Racconti Buonisti

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"Più rilassata. Stai tranquilla, e cerca di sentirti più a tuo agio. Non sei mica sotto la minaccia di una pistola", mi sentii dire diverse volte, con leggere varianti, durante i numerosi ciak delle scene con Alfonso.

Poi invece la scena in cui partivo da sola col motorino andò molto meglio, anche perché da copione dovevo essere nervosa e preoccupata. Ma di queste riprese non ricordo gran che, se non alla fine l'aiuto regista che mi disse:

"Bene, abbiamo finito. Lascia ad Alvaro il tuo nominativo, se non l'hai già fatto, e con il foglio che ti darà presentati all'amministrazione per il compenso non prima di una settimana. Ora riprendi pure le tue cose. Mi raccomando, lasciaci tutti i vestiti e gli accessori di scena. Se non vuoi tornare a Cinecittà, puoi cambiarti sul furgone."

Seguii alla lettera le sue istruzioni. Quando alla fine uscii dal furgone mi accorsi che tutti stavano aspettando me, come una diva … ma solo per potersene andare. O almeno, tutti tranne Alfonso, che mi porse nuovamente il casco.

"Posso avere il piacere di accompagnarti a casa?", mi chiese. "Tanto la mia moto e la mia guida le conosci, sai che ti puoi fidare".

Io ero sfinita, accaldata e per giunta affamata. Sicuramente tornare a casa in moto sarebbe stato più veloce e piacevole che non coi mezzi pubblici.

"Con piacere", gli risposi, "basta che non vai troppo forte."

"D'accordo", mi rispose lui. E partimmo.

Ero convinta che di solito un uomo, portando dietro di sé una donna in moto, cerchi sempre inconsciamente di spaventarla con la velocità, in modo da far si che lei si stringa a lui e lo abbracci forte. Un contatto fisico ed un senso di potenza e protezione che, pensavo, fanno sempre piacere anche a lei, ma soprattutto a lui. Ebbene quel giorno dubitai di questa mia convinzione.

"Più rilassata. Stai tranquilla. Cerca di sentirti più a tuo agio", mi disse in un paio di occasioni, scimmiottando i precedenti consigli dell'aiuto regista. Non pensai ad una sua burla perché certamente, così senza pensarci, lo stavo stringendo troppo: ebbi persino il dubbio di fargli male. Fatto sta che allentai la presa. Lui andò veramente piano ed io mi sentii davvero piacevolmente a mio agio. Tanto mi stavo rilassando che avrei rischiato di addormentarmi in quella posizione, pensai lungo il tragitto. Notai che non stava facendo la strada più breve, ma una specie di giro panoramico della città. Però non dissi niente: anzi, mi piacque molto, e quando mi resi conto che stavamo arrivando a casa ne ero quasi dispiaciuta.

Una volta arrivati, scesi dalla moto, mi tolsi il casco e lo ringraziai.

"Posso darti un bacio?", mi chiese lui a bruciapelo.

"Si", risposi io a bruciapelo, "ma sulla guancia, oppure sulla fronte, se preferisci." Non mi sentivo più coraggiosa come una ventenne, come la Silvestrini, tanto da cominciare una nuova avventura sentimentale, e per giunta proprio sotto il portone di casa mia.

Alfonso mi diede un bacio sulla guancia, ed uno sulla fronte; e ciò bastò per farmi avvampare. "Si capisce subito che non sei un'attrice, e che non potresti neanche mai diventarlo", mi disse sorridendo prima di ripartire in moto.

Probabilmente aveva ragione, e non mi dispiaceva affatto. Attori e attrici divorziano spesso, creando e distruggendo fragili famiglie, riflettei pensando con nostalgia alla mia cara famigliola. Mi toccai la fede sul mio dito, tanto per verificare che fosse ancora lì: fu allora che mi venne in mente che non l'avevo tolta durante le riprese, e nessuno se l'era ricordato. Chissà, magari avevo rovinato tutta la scena.

Tra questi pensieri salii a casa di Enrica, misi qualcosa sotto i denti ed esausta mi buttai sul primo letto che trovai, e mi addormentai.

