Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3

Текст
0
Отзывы
Читать фрагмент
Отметить прочитанной
Как читать книгу после покупки
Шрифт:Меньше АаБольше Аа

CAPITOLO OTTO

9:15 a.m. Orario di Mosca (12:30 a.m. Ora legale orientale, 4 settembre)

L’“Aquarium”

Quartier Generale del Main Intelligence Directorate (GRU)

Aeroporto di Khodynka

Mosca, Russia

Il fumo blu si alzava verso il soffitto.

“C’è molto movimento,” disse il suo ultimo visitatore, un uomo pingue con l’uniforme del Ministero degli Interni. La sua voce tradiva una certa ansia, ma dal tono non si sarebbe capito. Non trema né aveva esitazioni. Bisognava avere le orecchie allenate per percepirlo. L’uomo aveva paura.

“Sì,” replicò Marmilov. “Si sarebbe aspettato qualcosa di diverso da parte loro?”

Anche se l’ufficio non aveva finestre, la luce cambiava man mano che la mattina progrediva. I capelli rigidi e in piega di Marmilov avevano assunto l’aspetto di un elmetto di plastica scura. La lampadina appesa al soffitto era tanto luminosa che ai due uomini pareva di essere seduti nel deserto a mezzogiorno. La luce lanciava ombre scure tra le crepe scavate nel viso di Marmilov.

La gente si chiedeva perché un personaggio influente come lui avesse scelto di gestire il suo impero da quella tomba, sotto un edificio tetro, fatiscente e in rovina fuori dal centro di Mosca. Marmilov lo sapeva perché diversi uomini, in particolare i potenti o quelli che aspiravano a diventarlo, spesso gli facevano esattamente quella domanda.

“Perché non un bell’ufficio d’angolo ai piani alti? Perché un uomo come lei, con un mandato superiore al GRU, non si fa trasferire al Cremlino, con una bella vista sulla Piazza Rossa e l’opportunità di contemplare le opere della storia e dei grandi protagonisti degli eventi passati? O anche solo per guardare le belle ragazze che passano di lì? O almeno per vedere il sole?”

Marmilov sorrideva sempre e rispondeva: “Non mi piace il sole.”

“E le belle ragazze?” insistevano i suoi amichevoli vessatori.

Lui scuoteva la testa. “Ho una certa età. Mi basta mia moglie.”

Non era vero niente, ovviamente. Sua moglie viveva cinquanta chilometri fuori dalla città, in una residenza di campagna che risaliva a prima della Rivoluzione. La vedeva appena e né lui né la donna avevano problemi con quella sistemazione. Invece di passare del tempo con la moglie, Marmilov alloggiava in una moderna suite d’albergo al Ritz Carlton di Mosca, e si godeva una costante fornitura di giovani donne che gli venivano portate direttamente alla porta della stanza. Le ordinava come si faceva con il servizio in camera.

Aveva sentito che le ragazze, e probabilmente anche i loro papponi, lo definivano il Conte Dracula. Quel soprannome lo faceva sorridere. Lui non avrebbe potuto sceglierne uno più adatto.

Il motivo per cui rimaneva nello scantinato di quell’edificio e non si trasferiva al Cremlino, era che preferiva non vedere la Piazza Rossa. Anche se amava la cultura russa più di qualsiasi altra cosa al mondo, durante le sue giornate lavorative non voleva che le sue azioni fossero turbate dai sogni del passato. E in particolar modo non voleva che fossero ostacolate dalle sventurate realtà e dalle mezze misure del presente.

Marmilov era concentrato solo sul futuro. Era determinato a plasmarlo con tutte le sue forze.

C’era la grandezza nel futuro. C’era la gloria. Il futuro della Russia avrebbe sorpassato, e persino fatto impallidire, i patetici disastri del presente e forse anche le vittorie del passato.

