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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2

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Me duce, Dardanius Spartam expugnavit adulter? ecc.
 

E per questo vogliono molti, preso daʼ greci Ilione, Elena aver meritato dʼessere stata ricevuta da Menelao. E cosí Paris ebbe la piú bella donna di Grecia, secondo la promessa di Venere: la quale in Troia menatane, vi portò quella facellina, la quale Ecuba, essendo gravida in lui, avea nel sonno veduta che tutta Troia ardea. Adunque per questa rapina congiurati i greci insieme, vennero ad assediare Ilione: nel quale essendo prima stato ucciso Ettore, e poi Troilo, esso medesimo Paris fu ucciso da Pirro, figliuolo dʼAchille.

Séguita poi: «Tristano».

Tristano, secondo i romanzi deʼ franceschi, fu figliuolo del re Meliadus e nepote del re Marco di Cornovaglia, e fu, secondo i detti romanzi, prode uomo della persona e valoroso cavaliere: e dʼamore men che onesto amò la reina Isotta, moglie del re Marco, suo zio, per la qual cosa fu fedito dal re Marco dʼun dardo avvelenato. Laonde vedendosi morire, ed essendo la reina andata a visitarlo, lʼabbracciò, e con tanta forza se la strinse al petto, che a lei e a lui scoppiò il cuore, e cosí insieme morirono, e poi furono similmente seppelliti insieme. Fu costui al tempo del re Artú e della Tavola ritonda, ed egli ancora fu deʼ cavalieri di quella Tavola.

«E piú di mille Ombre mostrommi, e nominolle a dito», dice «mille», quasi molte, usando quella figura la qual noi chiamiamo «iperbole»; «Chʼamor», cioè quella libidinosa passione, la qual noi volgarmente chiamiamo «amore», «di nostra vita dipartille», con disonesta morte; percioché, per quello morendo, onestamente morir non si puote.

«Poscia chʼio ebbi». Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella qual dissi che lʼautore con alcuni spiriti dannati a questa pena parlava, e dice: «Poscia chʼio ebbi il mio dottore udito Nomar le donne antiche e i cavalieri», che di sopra ha nominati; «Pietá mi vinse e fui quasi smarrito». In queste parole intende lʼautore dʼammaestrarci che noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene deʼ dannati; ma, visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietá, e dover temere di non dovere in quella dannazione pervenire, e compugnerci ed affliggerci, accioché tal meditazione ci sospinga a quelle cose adoperare, le quali di tal pericolo ne tragghino e dirizzinci in via di salute. E usa lʼautore di mostrare di sentire alcuna passione, quando maggiore e quando minore, in ciascun luogo: e quasi dove alcun peccato si punisce, del quale esso conosca se medesimo peccatore. E, avuta questa passione al suo difetto, sèguita: «Io cominciai: – Poeta, volentieri Parlerei a queʼ due che ʼnsieme vanno», essendo da quella bufera portati, «E» che «paiono sí al vento esser leggeri», – cioè con minor fatica volanti. «Ed egli a me: – Vedrai quando saranno», menati dal vento, «Piú presso a noi, e tu allor gli prega, Per quellʼamor, che i mena», qual che quello amor si sia, «ed eʼ verranno», qui, da quellʼamor, per lo qual pregati fieno, costretti. «Sí tosto, come ʼl vento a noi gli piega, Muovi la voce» – cioè priega come detto tʼho.

Per la qual cosa lʼautore, che verso di sé venir gli vide, cominciò a dire in questa guisa: – «O anime affannate», dal tormento e dalla noia di questo vento, «Venite a noi parlar, sʼaltri nol niega», – cioè se voi potete.