Mi risvegliai con la suoneria di un cellulare. Che strano sogno ho fatto, pensavo mentre cercavo prima di localizzare la fonte di quel suono e poi, una volta cessato, di orientarmi per capire dove mi trovassi.

Poi suonò il campanello, ed io, realizzato dove mi trovavo e perché, andai ad aprire. Era Enrica, tornata quella di sempre.

"Bene, vedo che anche tu non hai usato la lacca e sei tornata in te. Per fortuna, altrimenti i tuoi figli sarebbero rimasti qualche ora senza mamma."

Mi guardai allo specchio e constatai, con un certo sollievo, che quello che diceva era vero.

"Io sono uscita che loro dormivano. Se ti chiedessero perché … per buttare la spazzatura. E adesso vai, se no potrebbero preoccuparsi o insospettirsi."

Ci scambiammo nuovamente le chiavi e il telefonino. Io presi anche la spazzatura, e uscii di casa a buttarla.

Era domenica mattina presto e, nonostante avessi dormito per un sacco di tempo, mi sentivo ancora assonnata. Rientrai a casa, stavolta la mia, e senza far rumore mi svestii, mi infilai nel mio letto e mi rimisi a dormire.

IL CAMPIONE E LO STUDENTE

“Ha capito la domanda? Giovanotto: mi sta a sentire si o no?”

Riccardo sembrava assente, del tutto indifferente a quanto gli stava dicendo il professore al cui cospetto si trovava seduto per affrontare un esame universitario.

“Ehi, ragazzo: dico a te.”

Il tono di voce stava salendo, segno che il docente stava perdendo la pazienza; ma la giovane assistente intervenne in difesa dello studente.

“La prego, non alzi troppo la voce, professore. Una volta ho avuto a che fare con una ragazza che soffriva di una forma leggera di epilessia. Anche lei aveva dei momenti in cui la mente era come assente. Dicono che in questi casi la cosa migliore sia aspettare che tornino in loro. Gli lasci cinque minuti per riprendersi. Lo conosco bene, ha frequentato tutte le esercitazioni e mi pare un ragazzo molto preparato: non può non conoscere questo argomento basilare.”

“Va bene. Se ha qualche problema di salute, veniamogli incontro; ma non la passerà liscia se scopro che si prende gioco di me. Comunque non abbiamo tempo da perdere. Gli esaminandi sono tanti. Passo ad un altro ragazzo, poi quando ho finito vediamo come si sente.”

L’assistente rimase seduta vicino a Riccardo chiamandolo dolcemente per cognome, e poi anche per nome, e poco dopo riuscì ad avere la sua attenzione.

“Ci sei? Ti senti bene adesso?”

“Si, direi di si. Perché? Cosa è successo?”

“Sembravi altrove. Il professore parlava e tu non gli davi retta.”

“Ho avuto l’impressione … come di essere in volo. Mi sentivo leggero e strano.”

“Hai qualche problema di salute? Che so io, ti è già capitato di avere qualche piccola amnesia temporanea?”

“No, non che mi ricordi. Anche se ultimamente ho fatto un sogno strano. Sognavo che …”

“Allora, giovanotto: si sente meglio adesso?”, intervenne il professore che, vedendolo parlare, si era avvicinato.

“Si, mi sento meglio.”

“Se la sente di iniziare l’esame? Dei suoi sogni, se vuole, ne parla dopo con qualcun altro.”

“Si professore, sono pronto.”

L’interrogazione andò molto bene.

“Le metto trenta, se però mi promette di tenere d’occhio la sua salute”, gli propose l'esaminatore.

Riccardo annuì.

Il professore si era già allontanato, mentre l’assistente procedeva alla verbalizzazione.

“Se può esserti utile, posso darti il nome di un mio amico, docente a medicina e specialista in problemi neurologici. E’ molto bravo, ed opera sia in strutture pubbliche che private.” Riccardo fece nuovamente cenno di si con il capo.

