La Marcia Dei Re

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Из серии: L’Anello Dello Stregone #2
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La Marcia Dei Re
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La Marcia Dei Re
La Marcia Dei Re
Аудиокнига
Читает Edoardo Camponeschi
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Thor si guardò attorno, vide la guardia priva di conoscenza, la cella aperta, e capì che anche lui doveva agire. Le urla dei prigionieri si stavano intensificando.



Thor uscì dalla cella, guardò da entrambe le parti e decise di correre nella direzione opposta a quella presa da Merek. Almeno non avrebbero potuto catturarli entrambi.





CAPITOLO TRE



Thor correva nella notte lungo le caotiche vie della Corte del Re, sorpreso dalla confusione che le animava. Le vie erano affollate, masse di persone correvano in ogni direzione creando un caotico groviglio. Molti portavano delle torce, illuminando la notte e gettando ombre inquietanti sui volti, mentre le campane del castello suonavano ininterrottamente. Era uno suono dal tono basso che si ripeteva ogni minuto, e Thor sapeva che il suo significato era solo uno: morte. Campane di morte. E c’era solo una persona per cui le campane avrebbero potuto suonare quella notte: il Re.



Il cuore di Thor batteva a mille mentre lui rifletteva. Il pugnale del suo sogno gli lampeggiava davanti agli occhi. Era stato vero.



Doveva accertarsene. Allungò un braccio e fermò un passante, un ragazzo che correva nella direzione opposta.



“Dove stai andando?” gli chiese. “Cos’è tutta questa confusione?”



“Non hai sentito?” ribatté il ragazzo con frenesia. “Il nostro Re sta morendo! Pugnalato! La gente si sta ammassando fuori dai cancelli per cercare di saperne di più. Se fosse vero, sarebbe un colpo terribile per noi tutti. Te lo puoi immaginare? Una terra senza un re?”



Detto questo il ragazzo si scrollò di dosso la mano di Thor, si voltò e corse nella notte.



Thor rimase lì, con il cuore che gli batteva in petto, rifiutandosi di accettare la realtà che lo circondava. I suoi sogni, le sue premonizioni: erano ben più che mere fantasie. Aveva visto il futuro. Per due volte. E questo lo spaventava. I suoi poteri erano più profondi di quanto pensasse, e sembravano diventare ogni giorno più forti. Dove lo avrebbero portato di questo passo?



Thor stava fermo, cercando di capire cosa fosse meglio fare. Era fuggito, ma ora non aveva idea di dove andare. Sicuramente nel giro di pochi momenti le guardie reali – e forse tutta la Corte del Re – si sarebbero messi sulle sue tracce. La fuga di Thor accresceva la sua colpevolezza. Allo stesso modo però c’era da considerare il fatto che MacGil fosse stato pugnalato mentre Thor era in prigione: non era un elemento utile per scagionarlo? Oppure lo avrebbero considerato ancor più come parte dell’intera cospirazione?



Thor non poteva permettersi di provare a scoprirlo. Chiaramente nessuno nel regno era ora dell’umore giusto per ascoltare un pensiero razionale: sembrava che tutti attorno a lui fossero in cerca di sangue. E lui sarebbe probabilmente diventato il capro espiatorio. Aveva bisogno di un riparo, un qualche posto in cui andare e da dove superare la tempesta e dimostrare la sua innocenza. Il posto più sicuro sarebbe senz’altro stato lontano da lì. La cosa migliore da fare sarebbe stata scappare, trovare rifugio nel suo villaggio o addirittura più lontano, il più lontano possibile da lì.



Ma Thor non voleva prendere la via più sicura, non era fatto così. Voleva rimanere lì, dimostrare la sua innocenza e riprendere il suo posto nella Legione. Non era un codardo, quindi non fuggì. Più di tutto voleva vedere MacGil prima che morisse, sempre ammesso che fosse ancora vivo. Aveva bisogno di vederlo. Si sentiva sopraffatto dal senso di colpa per non essere stato in grado di evitare l’assassinio. Perché era stato destinato a vedere la morte del Re se non c’era nulla che potesse fare per evitarla? E perché aveva visto che veniva avvelenato se poi lo avevano invece pugnalato?