«Quali colombe». Qui lʼautore, per una comparazione, ne dichiara con quanta affezione quelle due anime chiamate venissero a lui. «Quali colombe dal desio», di rivedere i figliuoli, «chiamate», cioè incitate, «Con lʼali alzate», volando, «e ferme», con lʼaffezione, «al dolce nido», nel quale i figliuoli hanno lasciati, per dover cercar pastura per li figliuoli e per loro; «Vengon per lʼaer», verso il nido, «dal voler portate»; percioché gli animali non razionali non hanno altra guida nelle loro affezioni che la volontá; «Cotali uscir», questi due, «della schiera ovʼè Dido», la qual di sopra disse che andavano per quello aere a guisa che volano i grú; «A noi venendo per lʼaer maligno», quanto è a loro che quivi tormentati erano: «Sí forte», cioè sí potente, «fu lʼaffettuoso grido», cioè priego (non si dee credere che lʼautor gridasse). E venuti disson cosí: – «O animal grazioso e benigno», chiamanlo per ciò «grazioso e benigno», perché benignamente pregò; il che laggiú non suole avvenire, anzi vi si usa per li ministri della divina giustizia rigidamente comandare: «Che visitando vai per lʼaer perso», cioè oscuro, «Noi, che tignemmo ʼl mondo di sanguigno», quando uccisi fummo; percioché, versandosi il lor sangue, dovunque toccò tinse di color sanguigno; «Se fosse amico», di noi, come egli è nemico, «il Re dellʼuniverso», cioè Iddio, «Noi pregheremmo lui per la tua pace», cioè che pace ti concedesse, «Poi cʼhai pietá del nostro mal perverso», cioè al nostro tormento. «Di quel chʼudire» da noi, «e che parlar ti piace» a noi, «Noi udiremo», parlando tu, «e parleremo a vui», rispondendo a quelle cose delle quali domanderai, «Mentre che ʼl vento», cioè quella bufera, «come fa», al presente, «ne tace», cioè non cʼinfesta.

«Siede la terra». Qui comincia costei a manifestare se medesima, senza essere addomandata; e ciò fa per mostrarsi piú pronta aʼ suoi piaceri. Ma, prima che piú avanti si proceda, è da raccontare chi costei fosse, e perché morta, accioché piú agevolmente si comprenda quello che essa nelle sue seguenti parole dimostrerá. È adunque da sapere che costei fu figliuola di messer Guido vecchio da Polenta, signor di Ravenna e di Cervia; ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori Malatesti da Rimino, addivenne che per certi mezzani fu trattata e composta la pace tra loro. La quale accioché piú fermezza avesse, piacque a ciascuna delle parti di volerla fortificare per parentado; e ʼl parentado trattato fu che il detto messer Guido dovesse dare per moglie una sua giovane e bella figliuola, chiamata madonna Francesca, a Gianciotto, figliuolo di messer Malatesta. Ed essendo questo ad alcuno degli amici di messer Guido giá manifesto, disse un di loro a messer Guido: – Guardate come voi fate, percioché, se voi non prendete modo ad alcuna parte, che in questo parentado egli ve ne potrá seguire scandolo. Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e quanto ellʼè dʼaltiero animo: e, se ella vede Gianciotto, avanti che il matrimonio sia perfetto, né voi né altri potrá mai fare che ella il voglia per marito. E perciò, quando vi paia, a me parrebbe di doverne tener questo modo: che qui non venisse Gianciotto ad isposarla, ma venisseci un deʼ frategli, il quale come suo procuratore la sposasse in nome di Gianciotto. – Era Gianciotto uomo di gran sentimento, e speravasi dover lui dopo la morte del padre rimanere signore; per la qual cosa, quantunque sozzo della persona e sciancato fosse, il disiderava messer Guido per genero piú tosto che alcuno deʼ suoi frategli. E, conoscendo quello, che il suo amico gli ragionava, dover poter avvenire, ordinò segretamente che cosí si facesse, come lʼamico suo lʼavea consigliato. Per che, al tempo dato, venne in Ravenna Polo, fratello di Gianciotto, con pieno mandato ad isposare madonna Francesca. Era Polo bello e piacevole uomo e costumato molto; e, andando con altri gentiliuomini per la corte dellʼabitazione di messer Guido, fu da una damigella di lá entro, che il conoscea, dimostrato da un pertugio dʼuna finestra a madonna Francesca, dicendole: – Madonna, quegli è colui che dee esser vostro marito; – e cosí si credea la buona femmina; di che madonna Francesca incontanente in lui pose lʼanimo e lʼamor suo. E fatto poi artificiosamente il contratto delle sponsalizie, e andatane la donna a Rimino, non sʼavvide prima dellʼinganno, che essa vide la mattina seguente al dí delle nozze levare da lato a sé Gianciotto: di che si dee credere che ella, vedendosi ingannata, sdegnasse, né perciò rimovesse dellʼanimo suo lʼamore giá postovi verso Polo. Col quale come ella poi si giugnesse, mai non udii dire, se non quello che lʼautore ne scrive; il che possibile è che cosí fosse. Ma io credo quello essere piú tosto fizione formata sopra quello che era possibile ad essere avvenuto, ché io non credo che lʼautore sapesse che cosí fosse. E perseverando Polo e madonna Francesca in questa dimestichezza, ed essendo Gianciotto andato in alcuna terra vicina per podestá, quasi senza alcun sospetto insieme cominciarono ad usare. Della qual cosa avvedutosi un singulare servidore di Gianciotto, andò a lui, e raccontògli ciò che della bisogna sapea, promettendogli, quando volesse, di fargliele toccare e vedere. Di che Gianciotto fieramente turbato, occultamente tornò a Rimino, e da questo cotale, avendo veduto Polo entrare nella camera da madonna Francesca, fu in quel punto menato allʼuscio della camera, nella quale non potendo entrare, ché serrata era dentro, chiamò di fuora la donna, e dieʼ di petto nellʼuscio. Per che da madonna Francesca e da Polo conosciuto, credendo Polo, per fuggire subitamente per una cateratta, per la quale di quella camera si scendea in unʼaltra, o in tutto o in parte potere ricoprire il fallo suo; si gittò per quella cateratta, dicendo alla donna che gli andasse ad aprire. Ma non avvenne come avvisato avea, percioché, gittandosi giú, sʼappiccò una falda dʼun coretto, il quale egli avea indosso, ad un ferro, il quale ad un legno di quella cateratta era; per che, avendo giá la donna aperto a Gianciotto, credendosi ella, per lo non esservi trovato Polo, scusare, ed entrato Gianciotto dentro, incontanente sʼaccorse Polo esser ritenuto per la falda del coretto, e con uno stacco in mano correndo lá per ucciderlo, e la donna accorgendosene, accioché quello non avvenisse, corse oltre presta, e misesi in mezzo tra Polo e Gianciotto, il quale avea giá alzato il braccio con lo stocco in mano, e tutto si gravava sopra il colpo: avvenne quello che egli non avrebbe voluto, cioè che prima passò lo stocco il petto della donna, che egli aggiugnesse a Polo. Per lo quale accidente turbato Gianciotto, sí come colui che piú che se medesimo amava la donna, ritirato lo stocco da capo, ferí Polo e ucciselo: e cosí amenduni lasciatigli morti, subitamente si partí e tornossi allʼuficio suo. Furono poi li due amanti con molte lacrime, la mattina seguente, seppelliti e in una medesima sepoltura.