Il futuro era in arrivo, e lui era il suo creatore. Era suo padre e la sua levatrice. Per immaginarlo appieno non si poteva lasciar distrarre da messaggi e ideali contrastanti. Aveva bisogno di una visione pura e per ottenerla era meglio fissare una parete vuota che fuori da una finestra.

“No, in effetti no,” rispose l’uomo grasso, Viktor Ulyanov. “Ma credo che alcuni nella nostra cerchia siamo un po’ preoccupati da tutto quel movimento.”

Lui scrollò le spalle. “Certo.”

C’erano sempre uomini più concentrati sulla propria misera sopravvivenza che sui loro doveri verso il popolo. Non sarebbero mai riusciti a guidarlo verso un futuro migliore.

“E certi sono convinti che quando il presidente…”

Il presidente!

Marmilov trattenne una risata. Il presidente era solo un piccolo ostacolo sulla strada verso la grandezza del loro paese. Era un intoppo, e pure minuscolo. Sin da quando aveva preso le redini da quell’alcolizzato del suo mentore, Yelstin, la commedia degli errori che era la Russia era solo peggiorata, non migliorata.

Presidente di cosa? Della spazzatura!

Quell’uomo avrebbe fatto meglio a guardarsi le spalle, come diceva il proverbio. O ci avrebbe trovato un coltello infilzato in mezzo.

“Sì?” incoraggiò l’altro uomo. “Sono convinti che quando il presidente… cosa?”

“Ci scoprirà,” riprese Ulyanov.

Marmilov annuì e sorrise. “Sì? Quando ci scoprirà… cosa succederà allora?”

“Ci sarà un’epurazione,” concluse l’altro.

Marmilov lo fissò strizzando gli occhi in mezzo a una nuvola di fumo. Era uno scherzo? Non l’epurazione a cui Putin avrebbe dato il via se li avesse scoperti. Se avessero fatto un passo sbagliato, non avrebbero potuto aspettarsi altro. Lo scherzo doveva essere la preoccupazione di Ulyanov e dei suoi soci senza nome di fronte a quell’eventualità, così avanti nei lavori.

“Il presidente lo scoprirà quando sarà troppo tardi,” dichiarò con semplicità. “Sarà lui stesso a essere epurato.” Ulyanov e gli altri per cui parlava dovevano saperlo. Era sempre stato quello il piano.

“Temono tutti bagno di sangue,” insistette l’uomo grasso.

Marmilov soffiò il fumo per aria. “Mio caro amico, non c’è niente da temere. Il bagno di sangue è sempre stato previsto. È stato pianificato anni fa.”

Nella sua tana un computer portatile gli era spuntato come un fungo accanto al piccolo schermo televisivo sulla scrivania. La televisione continuava a mostrare le riprese delle telecamere di sicurezza sulla piattaforma petrolifera, mentre sul computer scorrevano le trascrizioni delle comunicazioni americane intercettate tradotte in russo.

Gli americani stavano stringendo un cappio attorno alla piattaforma sotto assedio. Un cerchio di basi temporanee era apparso sul ghiaccio a pochi chilometri dall’impianto. Le loro squadre segrete erano state allertate ed erano pronte ad attaccare. Un jet supersonico aveva ricevuto l’autorizzazione ad alzarsi in volo ed era atterrato a Deadhorse da trenta minuti.

Stavano per colpire.

“Non abbiamo mai avuto intenzione di tenere l’impianto a lungo,” disse Marmilov. “È per questo che abbiamo usato delle pedine sacrificabili. Sapevamo che gli americani si sarebbero ripresi la loro proprietà.”

“Sì,” replicò Ulyanov. “Ma la notte stessa?”

Lui fece spallucce. “Prima di quanto ci aspettassimo, ma il risultato sarà lo stesso. Le loro prime squadre d’assalto finiranno nel bel mezzo di un disastro. Un bagno di sangue, come ha detto lei. Per i nostri scopi dovrebbe essere un autentico massacro. Mostreremo al mondo la loro ipocrisia riguardo l’ambiente. Così il pubblico avrà modo di ricordare i loro recenti crimini di guerra.”