Mentre Thor stava lì combattuto sul da farsi, gli venne un’idea: Reece. Reece era la persona di cui si poteva fidare e che per certo non lo avrebbe portato davanti alle autorità. E forse gli avrebbe anche offerto una protezione. Sentiva che Reece gli avrebbe creduto. Lui sapeva che l’amore di Thor per suo padre era genuino, e se c’era qualcuno che avrebbe potuto dimostrare la sua innocenza, quello era proprio Reece. Doveva trovarlo.



Thor partì di scatto attraverso i vicoli bui, girando e svoltando in mezzo alla folla, allontanandosi dai cancelli della Corte, diretto verso il castello. Sapeva dov’era la camera di Reece – nell’ala est, vicino alle mura esterne della città – e sperava solo che Reece fosse lì. Se così fosse stato, forse avrebbe potuto richiamare la sua attenzione e farsi aiutare ad entrare nel castello. Thor aveva la tremenda sensazione che se avesse esitato ancora per un po’ lì nelle strade, qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo. E se quella calca di gente l’avesse riconosciuto, l’avrebbero fatto a pezzi.



Passando di strada in strada, con i piedi che scivolavano nel fango della notte estiva, Thor raggiunse finalmente il muro di pietra dei bastioni esterni. Vi si portò vicino e corse lungo il tracciato, al riparo dagli occhi attenti dei soldati che vi si trovavano tutt’attorno.



Quando si fu avvicinato alla finestra di Reece, si abbassò e raccolse un sasso liscio. Fortunatamente l’arma che si erano dimenticati di togliergli era la sua vecchia e fidata fionda. La prese, vi inserì il sasso e lanciò.



Con la sua mira impeccabile mandò il sasso a volare in alto verso la parete del castello, giusto attraverso la finestra aperta della stanza di Reece. Thor la udì colpire la parete interna, poi attese, appiattendosi contro le mura per non essere visto dalle guardie del Re, che erano sobbalzate per il rumore.



Per diversi momenti non accadde nulla, e Thor si sentì il cuore sprofondare mentre si chiedeva se Reece, dopotutto, non si trovasse nella sua stanza. In quel caso Thor sarebbe dovuto fuggire da quel luogo, non aveva altri mezzi per guadagnarsi un riparo sicuro. Trattenne il fiato e il cuore gli batteva forte nel petto nell’attesa, mentre guardava l’apertura della finestra.



Dopo quella che gli sembrò un’eternità, Thor era proprio sul punto di andarsene quando scorse una figura sporgere la testa fuori dalla finestra, appoggiarsi con entrambe le mani sul davanzale e guardarsi intorno con aria confusa.



Thor si staccò di parecchi passi dal muro e sventolò un braccio in aria.



Reece guardò verso il basso e lo notò. Il suo volto si illuminò quando lo riconobbe, evidente anche da lì alla luce delle torce e Thor fu felice di vedere la gioia nel suo sguardo. Quello gli confermava tutto ciò che aveva bisogno di sapere: Reece non lo avrebbe fatto catturare.



Reece gli fece cenno di aspettare, e Thor tornò di corsa alla parete, accucciandosi proprio mentre una guardia si girava verso di lui.



Thor attese per un tempo incalcolabile, pronto in ogni momento a fuggire dalle guardie, fino a che finalmente Reece apparve, uscendo di corsa dalla porta del muro esterno, con il fiatone, guardando da tutte le parti per poi scorgere Thor.



Reece corse da lui e lo abbracciò. Thor era felicissimo. Udì un mugolio e abbassò lo sguardo per vedere, con suo estremo piacere, Krohn, infagottato nella tunica di Reece. Krohn quasi saltò fuori dalla tunica e Reece lo prese per porgerlo a Thor.



Krohn – il cucciolo di leopardo che Thor aveva salvato – balzò tra le sue braccia, mugolò e gemette leccandogli la faccia, mentre lui lo ricambiava con un abbraccio.



Reece sorrise.



“Quando ti hanno portato via, lui ha cercato di seguirti, ma io l’ho preso per essere certo che fosse al sicuro.”