 

Dice adunque la donna, dal luogo della sua origine cominciando: – «Siede», cioè dimora, «la terra», cioè la cittá di Ravenna, antichissima per quello che si crede, e fu colonia deʼ sabini, quantunque i ravignani dicano che essa fosse posta ed edificata daʼ nipoti di Noé; «dove nata fui, Su la marina», del mare Adriano, al quale ella è vicina due miglia, e per alcune dimostrazioni appare che essa giá fosse in sul mare; «dove ʼl Po discende». Nasce il Po nelle montagne che dividono Italia dalla Provenza, e, discendendo giú verso il mare Adriano, per trenta grossi fiumi, che da Appennino e dallʼAlpi discendono, diventa grossissimo fiume, e tra Mantova e Ferrara si divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso Ferrara, e lʼaltra ad una villa di Ferrara chiamata Francolino: e pervenuto a Ferrara, similemente si divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso Ravenna, e diciotto miglia lontano ad essa, in luogo chiamato Primaro, mette in mare. «Per aver pace coʼ seguaci sui», cioè coʼ fiumi che, mettendo in esso, seguitano il corso suo, e, come esso con essi mette in mare, hanno pace, in quanto piú non corrono.

«Amor, chʼal cor gentil»: dimostrato per le predette discrizioni il luogo donde fu, comincia a mostrare la cagione della sua morte; e primieramente dice Polo essersi innamorato di lei; poi sé dice essersi innamorata di lui. E, quantunque questa materia dʼamore venga pienamente a dovere essere trattata nel secondo libro di questo volume, nel canto diciassettesimo; nondimeno, per alcuna piccola dichiarazione alle parole che costei dice, alcuna cosa qui ne scriverò. Piace ad Aristotile esser tre spezie dʼamore, cioè amore onesto, amore dilettevole e amore utile: e quellʼamore, del quale qui si fa menzione, è amor dilettevole. E perciò, lasciando star degli altri due, dico che questo amor per diletto chiamano i poeti Cupido, e dicono che egli fu figliuolo di Marte e di Venere, sí come Tullio nel libro De natura deorum testimonia: e a costui attribuiscono i poeti grandissime forze, sí come per Seneca appare nella tragedia dʼIpolito, nella quale dice:

 
Et iubet caelo superos relicto
vultibus falsis habitare terras.
Thessali Phoebus pecoris magister
egit armentum, positoque plectro
impari tauros calamo vocavit.
Induit formas quotiens minores,
ipse, qui caelum nebulasque ducit?
Candidas ales modo movit alas, ecc.
 