“E l’impatto su di noi?” domandò Ulyanov.

Marmilov inalò di nuovo a fondo dalla sigaretta. Per lui era il soffio stesso della vita. Sì, anche in Russia, e persino nelle sue stanze private, era costretto ad affrontare la verità. Le sigarette facevano male alla salute. E lo stesso valeva per la vodka e il whiskey. Ma in quel caso perché Dio li aveva resi tanto piacevoli?

Espirò il fumo.

“Resta da vedere, ovviamente. E dipenderà dagli organi di stampa che se ne occuperanno in ogni paese. Ma certo i primi bollettini saranno in nostro favore. In generale, sospetto che gli eventi si rifletteranno negativamente sugli americani, e in seguito faranno lo stesso sul nostro amato presidente.”

Si interruppe e rifletté sulla questione. “La realtà, e l’evolversi degli eventi lo confermerà, è che peggiore il disastro e migliore sarà la nostra posizione.”

CAPITOLO NOVE

11:05 p.m. Ora legale in Alaska (4 settembre)

Campo sul ghiaccio ReadyGo della Marina degli Stati Uniti

Nove chilometri a nord dell’Arctic National Wildlife Refuge

Tre chilometri a ovest della Martin Frobisher Oil Platform

Mare di Beaufort

Mar Glaciale Artico

“Non esiste, gente. Non posso farlo.”

La notte era nera. Fuori dalla piccola calotta ululava il vento e cadeva una pioggia gelata. La visibilità stava peggiorando. Di lì a poco sarebbe stata pari a zero.

Luke era stanco. Aveva preso una dexie quando l’aereo era atterrato, e un’altra qualche istante prima, ma nessuna delle due aveva ancora fatto effetto.

L’intera faccenda era uno sbaglio. Avevano attraversato in fretta e furia il continente, a velocità supersonica, stavano per iniziare la missione e ora uno dei suoi uomini se ne stava tirando fuori.

“Non mi piace per niente.”

Era stato Murphy a parlare. Ovvio che fosse lui.

Murphy non voleva buttarsi in quell’avventura.

L’accampamento temporaneo, che di base consisteva in una decina di cupole modulari a tenuta stagna montate su una lastra di ghiaccio galleggiante, era spuntato come un mucchio di funghi dopo una pioggia primaverile, a quanto pareva in appena due ore. Era solo uno di tanti che circondavano la piattaforma petrolifera a distanza di sicurezza. La creazione di numerosi campi tanto lontani era dovuta alla possibilità che i terroristi li stessero spiando. In quella maniera gli sarebbe stato difficile prevedere da quale direzione sarebbe arrivato il contrattacco.

 

All’interno di ogni cupola era stato scavato un foro rettangolare nel pavimento di ghiaccio, all’incirca delle dimensioni e della forma di una bara. Il ghiaccio lì era grosso dai sessanta ai novanta centimetri. Attorno a ogni foro era stato incastrato una specie di pontile di un qualche materiale sintetico simile al legno. Sotto l’acqua erano state affondate torce subacquee, che davano all’apertura un inquietante chiarore blu. Sulla superficie del foro stava già iniziando a riformarsi il ghiaccio.

Luke ed Ed erano nelle loro mute in neoprene, seduti su due sedie accanto all’apertura. Brooks Donaldson era nella stessa posizione e attorno a ogni uomo erano affaccendati due assistenti, militari con indosso giacche in pile della marina degli Stati Uniti. Gli stavano caricando addosso tutto l’equipaggiamento necessario. Luke stava fermo mentre uno dei due gli montava un compensatore di galleggiamento sul torace.

“Come se lo sente?” gli chiese il tizio.

“Ingombrante, a essere sincero.”

“Bene, lo è.”