Thor strinse il braccio di Reece in segno di riconoscenza. Poi rise, mentre Krohn continuava a leccarlo.



“Mi sei mancato, piccolo,” disse Thor ridendo e lo baciò. “Stai buono adesso, o le guardie ci sentiranno.”



Krohn si calmò, come se avesse capito.



“Come hai fatto a scappare?” chiese Reece, sorpreso.



Thor scrollò le spalle. Non sapeva esattamente come rispondere. Si sentiva ancora a disagio a parlare dei suoi poteri, incomprensibili anche per lui. Non voleva che gli altri lo considerassero un tipo strano.



“Ho avuto fortuna, credo,” rispose. “Mi si è presentata un’opportunità e l’ho colta.”



“Sono stupito che la folla non ti abbia fatto a pezzi,” disse Reece.



“È buio,” disse Thor. “Penso che nessuno mi abbia riconosciuto. Non ancora, almeno.”



“Sai che ogni soldato del regno ti sta cercando? Sai che mio padre è stato pugnalato?”



Thor annuì, serio. “Sta bene?”



Il volto di Reece si adombrò.



“No,” rispose cupamente. “Sta morendo.”



Thor si sentì devastato, come se stessero parlando del suo stesso padre.



“Sai che io non centro niente con tutto questo, vero?” chiese Thor speranzoso. Non gli interessava cosa pensassero tutti gli altri, ma aveva bisogno che il suo miglior amico, il figlio più giovane di Re MacGil, sapesse che lui era innocente.



“Certamente,” disse Reece. “Altrimenti non sarei qui.”



Thor sentì un’ondata di sollievo, e strinse le spalle di Reece colmo di gratitudine.



“Ma il resto del regno non sarà così fiducioso come sono io,” aggiunse Reece. “Il posto più sicuro per te è lontano da qui. Ti darò il mio cavallo più veloce, una scorta di viveri e ti farò fuggire. Devi nasconderti fino a che tutto questo trambusto non si sarà quietato, fino a che non troveranno il vero assassino. Nessuno è in grado di riflettere con lucidità ora.”



Thor scosse la testa.



“Non posso andarmene,” disse. “Mi farebbe apparire ancora più colpevole. Devo far capire agli altri che non sono stato io. Non posso fuggire dai miei problemi. Devo dimostrare la mia innocenza.”



Reece scosse la testa.

 



“Se rimani qui ti troveranno. Ti imprigioneranno di nuovo e poi ti condanneranno a morte, se non sarà la gente a ucciderti prima.”



“È un rischio che devo correre,” disse Thor.



Reece lo fissò a lungo, e il suo volto passò da un’espressione di preoccupazione a una di ammirazione. Alla fine, lentamente, annuì.



“Sei coraggioso. E stupido. Molto stupido. È per questo che ti ammiro.”



Entrambi sorrisero.



“Devo vedere tuo padre,” disse Thor. “Mi serve la possibilità di spiegargli, faccia a faccia, che non sono stato io, che io non ho nulla a che vedere con tutto questo. Se deciderà di condannarmi a morte, che così sia. Ma ho bisogno di questa possibilità. Voglio che lui sappia. È tutto quello che ti chiedo.”



Reece lo guardò con serietà, riconoscendo in lui un vero amico. Alla fine, dopo quella che sembrò a Thor un’eternità, annuì.



“Posso portarti da lui. Conosco una via nascosta. Porta alla sua stanza. È rischioso, e una volta che sarai dentro, sarai solo. Non ci sono altre vie d’uscita. A quel punto non potrò più fare niente per te. Potrebbe significare la tua morte. Sei sicuro di voler provare?”



Thor annuì in risposta, con estrema serietà.



“Molto bene allora,” disse Reece, e improvvisamente allungò una mano porgendo a Thor un mantello.



Thor abbassò lo sguardo sorpreso: si rese conto che Reece aveva pianificato tutto da tempo.



Reece sorrise quando Thor risollevò lo sguardo.



“Sapevo che saresti stato sufficientemente testardo da voler rimanere. Non mi sarei aspettato niente di meno dal mio miglior amico.”