E, oltre a ciò, gli discrivono varie forme, alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga la storia. Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia appartiene, dico che questo Cupidine, o Amor che noi vogliam dire, è una passion di mente delle cose esteriori, e, per li sensi corporei portata in essa, è poi approvata dalle virtú intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla ricevere. Percioché, secondo che gli astrologi vogliono (e cosí affermava il mio venerabile precettore Andalò), quando egli avviene che, nella nativitá dʼalcuno, Marte si trovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e trovisi esser significatore della nativitá di quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alí nel comento del Quadripartito che, qualunque ora nella nativitá dʼalcuno Venere insieme con Marte participa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che nasce una disposizione atta aglʼinnamoramenti e alle fornicazioni. La quale attitudine ha ad adoperare che, cosí tosto come questo cotal vede alcuna femmina, la quale daʼ sensi esteriori sia commendata, incontanente quello, che di questa femmina piace, è portato alle virtú sensitive interiori, e questo primieramente diviene alla fantasia, e da questa è mandato alla virtú cogitativa, e da quella alla memorativa; e poi da queste virtú sensitive è trasportato a quella spezie di virtú, la quale è piú nobile intra le virtú apprensive, cioè allʼintelletto possibile; percioché questo è il ricettacolo delle spezie, sí come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi, cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di sopra è detto, portato vʼè, se egli avviene che per volontá di colui, nel quale è questa passione (conciosiaché in essa volontá sia libertá di ritenere dentro questa cosa piaciuta e di mandarla fuori), questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore ovvero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nellʼappetito sensitivo, e quivi in varie cose adoperanti divien sí grande, e fassi sí potente, che egli fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne: e alcuna volta, essendo meno approvata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E cosí non è da Marte e da Venere generata questa passione come alcuni stimano; ma, secondo che di sopra è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione secondo le disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse, questa passione non si genererebbe.

Appare adunque che questo Polo era atto nato ad amare; e però, come vide colei, la quale esso, secondo lʼordine detto di sopra, approvò, e dentro ritenne lʼapprobazione, subitamente fu da amor passionato e preso. E deʼsi qui intendere quel che dice «al cor gentil», cioè flessibile, sí come quello che era nato atto a ricevere quella passione: «ratto sʼapprende», cioè prestamente vʼè dentro ricevuta e ritenuta: «Prese costui», cioè Polo, il quale quivi mostra essere in compagnia di lei; e dice che il prese «Della bella persona», la quale io ebbi vivendo «Che mi fu tolta», quando uccisa fui: «e ʼl modo», nel quale mi fu tolta, «ancor mʼoffende», cioè mi tormenta.

«Amor, chʼa nullʼamato amar perdona». Questo, salva sempre la reverenza dellʼautore, non avviene di questa spezie dʼamore, ma avvien bene dellʼamore onesto, come lʼautore medesimo mostra nel seguente libro nel canto ventiduesimo, dicendo:

 
amore
acceso da virtú, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fuore.
 

Ma puossi qui dire, questo talvolta avvenire, [conciosiacosaché rade volte soglia lʼuomo molto strettamente legarsi dellʼamore di cosa, chʼè a lui in tutto o in piú cose di natura conforme; il che quando avviene, può quel seguitare che lʼautore dice,] conciosiacosaché naturalmente ogni simile appetisca suo simile: e però, come la cosa amata sentirá i costumi e le maniere dellʼamante conformi alle sue, incontanente si dichinerá a doverlo cosí amare, come ella è amata da lui; cosí non perdonerá lʼamore allʼamato, cioè chʼegli non faccia che questo amato ami chi ama lui. «Mi prese del costui piacer», cioè del piacere di costui, o del piacere a costui: in che generalmente si sforza ciascun che ama di piacere alla cosa amata: «sí forte», cioè con tanta forza, «Che, come vedi, ancor non mʼabbandona». Vuol dire: vedendomi, come tu fai, andar continovo con lui, puoi comprendere che io lʼamo, come io lʼamai mentre vivevamo. [Ma] in questo lʼautor séguita lʼopinion di Virgilio, il qual mostra nel sesto dellʼEneida, Sicheo perseverare nellʼamor di Didone, dove dice:

 
Tandem corripuit sese, atque inimica refugit
in nemus umbriferum, coniux ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sichaeus amorem, ecc.
 