Ancora non aveva infilato i guanti sulle mani, e continuava a portarle senza pensare alla cerniera impermeabile sul suo petto. Era stretta e difficile da tirare, così come doveva essere. Laggiù l’acqua sarebbe stata gelida e la cerniera doveva tenere ferma. Ma significava anche che sarebbe stato complicato abbassarla una volta che fossero arrivati a destinazione.

“Come dovrei fare per sfilarmi questa cosa?”

“Adrenalina,” rispose uno degli assistenti. “Quando va tutto a puttane, di solito i soldati si strappano di dosso la tuta a mani nude.”

Ed scoppiò a ridere e guardò Luke. Il suo sguardo diceva che non lo stava trovando affatto divertente.

“Oh, accidenti.”

Murphy non rideva per niente. Era arrivato fin lì da Deadhorse, ma non aveva nemmeno iniziato a infilarsi la muta.

“È una trappola mortale, Stone,” stava dicendo. “Come l’ultima volta.”

“Non mi devi dimostrare niente,” gli rispose lui. “Né a me né a nessun altro. Non sei costretto a venire. Non è come l’ultima volta.”

L’ultima volta.

Quando entrambi erano stati ancora nella Delta, in missione nell’est dell’Afghanistan. Luke era stato il capo della squadra, e non aveva scavalcato un tenente colonnello a caccia di gloria che aveva condotto tutti — a esclusione di lui e Murphy — alla morte.

Era vero. Lui avrebbe potuto annullare la missione. I suoi uomini non avevano avuto alcun obbligo nei confronti del tenente colonnello. Se Luke avesse dato l’alt, la missione si sarebbe interrotta, ma lui avrebbe rischiato di finire di fronte alla corte marziale per insubordinazione. Si sarebbe giocato tutta la sua carriera nell’esercito, quella stessa carriera che stranamente era finita ugualmente quella notte.

Murphy guardò Ed. “Perché vuoi andare?”

Il grosso uomo di colore fece spallucce. “Mi piace l’emozione.”

Lui agitò la testa. “Guarda quel buco, bello. È come se ci avessero scavato la tomba. Basta gettarci dentro una bara e siamo a posto.”

Murphy non era un codardo. Luke lo sapeva. Avevano partecipato a decine di scontri a fuoco fianco a fianco nella Delta. Avevano lottato insieme durante la sparatoria a Montreal, nella quale avevano salvato la vita di Lawrence Keller e consegnato alla giustizia gli assassini del presidente David Barrett. Avevano persino fatto a botte sopra la fiamma eterna di John F. Kennedy. Quell’uomo era un duro.

Ma non voleva andare. Era palese quanto fosse spaventato. Forse perché non era stato addestrato per quello che stavano per fare. Ma poteva anche essere perché…

“Va bene, uomini, ascoltate!”

Un uomo corpulento con una felpa della marina era appena entrato nella cupola. Per un istante, mentre attraversava i pesanti teli di plastica che facevano da portellone per l’esterno, gli occupanti dello spazio sentirono fischiare il vento. Il nuovo arrivato era rosso in viso per il freddo.

“Da quello che ho capito, siete stati aggiornati a Deadhorse.”

Poi si interruppe, notando la sedia vuota dove avrebbe dovuto trovarsi Murphy. Spostò lo sguardo sull’ex soldato.

Murphy scosse la testa.

“Io non ci vado.”

Il nuovo arrivato scrollò le spalle. “Come preferisci. Ma questa è un’operazione segreta. Se non partecipi, non puoi ascoltare quello che sto per dire.”

“Faccio parte della squadra di supervisione civile,” ribatté Murphy.

L’uomo fece un cenno di diniego. “Secondo le mie informazioni i due membri della squadra di supervisione civile sono al centro di comando a Deadhorse, mentre il resto del team deve indossare la muta e andare con i SEAL.”

Alzò le mani che per dire: È tutto quello che so.

“Se non sei al centro di comando e non hai la muta, non sei nel team.”

Murphy chinò la testa con un sospiro. “Ah, che diavolo.”