“Non sottovalutare questo problema: potrebbe avere brutte conseguenze anche sul tuo iter scolastico. Hai un’ottima media, e sono convinto che, se non fosse stata per la tua falsa partenza, avresti avuto la lode anche oggi. Sei molto brillante, hai le carte in regola per ambire a qualcosa in campo universitario: borse di studio, dottorato, specializzazioni. A proposito, se vuoi già cominciare ad approfondire questa materia in ottica tesi, vieni pure a trovarmi quando vuoi: in questo dipartimento si lavora bene, e sappiamo apprezzare chi lavora bene.”

Riccardo archiviò anche quell’esame con soddisfazione, preparandosi come sua abitudine a qualche giorno di riposo e spensieratezza; tuttavia le parole dell’assistente lo fecero pensare.

Rifletté non tanto sulla necessità di farsi visitare (“ magari se mi succede ancora; ma un professore di grosso calibro chissà quanto vuole”, pensò), quanto sull’opportunità di iniziare già a interessarsi alla tesi e ad un futuro nell’università. Ma soprattutto doveva informarsi sulle possibilità di borse di studio: sapeva che per papà era un vero sacrificio farlo studiare.

La domenica successiva era già pianificato che sarebbe andato allo stadio in compagnia. Non ci andava mai perché gli sembrava che costasse troppo e perché non era poi così tifoso della squadra cittadina come i suoi amici; ma stavolta la sua comitiva disponeva di un biglietto in più. L’avevano avuto a poco prezzo – gli avevano detto - da un ragazzo che non poteva venire. Se avesse approfondito l’argomento, Riccardo avrebbe scoperto che era un modo carino per festeggiarlo senza ferire il suo orgoglio (perché difficilmente avrebbe accettato di venire senza pagare), e al tempo stesso realizzare il suo desiderio di vedere dal vivo Raul Francisco, astro nascente del calcio brasiliano.

“Peccato che Raul Francisco non giochi nella nostra squadra, ma contro. Guai a te se fai il tifo per la squadra sbagliata”, gli dicevano i suoi amici prendendolo in giro.

Ma perché - vi starete chiedendo - tanta curiosità di vedere all’opera quel giocatore? Semplice: perché tutti dicevano che Riccardo gli somigliava tantissimo. Gli era persino capitato che qualcuno lo fermasse per strada e gli chiedesse un autografo, o che gli dicesse: “Bravo, sei forte!”.

 

Erano addirittura nati nello stesso anno, anche se in continenti diversi.

“E’ come avrei potuto diventare io, con un po’ di fortuna”, pensava alle volte Riccardo. Forse avrebbe anche potuto odiarlo; e invece, vai a capire la mente umana, divenne il suo idolo. Da quando l’aveva scoperto raccoglieva tutte le sue foto, tutte le notizie che trovava su di lui.

Andando allo stadio sapeva in cuor suo che avrebbe tifato per dodici dei giocatori in campo, e per uno più degli altri; e anche i suoi amici lo sapevano.

La notte prima della partita fece un altro strano sogno. Ne ricordò qualcosa, ma non lo raccontò a nessuno: “Mi prenderebbero in giro”, pensò; “sarà solo l’interiorizzazione dell’emozione di vedere il grande Raul”.

Si ricordava di essere stato in aereo, con la sua borsa sportiva e la tuta gialla e blu come quella di tutti gli altri passeggeri. Poi si era visto sulla spiaggia impegnato in una interminabile partita di pallone, bella ma stancante, durante la quale più di una volta aveva anche segnato ed aveva ricevuto complimenti sia dai compagni che dagli avversari. Ma quello che ricordava di più era la stanchezza; tanto che quando si svegliò al mattino gli pareva di sentire ancora i polpacci e le cosce dolenti.

E dire che Riccardo non giocava quasi mai a pallone, decisamente non ne era molto capace.

La domenica pomeriggio si ritrovò in curva coi suoi amici e altri tifosi che facevano un fracasso continuo ed inimmaginabile. Dopo un quarto d'ora di gioco il risultato non era cambiato. Era chiaro però che il migliore, a metà campo, era proprio Raul Francisco. Riccardo avrebbe voluto incitarlo e gioire per le sue prodezze, ma trovandosi circondato da tifosi biancorossocrociati, ossia della squadra di casa, si doveva trattenere. In più, per prendersi gioco di lui, i suoi amici inveivano regolarmente contro il campione brasiliano ogni qual volta toccava palla, ed incitavano i difensori a commettere interventi cattivi contro Raul.