CAPITOLO QUATTRO



Gareth camminava su e giù per la sua stanza ripercorrendo con la memoria gli eventi della notte, pervaso dall’ansia. Non riusciva ancora a credere a ciò che era accaduto durante la festa, a come tutto fosse andato storto. Non capiva come quello stupido ragazzo, quello straniero, Thor, si fosse in qualche modo intromesso nel suo complotto di avvelenamento. E come se non bastasse era anche riuscito ad intercettare il calice. Gareth ripensò a quel momento, quando aveva visto Thor saltare e sbattere via il calice dalle mani del Re: in quell’attimo aveva udito il rumore del calice che colpiva la pietra e aveva visto il vino spargersi sul pavimento, confondendo in quel modo anche tutti i suoi sogni e aspirazioni.



In quel momento Gareth era stato rovinato. Tutto ciò per cui aveva vissuto era stato annientato. E quando quel cane aveva leccato il vino ed era caduto a terra morto, aveva saputo che era finita. Aveva visto tutta la sua vita passargli davanti agli occhi, aveva visto che lo avrebbero scoperto, condannato a vivere nelle segrete per aver tentato di uccidere suo padre. O peggio ancora l’avrebbero condannato a morte. Era stato supido. Non avrebbe mai dovuto portare avanti un piano del genere, non avrebbe mai dovuto far visita a quella strega.



Almeno aveva agito velocemente, cogliendo l’occasione e saltando in piedi per primo per scagliare la colpa contro Thor. A ripensarci, era fiero di se stesso per la rapidità con cui aveva saputo agire. Era stato un attimo di ispirazione, e con suo stupore sembrava aver funzionato. Avevano trascinato via Thor e poi la festa era continuata perfettamente. Ovviamente niente era stato lo stesso dopo quel momento, ma almeno sembrava che i sospetti fossero tutti ricaduti su quel ragazzo.



Gareth pregò che le cose rimanessero così. Erano decenni che non accadeva un tentativo di uccisione ai danni di un MacGil, e Gareth temeva che ci sarebbe stata un’indagine, che i fatti sarebbero stati analizzati con maggiore profondità. A ripensarci, era stato sciocco a tentare di avvelenare il Re. Suo padre era invincibile. Gareth avrebbe dovuto saperlo. Aveva esagerato. E ora non poteva fare a meno di pensare che fosse solo una questione di tempo, e che poi i sospetti sarebbero ricaduti su di lui. Avrebbe dovuto fare di tutto per provare che Thor era colpevole, e farlo condannare a morte prima che fosse troppo tardi.



Almeno Gareth si era in qualche modo riscattato: dopo quel tentativo fallito aveva cancellato l’assassinio dai suoi propositi. Ora si sentiva sollevato. Dopo aver assistito al fallimento del suo complotto, aveva capito che c’era una parte di lui, nel profondo, che non voleva uccidere veramente suo padre, che non voleva avere le mani sporche del suo sangue. Non sarebbe stato Re. Forse non lo sarebbe mai stato. Ma dopo gli eventi della notte, andava bene così. Almeno sarebbe stato libero. Non avrebbe più potuto sostenere tutto quello stress: i segreti, il nascondersi, la costante ansia di essere scoperto. Era troppo per lui.



Mentre camminava avanti e indietro per la stanza e la notte scorreva, finalmente – seppur lentamente – cominciò a calmarsi. Proprio quando stava iniziando a tornare in sé e si apprestava a prepararsi per andare a dormire, gli giunse all’udito un improvviso schianto, e voltandosi vide che la porta della sua stanza era stata aperta. Firth entrò trafelato, con gli occhi sgranati, balzando nella camera come se lo stessero inseguendo.



“È morto!” gridò. “È morto! L’ho ucciso. È morto!”



Firth era isterico e piagnucolante e Gareth non aveva idea di che cosa stesse parlando. Era ubriaco?



Firth correva per la stanza, gridando, urlando, sventolando le mani in aria: fu a quel punto che Gareth notò i suoi palmi ricoperti di sangue e la sua tunica gialla macchiata di rosso.



Il cuore di Gareth ebbe una battuta d’arresto. Firth aveva appena ucciso qualcuno. Ma chi?