Si infilò un pesante parka verde sulla grossa tuta da lavoro.

“Murph,” gli disse Luke. “Chiama Swann e Trudy. Ti manderanno un elicottero.”

Il nuovo arrivato fece un cenno di diniego. “Tutti i mezzi sono bloccati a terra. Sta arrivando la tempesta e non vogliamo incidenti. La missione è già abbastanza complicata così com’è.”

Murphy imprecò sottovoce e uscì dalla stessa apertura da cui era appena entrato l’uomo corpulento. La plastica svolazzò e il fischio del vento risuonò. Il tizio lo guardò andarsene e poi fissò i tre sommozzatori rimanenti.

“Okay,” disse. “Questa sarà un’immersione in acqua gelata, di notte, verso un ambiente sopraelevato. Non riesco a pensare a un incarico più difficile. Un anno fa abbiamo perso due sub esperti in una missione simile, ma era un’immersione d’addestramento durante il giorno, non c’era maltempo e gli uomini erano collegati con una corda al campo base. È chiaro? Dovete saperlo.”

“Stavano anche nuotando verso uno scontro a fuoco?” domandò Ed.

L’uomo si limitò a guardarlo. Non aveva voglia di fare battute e Luke si sentiva allo stesso modo. Non c’era niente di divertente in quella missione.

“Come probabilmente avrete capito vi immergerete senza fune di sicurezza. Per gran parte del vostro tragitto il ghiaccio sopra le vostre teste sarà congelato e molto duro. È meglio che non ci andiate a sbattere. Muovetevi a cinque metri dalla superficie, mantenete un galleggiamento neutro e un orientamento corretto.”

Ai suoi piedi c’erano quattro dispositivi di trasporto per nuotatori. In pratica erano piccoli siluri elettrici a batteria. Ogni uomo si sarebbe tenuto al manubrio del dispositivo con una mano, e la propulsione lo avrebbe portato a destinazione più velocemente, e con meno sforzo, che se avesse dovuto nuotare da solo.

Il tizio ne sollevò uno tra le braccia. “Chi di voi ha mai usato uno di questi?”

Tre mani si alzarono.

Lui annuì. “Bene. Di norma useremmo dispositivi Mark 8, ognuno dei quali può trasportare dai due ai quattro uomini, ma non siamo riusciti ad averli per tempo, e sono complicati da usare in questo ambiente. Quindi dobbiamo accontentarci di questi portatili. Va bene?”

Si interruppe, ma nessuno disse una parola. Era quel che era. Non aveva importanza se gli andava bene o meno.

“Tenete d’occhio le vostre bussole. Siete diretti a est. Ci saranno altri diciassette…” Diede uno sguardo alla sedia vuota di Murphy. “Sedici altri uomini laggiù. Immettetevi nel gruppo. Voi sarete il team di controllo, quindi mettetevi in coda. Se doveste confondervi, o perdervi, la via di ritorno è a ovest. Questo campo è illuminato come un albero di Natale sotto il ghiaccio, quindi seguite le luci.”

Sollevò un casco impermeabile con visore e maschera.

“Nel casco avrete un sistema radio bidirezionale. Limitate le chiacchiere. Ascoltate i capi davanti. Ci sarà una bassa visibilità. Le vostre orecchie potrebbero salvarvi mentre la lingua vi ammazzerà.”

Li guardò severamente.

“Niente supporto aereo né anfibio. La situazione potrebbe scaldarsi. Tenete d’occhio la superficie e non appena noterete aria aperta, si sarete quasi. Una volta raggiunta l’apertura del ghiaccio spegnete le torce. L’idea, signori, è di prenderli di sorpresa.”

Sollevò una mitragliatrice MP5 con il caricatore già montato. Era coperta da una grossa pellicola plastica trasparente. Poi fu il turno di un gruppo di tre granate, avvolte alla stessa maniera.

“Al momento queste sono assolutamente sigillate. Gli involucri sono impermeabili al cento percento. Quando arrivate a terra, usate il coltello per aprirli.”