Ad un tratto ce ne fu uno più violento degli altri nei confronti della caviglia di Francisco. "Bene, bene così. Più deciso la prossima volta", gridò uno dei suoi amici sperando che il campione dovesse lasciare il campo.

Il brasiliano rimase a terra dolorante. Sebbene l'autore del fallo fosse stato ammonito, la reazione della curva a quell'intervento fu di unanime esultanza. Ci fu qualcuno che cominciò a far scoppiare dei petardi, in una specie di scarica. Alla fine ce ne fu uno, isolato, che a Riccardo sembrò molto più forte ma in realtà era solo più vicino. Ne rimase stordito; dopo un attimo di sordità completa gli si annebbiò la vista, tanto che sentì il bisogno di chiudere gli occhi e di coprirseli con le mani.

Li riaprì quasi subito, riprendendo pieno possesso di tutti i suoi sensi. Incredulo, si rese conto di provare una fitta di dolore terribile alla caviglia. Il dolore si attenuava mentre un signore in tuta gialla e blu gliela fasciava stretta stretta.

"Adesso ti passa tutto. Puoi riprendere a giocare, non è niente", gli disse mentre Riccardo, stupito, constatava di indossare calzoncini corti e scarpini da calcio, e di essere seduto in mezzo al campo di gioco, percependo distintamente l'umidità del prato ed il solletico dei fili d'erba sulla pelle delle gambe.

"Dai, su: prova ad alzarti", e mentre si rimetteva in piedi scoprendo che effettivamente il dolore si era trasformato in un minimo fastidio, sentì la folla dello stadio fischiare e gridare a gran voce: "Ra-ul, Ra-ul"

Guardò in alto, e vide centinaia, forse migliaia di persone che acclamavano a lui, anzi a Raul, o forse era la stessa cosa.

"Sì", pensò, "magari poi ci andrò dallo specialista: ma adesso proprio non posso deluderli".

Cominciò a muoversi e a correre. "Forse è un sogno come stanotte", pensò. Ricevette subito un passaggio, ma perse palla malamente. Qualcuno fischiò. No, non era esattamente come nel sogno della notte prima. Ricevette un'altra palla e non riuscì neanche a controllarla; stavolta i fischi furono molto sonori. Gli altri sì che sapevano giocare, pensò. Si rese conto che non poteva rimanere in mezzo al campo. Fu preso da un tale sconforto, una tale disperazione, che il dolore alla caviglia gli parve riacutizzarsi. Si lasciò cadere per terra, pensando: "Se è un brutto sogno, forse mi sveglierò". Ed invece non si svegliò. Rimase per terra, con le mani a coprirsi gli occhi, più per la vergogna che per il dolore, finché alla prima pausa di gioco non tornò il signore di prima in tuta gialla e blu.

"Che hai, che ti ha preso?", gli chiese quello.

"No, non posso continuare a giocare. Mi deve far sostituire, assolutamente. E' l'unica cosa da fare."

Poi, fingendo di zoppicare e sorretto da quello che evidentemente era il medico della squadra, si portò oltre la linea laterale del campo, a ridosso della panchina. Nonostante il disappunto dell'allenatore, con gran sollievo di Riccardo entrò poco dopo il suo sostituto; e Riccardo (Raul per tutto il resto del mondo), dopo qualche ulteriore controllo da parte del medico, prese posto in panchina.

Era divertente guardare la partita così da vicino, anche se lo spettacolo era molto calato per l'assenza di quello che fin lì era stato decisamente il migliore in campo. Ma chi era poi costui, pensò Riccardo: sono davvero io? Si sforzò di guardare verso la curva, da dove gli risultava che un gruppetto di tifosi tra cui egli stesso Riccardo stessero seguendo l'incontro. Sperava di riuscire a vedersi laggiù, ma la distanza era troppa.