“Chi è morto?” gli chiese Gareth. “Di chi stai parlando?”



Ma Firth era fuori di sé e non riusciva a concentrarsi. Gareth corse verso di lui, lo afferrò saldamente per le spalle e lo scosse.



“Rispondimi!”



Firth sgranò gli occhi e lo fissò, con l’espressione di un cavallo impazzito.



“Tuo padre! Il Re! È morto! Per mano mia!”



A quelle parole Gareth si sentì come se un coltello fosse stato affondato dritto nel suo cuore.



Fissò l’amico con gli occhi sgranati, paralizzato, sentendo che l’intero corpo gli si intorpidiva. Lasciò la presa, fece un passo indietro e cercò di riprendere fiato. Da tutto il sangue che lo ricopriva capiva che Firth stava dicendo la verità. Non riusciva neanche a immaginarselo. Firth? Da uomo equilibrato che era? Quello dalla volontà più debole tra tutti i suoi amici? Aveva ucciso suo padre?



“Ma… come è possibile?” disse Gareth in un soffio. “Quando?”



“È successo nella sua stanza,” disse Firth. “Proprio adesso. L’ho pugnalato.”



L’evidenza del fatto iniziava a radicarsi, e Greth riprese il controllo della sua mente. Notò la porta aperta, corse a chiuderla dopo essersi assicurato che nessuna guardia avesse visto qualcosa. Fortunatamente il corridoio era vuoto. Sbarrò la porta con il pesante catenaccio di ferro.



Attraversò di nuovo velocemente la stanza. Firth era ancora in preda all’isteria e Gareth doveva calmarlo. Aveva bisogno di risposte.



Lo afferrò per le spalle, lo fece girare su se stesso e gli diede un manrovescio sufficientemente forte da farlo fermare. Finalmente Firth si concentrò su di lui.



“Raccontami ogni cosa,” gli ordinò freddamente Gareth. “Dimmi esattamente cos’è successo. Perché l’hai fatto?”



“Cosa intendi dire con perché?” chiese Firth confuso. “Tu volevi ucciderlo. Il tuo veleno non ha funzionato. Ho pensato di aiutarti. Ho pensato che fosse quello che volevi.”



Gareth scosse la testa. Afferrò Firth per la tunica e iniziò a scuoterlo con insistenza.



“Perché l’hai fatto?” gli gridò addosso.



Gareth sentì che tutto il suo mondo si sgretolava. Era scioccato dal rendersi conto che provava effettivamente rimorso nei confronti di suo padre. Non riusciva a capire. Solo poche ore prima la cosa che desiderava più di tutte era vederlo avvelenato, accasciarsi morto sul tavolo. Ora l’idea che fosse stato ucciso lo colpiva come la morte di un grande amico. Si sentiva sopraffatto dal rimorso. Dopotutto una parte di lui non lo voleva morto, soprattutto non in quel modo. Non per mano di Firth. E non con una lama.



“Non capisco,” piagnucolò Firth. “Solo poche ore fa hai tentato tu stesso di ucciderlo. Il tuo complotto del calice. Pensavo che mi saresti stato riconoscente!”



Con sua stessa sorpresa Gareth colpì Firth con violenza al volto.



“Io non ti ho detto di fare una cosa del genere!” gli sputò addosso. “Non ti ho mai detto di fare una cosa del genere! Perché l’hai ucciso! Guardati. Sei ricoperto di sangue. Ora è finita per entrambi. È solo questione di tempo perché le guardie vengano a prenderci.”



“Nessuno ha visto nulla,” disse Firth con tono supplichevole. “Sono passato durante il cambio della guardia. Nessuno mi ha visto.”



“E dov’è l’arma?”



“Non l’ho lasciata,” disse Firth con orgoglio. “Non sono stupido. Me ne sono sbarazzato.”



“E che pugnale hai usato?” chiese Gareth, mentre la sua mente ragionava su ogni possibile implicazione. Passava dal rimorso alla preoccupazione; i pensieri consideravano freneticamente ogni dettaglio o traccia che quello stupido imbranato poteva essersi lasciato dietro, qualsiasi elemento potesse ricondurre a lui.