Sorrise e poi scosse la testa. “Se sarà necessario, usate il coltello anche per liberarvi dalle mute.”

Luke lanciò un’occhiata a Ed. Il collega fece una smorfia, una strana espressione che non gli aveva mai visto sul volto. Sembrava un bambino delle elementari a cui l’insegnante avesse suggerito di cantare cori di Natale con tutta la classe.

Gli attendenti dietro Ed sollevarono il casco e glielo sistemarono sulla testa. Il suo respiro offuscò il visore.

Quelli dietro Luke stavano per fare lo stesso con lui.

“Ci sono domande?” chiese l’uomo davanti a loro.

Che cosa stiamo facendo? fu l’unica che gli venne in mente.

“Bene. Allora muoviamoci.”

* * *

Murphy era di pessimo umore.

“Sono stufo di questa missione, Swann. Non mi è mai piaciuta la Marina e ora li sto davvero odiando.”

Le comunicazioni funzionavano bene lì, nonostante la tempesta. Swann glielo aveva spiegato, ma Murphy non aveva ascoltato tutto il discorso. Qualcosa a proposito delle antenne integrate in quelle cupole, del modo in cui i segnali satellitari riuscivano a penetrare le nuvole in rapido movimento e le precipitazioni, e della crittografia impenetrabile per cui il loro esperto informatico era noto…

Ma a chi importava.

Aspettò che il segnale rimbalzasse in giro per il mondo, in modo che i terroristi non potessero tracciarlo e ascoltarli.

Murphy era stufo e irritato. Non era un sub. Neanche Stone e Newsam lo erano. I SEAL si addestravano per anni con squadre d’élite di sommozzatori in acque fredde proveniente dalla Norvegia e dalla Svezia. E invece il loro gruppo completamente impreparato era stato spinto in quella missione come un osceno e inutile addobbo.

L’espressione con cui il tizio corpulento aveva guardato la sua sedia vuota… poi Murphy… e poi di nuovo la sedia. La sua fortuna era stata che fossero nella stessa squadra. Altrimenti lui sarebbe stato felice di rimodellargli la faccia con la stessa sedia.

“Sì, non lo capisco,” disse alla fine Swann. “Anche noi siamo solo uno specchietto per le allodole qua al centro di comando. Nessuno vuole dei civili in questa faccenda. Hanno solo bisogno del timbro d’approvazione. Ci hanno messi in un ufficio, lontani da tutti gli altri, con un paio di computer e una macchina del caffè.”

Murphy sorrise. Riusciva a immaginarsi l’espressione dei severi ufficiali SEAL e JSOC di fronte a Swann, un nerd dei computer alto e magrolino dai capelli lunghi e gli occhiali, e alla giovane e adorabile Trudy Wellington. Cosa dovevano aver pensato…

Niente. Gli ingranaggi nei loro cervelli da militari si dovevano essere inceppati. La sola vista di Swann doveva essere stata come zucchero nel serbatoio della benzina.

Metteteli in un’altra stanza, fateli sparire.

“Gli altri si faranno ammazzare là sotto. Ho cercato di dirlo a Stone, ma un babbeo della Marina mi ha cacciato fuori perché la riunione era riservata.”

“Ora dove sei?” gli chiese l’altro.

Murphy si guardò intorno. Era dentro una cupola vuota, seduto su una sedia che fino a poco prima doveva aver accolto un Navy SEAL. Il foro nel ghiaccio brillava di blu. Da qualche parte nei dintorni c’era un centro di comando, e lo staff di supporto doveva essere andato là per seguire i movimenti della squadra sotto il ghiaccio dal radar.

“Sono all’inferno,” rispose. “In un gelido inferno.”

La voce di Trudy subentrò in linea. Era musicale, come dita su un pianoforte.

“Che cosa vuoi fare?” gli domandò.