Cosa avrebbe dovuto fare? Adeguarsi a questa improvvisa ed assurda svolta che aveva preso il corso della sua vita; oppure contrastarla, cercando di riportare la sua esistenza sui binari della normalità? All'inizio, decidendo di non decidere, si rispose che per il momento preferiva godersi la partita, poi ci avrebbe pensato.

"Riccardo! Raul, Raul. Sono Riccardo." A un tratto, nella confusione e nel frastuono di voci dello stadio gremito, gli parve di distinguere queste parole. "Raul, sono Riccardo Boccadoro. Ti prego, vorrei parlarti."

Stavolta era sicuro di quello che aveva sentito: era stato pronunciato il suo nome, qualcuno si indirizzava a lui. Riccardo si alzò, cercando di individuare alle sue spalle chi lo stesse chiamando; ma dietro a sé il campo visivo era quasi completamente ostruito dalla panchina.

"Ci vediamo fra cinque minuti allo spogliatoio: ti prego, Raul, non mancare."

“Lo conosci davvero questo ragazzo?”, gli chiese un compagno di squadra seduto lì di fianco.

“Sì, lo conosco.” Per un attimo fu tentato di chiedergli come arrivare agli spogliatoi; ma poi si disse che li avrebbe trovati da solo, senza destare inutili sospetti.

Zoppicando si infilò giù per delle scale in un corridoio che sembrava vuoto, a parte una guardia della sicurezza.

“Raul, due parole al volo per Radio Campione?”, gli chiese un giovane trafelato, ben vestito ed armato di cuffie e microfono, sorprendendolo alle spalle.

“Vi prego, adesso no, lasciatemi andare a cambiare. E’ di qua il mio spogliatoio, vero?”

“Sì. Ma come ti senti? La caviglia ti fa male?”

“Sì, molto. Ma ora lasciatemi in pace.”

Aprì la porta di quello che gli sembrava essere uno degli spogliatoi. Non vedendo nessuno stava per richiuderla, ma si sentì chiamare:

“Riccardo. Sono qui.”

Rimase a bocca aperta. Di fronte a lui c’era un altro se stesso che indossava un cappotto e un paio di pantaloni che ben conosceva: gli mancava solo la sua sciarpetta biancorossa.

“Ma è incredibile: sei uguale spiccicato a me!”

Rimasero un po’ a fissarsi, increduli; poi l’altro, che da adesso in poi per comodità chiameremo Raul, lo portò con sé davanti ad uno specchio.

“Qualche differenza c’è. Io ero un po’ più alto, con una massa muscolare più sviluppata e senza questo brutto neo sotto la mascella. Insomma, ero un pochino più bello, ora sono un po’ più bruttino.”

“Già. In compenso io ho una caviglia che prima stava bene e che adesso mi fa male.”

“Senti: non so che cosa tu abbia combinato, ma sembra che almeno mi siano rimasti l’accento portoghese e l’abilità nel giocare a pallone. Che ne diresti se ci scambiassimo i vestiti, prima di combinare qualche altro pasticcio irreparabile?”

“Sì, scambiamoci i vestiti: mi sentirò più a mio agio. Comunque ti assicuro che io non ho fatto niente. Mi sono solo trovato lì, al tuo posto.”

“Spero solo di non perdere la maglia da titolare, dopo quanto hai combinato.”

Raul si spogliò e si fece una rapida doccia. Anche Riccardo decise di fare lo stesso. “Puoi usare il mio shampoo e la mia roba, se vuoi”, gli disse Raul.

Si rivestirono tornando ognuno nei propri abiti civili. Quelli di Raul erano notevolmente più eleganti.

“Ti lascio il mio numero di cellulare per qualunque evenienza”, gli disse Raul estraendo dal suo portafoglio un biglietto da visita. “Non lo dare a nessuno, è il mio numero super privato. E soprattutto mi raccomando: non fare parola di quanto è successo, soprattutto con la stampa. Altrimenti potresti rovinarmi la carriera.” Tirò fuori anche due banconote di grosso taglio: “Queste sono per il disturbo, e per la visita medica. Buona fortuna.” Raul gli strinse la mano per salutarlo, e se ne stava andando.