[Secondo la cattolica veritá, questo non si dee credere, percioché la divina giustizia non permette che in alcuna guisa alcun dannato abbia o possa avere cosa che al suo desiderio si conformi, o gli porga consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole, a se medesima compiacesse dello stare in compagnia del suo amante.] «Amor condusse noi ad una morte»: cioè ad essere uccisi insieme e in un punto. «Caina attende»: Caina è una parte del nono cerchio del presente libro, cosí chiamata da Caino figliuolo dʼAdamo, il quale peroché uccise il fratello carnale, mostra di sentire lʼautore che egli sia in quel cerchio dannato: e, percioché egli fu il primo che cotal peccato commise, dinomina lʼautore quel cerchio da lui; e in quel si puniscono tutti coloro che i fratelli o congiunti uccidono. E perciò dice questa donna che quel cerchio aspetta Gianciotto, il quale uccise lei, sua moglie, e Polo, suo fratello: «chi», cioè colui, «in vita ci spense», – cioè uccise; percioché morte non è altro che un privare, il qual si può dire «spegner di vita».

«Queste parole», di sopra dette, «da lor ci fûr pòrte», cioè da madonna Francesca, parlante per sé e per Polo.

«Da chʼio intesi questʼanime offense», sí dalla morte ricevuta e sí dal presente tormento, «Chinai ʼl viso», come colui fa, il quale ha udita cosa che gli grava, «e tanto il tenni basso, Fin che ʼl poeta mi disse: – Che pense?» – quasi volesse dire: Eʼ si vuole attendere ad altro. —

«Quando risposi», alla domanda di Virgilio, «cominciai», a dire: – «O lasso! Quanti dolci sospir»: dolci sospiri paiono esser quegli che da speranza certa muovono di dovere ottenere la cosa che sʼama: «quanto disio», quasi dica molto, «Menò costoro», Francesca e Polo, «al doloroso passo!» – della morte.

«Poi mi rivolsi a loro, e parlaʼ io, E cominciai: – Francesca, i tuoi martíri», neʼ quali io ti veggio, «A lacrimar mi fanno tristo e pio», cioè dolente e pietoso. «Ma dimmi: al tempo deʼ dolci sospiri», cioè quando tu ancora sospiravi, amando e sperando, «A che» segno, «e come», cioè in qual guisa, «concedette Amore», il quale suol rendere gli amanti temorosi e non lasciar loro, per téma di non dispiacere, aprire il disiderio loro, «Che conosceste», cioè tu di Polo, e Polo di te, «i dubbiosi disiri?» – Chiámagli «dubbiosi» i disidèri degli amanti, percioché, quantunque per molti atti appaia che lʼuno ami lʼaltro e lʼaltro lʼuno, tuttavia suspicano non sia cosí come a lor pare, insino a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono.