La risposta era abbastanza facile. Voleva sparire. Voleva andarsene da quella landa desolata nell’Artico, da quell’inutile atrocità terroristica (di qualsiasi cosa si trattasse) per raggiungere la Grand Cayman, recuperare i suoi due milioni e mezzo di dollari ed evaporare.

Purtroppo era più facile a dirsi che a farsi. Gli sarebbe servito un piano e del tempo per organizzare una sparizione del genere. Tempo che non aveva. Don voleva ancora che si facesse sei mesi a Leavenworth in cambio di un congedo con onore. E nel frattempo Wallace Speck era in custodia, lontano dalla sua portata, e da un momento all’altro avrebbe potuto dire cose spiacevoli.

 

Nel peggiore dei casi Murphy sarebbe arrivato a Leavenworth nel momento esatto in cui Speck faceva il suo nome.

Ovviamente, quella non era una faccenda di cui poteva discutere con Mark Swann e Trudy Wellington. Ma ce n’erano altre che poteva condividere con loro. I due potevano aiutarlo, non ad andarsene via di lì, ma ad addentrarsi ancora di più nei loro ranghi.

Stone si sbagliava. Murphy aveva qualcosa da dimostrare. Lo aveva sempre. Magari non a lui, e forse non a quell’addestratore SEAL dalla testa dura, ma a se stesso. C’era qualcosa in quella missione che non gli tornava. Li avevano spediti dall’altra parte del paese alla velocità della luce, e per cosa? Una missione raffazzonata che era già un casino prima di iniziare. Chi l’aveva progettata, Wile E. Coyote? Era come l’operazione di salvataggio all’ambasciata iraniana, con il ghiaccio invece della sabbia.

Quella pessima e frettolosa organizzazione lo irritava. Il fatto che Stone avesse deciso di partecipare lo irritava ancora di più. Che Newsam facesse lo stesso portava la sua rabbia a livelli stratosferici.

Infine si sentiva umiliato dalla sua stessa incapacità di infilarsi la claustrofobica muta per immersioni e scendere in quella tomba di ghiaccio. E il modo in cui quel burattino senza cervello aveva guardato la sedia…

Murphy serrò e aprì le mani. Aveva accettato da tempo che uno dei motivi per cui era entrato nell’esercito, e poi nella Delta Force, era fare qualcosa di costruttivo con la sua ira.

Conosceva il passato. Aveva studiato i più prolifici e abili assassini delle passate guerre, Audie Murphy nella seconda guerra mondiale e Bloody Bill Anderson nella Guerra Civile americana. Era stata l’ira a sospingere quegli uomini.

Riusciva quasi a immaginarsi Audie Murphy a Colmar, ritto su un carro armato in fiamme, mentre falciava decine di tedeschi con una mitragliatrice calibro .50, preso di mira senza tregua dal fuoco nemico.

Lui, Newsam e Stone avevano preso una dexie poco prima. Murphy si era sentito stanco e ne aveva prese due. Ora gli stavano facendo effetto. Sentiva il cuore battere all’impazzata e il suo respiro era sempre più rapido. I dettagli degli oggetti all’interno della cupola presero a bombardarlo con la loro nitidezza. Soffocò la tentazione di alzarsi e cominciare a saltellare sul posto.

In quell’istante avrebbe potuto uccidere una persona, o magari diverse. E le isole Cayman erano lontane, ben fuori dalla sua portata. Stone e Newsam si erano appena gettati nella versione acquatica della Spedizione Donner, una missione suicida che poteva solo finire in tragedia. E là fuori c’erano un mucchio di terroristi che avevano già ammazzato civili innocenti. Gli uomini che avevano preso in ostaggio l’intera piattaforma petrolifera erano dei cattivi e a nessuno sarebbe importato molto se fossero morti.

Cominciò a riflettere rapidamente. Swann e Trudy erano stati banditi in un ufficio ma quello non era per forza un risvolto negativo. Entrambi erano maghi della tecnologia. Se non gli avevano tagliato le comunicazioni… un grosso se, ma…

“Murph? Che cosa vuoi fare?”