“Aspetta: chi ci assicura che non succederà di nuovo?” obiettò Riccardo.

Raul si fermò a riflettere. “Hai ragione. Potrebbe succedere ancora. Forse è meglio che restiamo insieme per un po’. Però cerchiamo di non farci notare.”

Col bavero alzato per nascondersi il più possibile, Raul fece strada a Riccardo, imbacuccato nella sua sciarpa biancorossa ritrovata arrotolata nella tasca del cappotto, e sgattaiolarono fuori dallo stadio evitando qualunque possibile incontro. Una volta al sicuro da tifosi e giornalisti, Raul chiamò un taxi col cellulare.

“Andiamo in centro: è meglio rimanere lontano da qui per almeno un paio d’ore. Anzi, ho un’idea migliore.”

Chiamò qualcuno della squadra, forse l’allenatore. Con un accento portoghese più marcato - che evidentemente faceva parte della sua immagine pubblica, ma che volendo poteva attenuare – riferì qualcosa di un suo cugino che era venuto a Roma, e avvertì che sarebbe tornato in sede con mezzi propri.

“Davvero ti è venuto a trovare un tuo parente?”, chiese Riccardo al termine della telefonata.

“Sì: sei tu il mio cugino di cui parlavo. Sei molto credibile in questo ruolo, non è vero? Scherzi a parte, tutti i miei parenti sono in Brasile. E’ più di un anno che vivo da solo in Italia; ma questo paese mi piace molto.”

“E ti mancano il tuo papà e la tua mamma?”

“Sì, abbastanza; e anche i miei fratelli e le mie sorelle, cinque in tutto. Ma non mi dimentico di loro. Ogni mese gli mando un po’ di soldi. Qui io guadagno bene, ed in Brasile si sopravvive con poco. Ecco un taxi, deve essere il nostro.”

Si sbracciarono per farsi vedere.

“C’è un bell’albergo in cui mi fermo sempre quando vengo qui. Potremmo andarci, se vuoi”, propose Raul.

“Ti va invece il cinema? Ho da poco dato un esame, e questo fine settimana volevo distrarmi un po’. E’ per questo che sono venuto allo stadio, anche se a dire il vero non mi sono tanto rilassato.”

Risero tutti e due.

“Va bene. Scegli pure tu il film ed il cinema, meglio se un po’ lontano da qui. E’ un’ottima idea, così staremo al buio e non daremo nell’occhio.”

Salirono sul taxi, che nel frattempo era arrivato, e Riccardo diede indicazione al conducente.

Uscirono dal cinema che era buio. Il film era stato bello.

“Hai detto che hai appena passato un esame?”, chiese Raul.

Riccardo assentì.

“E’ curioso. Proprio l’altra notte ho sognato che davo un esame. E’ stato quasi un incubo per me che ho fatto solo qualche anno di elementari. Quando mi sono svegliato avevo la testa che mi scoppiava.”

Riccardo ripensò al suo strano sogno di qualche giorno prima, quando si era svegliato con le gambe doloranti.

“Ma è stato un incubo peggiore”, proseguì Raul, “ritrovarmi in curva tra tifosi che lanciavano accidenti e maledizioni di ogni genere contro di te; anzi, contro di me. E’ stato proprio avvilente. Spero che quelli non fossero tuoi amici, e che tu non sia come loro.”

“Alcuni li conosco un po’. Ma stai tranquillo: io non sono come loro. Anzi, sono un tuo grande ammiratore. Chissà, forse è per questo che è successo quello che è successo. A proposito: ho un’idea. Vieni un attimo a casa mia: ti faccio vedere alcune cose interessanti.”

 

L’abitazione di Riccardo era lì vicino. Suo padre era in casa e quando li vide chiese sbigottito: "Chi di voi due è mio figlio?"

"Sono io, papà", rispose Riccardo. "Oggi allo stadio c'era un concorso per il miglior sosia di Raul Francisco. E' per questo che i miei amici mi ci hanno portato. Io e lui siamo risultati vincitori a pari merito, con un premio di duecento euro ciascuno", aggiunse Riccardo quasi meravigliandosi di come gli riusciva bene inventare frottole, pur non avendolo mai fatto.