«Ed ella a me: – Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice»: chiama «felice» il tempo il quale aveva nella presente vita, per rispetto a quello che ha nella dannazione perpetua, la qual chiama «miseria», dicendo: «Nella miseria»; e veramente grandissimo dolore è: e questo assai chiaro testimonia Boezio, in libro De consolatione, dicendo: «Summum infortunii genus est, fuisse felicem»; «e ciò sa ʼl tuo dottore», cioè Virgilio, il quale, e nel principio della narrazion fatta da Enea deʼ casi troiani a Didone e ancora nel dolore di Didone nella partita dʼEnea, assai chiaramente il dimostra. «Ma, se a conoscer la prima radice», la qual prima radice del costoro amore ha lʼautore mostrata di sopra quando dice: «Amar, chʼal cor gentil», ecc., dove qui, secondo la sua domanda, cioè dellʼautore, madonna Francesca gli dimostra come al frutto, il quale di quella radice si disidera e sʼaspetta, essi pervenissero; e cosí vorrá qui lʼautore che il principio sʼintenda per la fine: «Del nostro amor tu hai cotanto affetto», cioè tanto disiderio, «Farò come colei che piange e dice. Noi», cioè Polo ed io, «leggevamo un giorno per diletto Di Lancellotto», del quale molte belle e laudevoli cose raccontano i romanzi franceschi; cose, per quel chʼio creda, piú composte a beneplacito che secondo la veritá: e leggevamo «come amor lo strinse»; percioché neʼ detti romanzi si scrive Lancellotto essere stato ferventissimamente innamorato della reina Ginevra, moglie del re Artú. «Soli eravamo e senza alcun sospetto». Scrive lʼautore tre cose, ciascuna per se medesima potente ad inducere a disonestamente adoperare un uomo e una femmina che insieme sieno: cioè leggere gli amori dʼalcuni, lʼesser soli e lʼesser senza sospetto dʼalcuno impedimento. «Per piú fiate gli occhi ci sospinse», a riguardar lʼun lʼaltro, «Quella lettura e scolorocci ʼl viso»: cioè fececi tal volta venir palidi e tal rossi, come a quegli suole avvenire, che, da alcuna cagion mossi, disiderano di dire alcuna cosa, e poi temono e cosí impalidiscono, o si vergognano e cosí arrossiscono. «Ma solo un punto fu quel che mi vinse», a dover pur mandar fuori il disiderio mio; e questo fu «Quando leggemmo il disiato riso», cioè la disiderata letizia, la qual fu alla reina Ginevra, «Esser baciata da cotanto amante», quanto era Lancellotto, reputato in queʼ tempi il miglior cavalier del mondo. «Questi», cioè Polo, «che mai da me non fia diviso, La bocca mi baciò tutto tremante». Ottimamente discrive lʼatto di quegli, li quali con alcun sentimento ferventemente amano, che, quantunque offerito sia loro quello che essi appetiscono (come qui si comprende che madonna Francesca offeresse a Polo), non senza tremore la prima volta il prendono.

 

«Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse». Scrivesi neʼ predetti romanzi che un prencipe Galeotto, il quale dicono che fu di spezie di gigante, sí era grande e grosso, sentí primo che alcuno altro lʼocculto amore di Lancellotto e della reina Ginevra: il quale non essendo piú avanti proceduto che per soli riguardi, ad istanza di Lancellotto, il quale egli amava maravigliosamente, tratta un dí in una sala a ragionamento seco la reina Ginevra, e a quello chiamato Lancellotto, ad aprire questo amore con alcuno effetto fu il mezzano: e, quasi occupando con la persona il poter questi due esser veduti da alcuno altro della sala che da lui, fece che essi si baciarono insieme. E cosí vuol questa donna dire che quello libro, il quale leggevano Polo ed ella, quello uficio adoperasse tra lor due, che adoperò Galeotto tra Lancellotto e la reina Ginevra: e quel medesimo dice essere stato colui che lo scrisse; percioché, se scritto non lʼavesse, non ne potrebbe esser seguito quello che ne seguí. «Quel giorno piú non vi leggemmo avante»: – assai acconciamente mostra di volere che, senza dirlo essa, i lettor comprendano quello che dellʼessere stata basciata da Polo seguitasse.

«Mentre che lʼuno». Qui comincia la sesta e ultima particula del presente canto, nella quale lʼautore discrive quello che di quel ragionare gli seguisse, e dice: «Mentre che lʼuno spirto», cioè madonna Francesca, «questo disse», che di sopra è detto, «Lʼaltro piangeva», cioè Polo, «sí», cioè in tal maniera, «che di pietade», per compassione, «Io venni meno», cioè mancaronmi le forze, «sí comʼio morisse, E caddi come corpo morto cade». Suole alcuna volta avere tanta forza la compassione, che pare chʼella faccia cosí altrui struggere il cuore, come si strugge la neve al fuoco; di che avviene che le forze sensibili si dileguano, e lʼanimali rifuggono nelle piú intrinseche parti del cuore, quasi abbandonato: e cosí il corpo, destituto dal suo sostegno, impalidito cade. E questa compassione, come altra volta di sopra è detto, non ha tanto lʼautore per gli spiriti uditi, quanto per se medesimo, il quale, dalla coscienza rimorso, conosce sé in quella dannazion dovere cadere, se di quello, che giá in tal colpa ha commesso, non sodisfa con contrizione e penitenza a Colui, il quale egli ha, peccando, offeso, cioè a Dio.

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