“Ne ho usato uno che non può essere rintracciato,” disse Firth con rinnovato orgoglio. “Era un pugnale comune e anonimo. L’ho trovato nelle scuderie. Ce n’erano altri quattro uguali a quello. È impossibile che lo rintraccino,” ripeté.



Gareth sentì che il cuore gli sprofondava.



“Era un coltello corto, con il manico rosso e la lama curva? Appoggiato al muro accanto al mio cavallo?”



Firth annuì con espressione ora dubbiosa.



Gareth si accigliò.



“Cretino. Ma certo che quel pugnale è rintracciabile!”



“Ma non c’era nessun segno sopra!” protestò Firth con voce spaventata e tremante.



“Non ci sono segni sulla lama, ma ce ne sono sull’impugnatura!” gridò Gareth. “Sotto! Non hai controllato con attenzione! Cretino.” Gareth fece un passo avanti, rosso di rabbia. “C’è lo stemma del mio cavallo intagliato sotto l’impugnatura. Chiunque conosca la famiglia reale può risalire da quel pugnale a me.”



Guardò Firth, che sembrava senza parole. Avrebbe voluto ucciderlo.



“Cosa ne hai fatto?” insistette Gareth. “Dimmi che ce l’hai con te. Dimmi che l’hai portato con te. Ti prego.”



Firth deglutì.



“Me ne sono sbarazzato per bene. Nessuno lo troverà mai.”



Gareth lo fissò con sguardo torvo.



“Dove, esattamente?”



“L’ho gettato giù dal piano inclinato di pietra, nel pozzo nero del castello. Il vaso viene svuotato ogni ora direttamente nel fiume. Non preoccuparti, mio signore. Sarà già in fondo al fiume ormai.”



Improvvisamente le campane del castello suonarono, e Gareth si voltò e corse alla finestra aperta, con il cuore pervaso dal panico. Guardò fuori e vide tutto il caos e la confusione sotto di lui: folle di gente che circondavano il castello. Quelle campane che suonavano potevano significare solo una cosa: Firth non stava mentendo. Aveva ucciso il Re.



Gareth sentì che il corpo gli diventava gelato come il ghiaccio. Non riusciva a capacitarsi di aver innescato un progetto talmente malvagio. E che Firth, fra tutti, lo avesse portato a compimento.



Si udì un improvviso colpo alla porta, e quando si aprì di scatto diverse guardie reali si riversarono all’interno. Per un momento Gareth ebbe la certezza che fossero lì per arrestarlo.



Ma con sua sorpresa si fermarono e rimasero sull’attenti.



“Mio signore, vostro padre è stato pugnalato. Potrebbe esserci un assassino a piede libero. Le chiediamo di rimanere al sicuro nella sua stanza. Il Re è gravemente ferito.”



Le ultime parole fecero venire la pelle d’oca a Gareth.



“Ferito?” ripeté Gareth, e la parola gli rimase quasi strozzata in gola. “È ancora vivo quindi?”



“Sì, mio signore. E che Dio sia con lui, così che possa sopravvivere e ci possa raccontare chi ha messo in atto questo gesto atroce.”



Con un piccolo inchino la guardia uscì di corsa dalla stanza, chiudendo la porta con uno schianto.



Gareth venne assalito dalla rabbia: afferrò Firth per le spalle, lo portò dall’altra parte della stanza e lo sbatté contro una parete di pietra.



Firth lo fissava con gli occhi sgranati, con sguardo terrorizzato e incapace di proferire parola.



“Che cosa hai fatto?” gridò Gareth. “Ora siamo finiti tutti e due!”



“Ma… ma…” balbettò Firth,” … ero certo che fosse morto!”

 



“Sei così sicuro di tante cose,” disse Garet, “e sono tutte sbagliate!”



A Gareth venne in mente una cosa.



“Quel pugnale,” disse. “Dobbiamo recuperarlo, prima che sia troppo tardi.”



“Ma l’ho buttato via, mio signore,” disse Firth. “È stato sicuramente portato via dalla corrente del fiume!”



“Lo hai gettato in uno scarico. Questo non significa che sia già finito nel fiume.”



“Ma �

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