"Bene, bene. Fanno sempre comodo. Con quello che costano i tuoi libri!"; quindi, rivolgendosi a Raul: "Sei dei nostri per la cena?"

"Volentieri", gli rispose col suo miglior accento portoghese.

Riccardo fece entrare Raul in camera sua. Tirò fuori da un cassetto alcuni fogli piegati, e cominciò ad aprirli adagiandoli sul suo letto.

“Questo sei tu”, gli disse mano a mano che dispiegava i suoi poster, “e anche questo, e pure quest’altro. Ti riconosci?”

“E come hai fatto a procurarteli? Neanche mia mamma a casa sua possiede così tante foto di me.”

“Me li hanno dati per lo più i miei amici - alcuni li hai visti oggi allo stadio - per farmi vedere quanto ci somigliamo. E poi ho tutti questi articoli di giornali e riviste che parlano di te. Ma per lo più dicono sciocchezze, secondo me; cose poco importanti e forse neanche vere.”

Raul incuriosito ne lesse qualcuno in silenzio, ogni tanto emettendo qualche breve ed espressivo commento. Ma a un tratto smise di leggere e poggiò tutto.

"Alla tua collezione penso che dovresti aggiungere un altro pezzo importante." Aprì il suo borsone e ne tirò fuori la maglietta da gioco biancoverde, ancora puzzolente di sudore. "L'hai portata un po' anche tu, quindi te la meriti in pieno. E potrai dire che è originale, non una copia come tante."

Riccardo fu d'accordo. Cominciò a frugare tra i suoi cassetti. "Devo avere un pennarello indelebile da qualche parte. Così mi ci puoi fare l'autografo e magari anche una dedica, se non ti dispiace."

"Va bene", rispose Raul. Prese una penna dal caos della scrivania e iniziò a firmare i poster. "Però, se vuoi il mio parere, questa maglietta devi lavarla e cominciare a usarla un po' più spesso. Per giocarci a pallone, naturalmente: ho visto che hai davvero molto da imparare. E se il mio autografo si scolorisce me lo fai sapere: la prossima volta che passo di qua te lo rifaccio."

"Mi piacerebbe che fossi tu a insegnarmi a giocare", rispose Riccardo.

"Temo che non sia possibile. I miei impegni sono molto lontani da qui. Già domani pomeriggio devo essere con la squadra per la visita medica e gli allenamenti."

Terminato con gli autografi, Raul cominciò affascinato a curiosare nella stanza tra i tanti e disordinati libri di Riccardo.

"Sono tutti tuoi questi libri?"

"Si, naturalmente."

"E li hai letti tutti?"

"Tutti. Qualcuno più che letto l'ho studiato. Qualcuno a dire il vero lo devo ancora studiare."

"Deve essere bello come passatempo. A casa mia di libri non ce n'erano. Solo quelli per imparare a leggere e scrivere, che ci siamo passati l'uno all'altro." Mentre parlava, evidentemente a suo agio, riaffiorava leggermente il suo simpatico accento portoghese. "Ora i più piccoli possono studiare di più, anche grazie alla mia fortuna. Ma la mia fortuna è dovuta anche a questo: a casa non c'era quasi posto neanche per noi, ed erano tutti contenti che noi andassimo a giocare fuori. E io giocavo a pallone tutto il giorno, ovunque: tornavo a casa solo per dormire e mangiare. Mi divertivo, ed ero anche bravo, come puoi immaginare."

"Hai detto che hai fatto solo le elementari?"

"Neanche tutte. Forse due o tre anni. Mi piacerebbe mandare un po' di soldi anche alla mia vecchia scuola. Adesso sto studiando l'italiano, e mi riesce abbastanza bene. Ma le altre materie no, non sono portato. Mi ero iscritto a una di quelle scuole per gli adulti, e ho mollato subito."

"Io ho sempre avuto bisogno di leggere. Di storie nuove, di fantasia, più che altro. Forse perché da piccolo mi leggevano sempre le favole prima di dormire."

