminato su quel tappeto molte volte, come se avesse brandito quella spada milioni di volte nei suoi sogni. Questo gli faceva sentire ancor più di essere predestinato a sollevarla, a sentire che stava camminando verso il suo destino.

Nella sua mente aveva già visto come sarebbe andata: lui sarebbe avanzato fiero, avrebbe allungato una mano e, mentre i suoi sudditi si chinavano per vedere più da vicino, avrebbe improvvisamente e platealmente sollevato la spada in alto, sopra la sua testa. Tutti avrebbero sussultato e si sarebbero prostrati a terra dichiarandolo il Prescelto, il più importante fra i Re della dinastia MacGil, colui che era destinato a regnare per sempre. Avrebbero pianto di gioia a quella vista. Avrebbero tremato di paura dinnanzi a lui. Avrebbero ringraziato Dio per aver vissuto in quel periodo ed essere quindi testimoni di questo evento. Lo avrebbero venerato come una divinità.

Gareth si avvicinò alla spada, ora a pochi passi da lui, e si sentì tremare dentro. Quando entrò nel fascio di luce, sebbene avesse visto quella spada moltissime volte prima d’ora, fu spiazzato dalla sua bellezza. Non gli era mai stato concesso di avvicinarsi ad essa così tanto, e si sorprese. Era una visione intensa. La spada aveva una lama lunga e scintillante, fabbricata con un materiale che nessuno aveva mai riconosciuto; aveva l’elsa riccamente decorata, avvolta da un tessuto elegante simile alla seta, con gioielli di ogni sorta incastonati su di essa, e contrassegnata dall’effigie del falco. Avvicinandosi di un altro passo e venendosi a trovare sopra di essa, Gareth percepì la potente energia che irradiava. Sembrava pulsare. Lui riusciva a malapena a respirare. Fra un momento sarebbe stata fra le sue mani. Alta sopra la sua testa. Splendente sotto la luce del sole perché tutto il mondo la ammirasse.

Lui, Gareth, il Grande.

Gareth allungò la mano destra e la appoggiò sull’elsa, chiudendovi lentamente le dita attorno, sentendo al tatto ogni singolo gioiello, ogni contorno, mentre stringeva elettrizzato l’impugnatura. Un’intensa energia si irradiò attraverso il suo palmo, lungo il braccio e poi in tutto il corpo. Era una sensazione mai provata prima. Quello era il suo momento. Il suo momento di una vita.

Gareth non avrebbe avuto altre possibilità. Allungò anche l’altra mano e strinse anche con quella l’impugnatura della spada. Chiuse gli occhi, il respiro lieve.

Se è gradito agli dei, permettimi di sollevarla. Dammi un segno. Mostrami che sono il Re. Mostrami che sono io quello che deve governare.

Gareth pregava in silenzio, in attesa di una risposta, di un segno, del momento perfetto. Ma i secondi passavano, trascorsero dieci secondi buoni sotto gli occhi dell’intero regno che guardava, e lui non udì nulla.

Poi improvvisamente vide il volto di suo padre che lo guardava severo.

Gareth aprì gli occhi terrorizzato con l’intento di cancellare quell’immagine dalla mente. Il cuore gli martellava nel petto e sentì che si trattava di un presagio terribile.

Ora o mai più.

Gareth si chino e con tutta la sua forza cercò di sollevare la spada. Combatté con tutto ciò che aveva, fino a che l’intero corpo iniziò a tremare in modo convulso.

La spada non si spostò. Era come cercare di spostare le fondamenta della terra.

Gareth provò e riprovò, con sempre maggiore forza. Alla fine era visibilmente affannato e concitato.

Un attimo dopo collassò.

La lama non si era mossa di un centimetro.

Un sussulto scioccato si diffuse attraverso la sala quando Gareth colpì il pavimento. Alcuni consiglieri si affrettarono a soccorrerlo, controllando se stesse bene, ma lui li cacciò con violenza. Imbarazzato si rimise in piedi da solo.

Umiliato Gareth si guardò attorno per vedere come i suoi sudditi ora lo vedessero.

Si erano già girati e stavano ormai uscendo dalla stanza. Gareth poteva scorgere il disappunto sui loro volti, capì che lo consideravano semplicemente un altro fallimento. Ora sapevano tutti, nessuno escluso, che lui non era il loro vero Re. Non era il MacGil predestinato o prescelto. Non era niente. Solo un altro principe che aveva usurpato il trono.

 

Gareth bruciava di vergogna. Non si era mai sentito più solo che in quel momento. Tutto quello che aveva immaginato da quando era bambino era stata una menzogna. Una delusione. Aveva creduto a una favola che lui stesso si era raccontato.

E ora quella favola lo aveva schiacciato.

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