"Anche a me mi raccontavano le favole. Mia mamma, o anche le mie sorelle. Ma le sapevano tutte a memoria, o forse le inventavano. D'altronde mia mamma tuttora non sa leggere. Ma qui in Italia vado spesso al cinema. E' bello, mi piace."

"Come hai detto che ti chiami?"

"Tutti gli amici mi chiamano Raul. Potete chiamarmi così anche voi, se volete", rispose l'ospite ai genitori di Riccardo.

La cena era andata via tranquilla, con Raul di poche parole, ma cortese ed educato. Quando gli fu chiesto da dove venisse, si ricordò di una serata di beneficenza in un quartiere periferico e popolare di Palermo e disse di venire da lì. Sembrava quasi che parlasse della povertà del suo Brasile.

"E stasera dove dormi? Vuoi dormire da noi? C'è posto, se vuoi."

"No grazie. Ho dei conoscenti qui a Roma." Poi, terminato l'ultimo boccone del dessert: "Complimenti, signora: è tutto davvero molto buono."

"Oh, non esagerare. Proprio niente di particolare. Se avessi saputo prima che ti fermavi a mangiare ti avrei fatto trovare qualcosa di meglio."

"Riccardo, vuoi venire anche tu con me in discoteca questa sera? Conosco un locale davvero carino." Riccardo esitò alla proposta del suo amico. Le discoteche in genere non erano davvero la sua passione; però gli dispiaceva che quella giornata così straordinaria finisse in maniera banale, ed era tentato di seguire il suo idolo per quanto possibile.

"Visto l'esito dell'esame te lo meriti davvero di concederti una serata di svago", commentò suo padre.

"Va bene, mi avete convinto: stasera vado a ballare. Datemi solo il tempo di vestirmi in maniera un po' più adatta."

"A casa tua sono stato tuo ospite, qui tu sei ospite mio", insistette Raul che per tutta la serata non gli lasciò mettere mano al portafoglio. Lo portò in un posticino davvero molto bello. Musica, tanta gente danzante e consumazioni a volontà. Ma dopo neanche mezz'ora Riccardo si era già stufato di ballare. Si mise seduto, su una specie di poltrona in un angolino, ad osservare quello che succedeva nell'ampio locale illuminato a intermittenza da luci colorate e roteanti. Raul ballava senza sosta; quando si fermava, si metteva a chiacchierare con chi gli capitava. Nessuno sembrava riconoscerlo.

"Dai, vieni a ballare anche tu!", gli disse cercando di toglierlo da quella poltrona. "No, non posso, con questa caviglia", rispose Riccardo. Ma non era per quello. Non ne aveva voglia, e forse era troppo impegnato a rimuginare su quanto accaduto quel giorno. Era stata la sua invidia a provocare quel curioso scambio di corpi o di anime? Magari c'era una predisposizione dovuta alla loro somiglianza; o era stata una stregoneria di qualche tifoso? Raul sembrava proprio un bravo ragazzo, più semplice di quanto lo dipingessero i giornali, ma davvero ricco. Però quasi analfabeta, e lontano dalla sua famiglia. Gli dispiaceva davvero, anche se involontariamente ed inspiegabilmente, avergli causato dei problemi.

"E' molto bello qui, non trovi?", gli chiese Raul in un altro suo momento di pausa. Riccardo fece con la testa un cenno che poteva essere anche interpretato come un si, ma sicuramente non lasciava trasparire nessun entusiasmo.

"Sto pensando di comprare una parte del locale, e diventarne socio; e magari quando mi ritiro dal calcio vengo qui a fare il gestore. O anche solo il barman, mi piacerebbe. Tu che ne dici?"

Riccardo non aveva certo questo tipo di aspirazioni. "Ma non hai intenzione di tornare in Brasile quando avrai finito come calciatore?"

"Non lo so. Bisogna vedere. Se sposo una ragazza italiana è probabile che mi fermo. E poi dicono che non è facile riadattarsi a tornare indietro quando ci si è abituati ad un certo tenore di vita. Ma vedrai che finirò per fare come tanti calciatori: l'allenatore o il commentatore o giornalista sportivo."

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