I suoi occhi erano raggi laser. Poteva lanciare sfere di fuoco dalle mani. Era inarrestabile, e lo era sempre stato. Tutti quegli anni in combattimento, senza essere mai ferito. Succedevano cose incredibili al mondo.

“Mi serve una barca,” annunciò, senza pensare a cosa stava dicendo. “Mi servono delle armi, il supporto di droni e le indicazioni per attraversare la tempesta fino all’impianto.”

Si interruppe. La sua mente ormai galoppava, ragionava in pure immagini e lui riusciva a malapena ad articolare le parole.

“Voglio scendere in campo.”

* * *

Luke si gettò nell’apertura buia.

Attraversò un sottilissimo strato di ghiaccio per ritrovarsi in un surreale mondo subacqueo. In un istante l’ambiente spartano della cupola, simile a uno spogliatoio, svanì, sostituito da…

Un mare blu scuro, che si apriva in un vuoto nero sotto di lui. Sopra la sua testa, il ghiaccio era una fredda lastra bianco-bluastro. Luccicanti rettangoli luminosi segnalavano la presenza delle cupole dove erano state tagliati gli altri fori d’ingresso.

Era un luogo alieno.

Avrebbe potuto essere un astronauta che galleggiava senza peso nello spazio profondo.

La prima cosa che notò fu il freddo, ma non era il gelo dell’oceano quando ci si buttava in acqua nell’autunno inoltrato. Non gli penetrava nelle ossa. La muta riusciva a tenere a bada le temperature che avrebbero potuto ucciderlo in un istante.

In un certo senso non aveva freddo, ma riusciva a percepirlo tutto intorno a sé, all’esterno del grosso strato di neoprene. Se avesse oltrepassato la muta sarebbe morto. Era semplice.

L’unico suono che udiva era il suo stesso respiro, fragoroso nelle orecchie. Era rapido e poco profondo, e si concentrò per rallentarlo a approfondirlo. Gli ansimi superficiali erano uno dei primi sintomi del panico. Il panico faceva perdere la testa. In un luogo come quello, poteva far perdere la vita.

Rilassati.

Luke attivò il dispositivo cilindrico motorizzato e si lasciò trascinare con delicatezza.

Davanti a lui, il gruppo di sommozzatori avanzava. Il buio era illuminato dalle loro torce, che lanciavano ombre inquietanti. Luke quasi si aspettava che un gigantesco squalo, un megalodonte preistorico emergesse dall’oscurità attorno a loro.

Man mano che si allontanavano dal campo, si accorse che il mare si muoveva turbolento, e il grosso soffitto di ghiaccio sopra le loro teste ondeggiava e si increspava come la terraferma durante un violento terremoto. Lui ed Ed nuotavano fianco a fianco, viaggiando tra le forti correnti grazie ai dispositivi motorizzati tra le loro mani.

Luke si sentiva assediato. L’acqua stava facendo di tutto per ribaltarlo e spedirlo verso Ed, ma lui assecondava i flussi e continuava ad avanzare.

Lanciò uno sguardo al collega. Ed aveva una posizione perfetta, appena reclinato in avanti, la testa sollevata. Luke non riusciva a vedere il suo viso dietro il casco. L’effetto era alienante. Ed avrebbe potuto essere un impostore o una macchina.

Attraverso la radio del casco si udiva un mormorio. Lui riusciva a malapena a percepirlo, e non distingueva le parole. Il suo respiratore era molto più rumoroso della radio. Sarebbe stato difficile comunicare.

Si guardò indietro. Le luci che penetravano l’oscurità dall’alto stavano svanendo in lontananza. Si erano già lasciati il campo base alle spalle.

Entrò in una specie di trance. Controllò l’orologio. Aveva impostato il timer per la missione appena prima di buttarsi in acqua. Erano passati appena dieci minuti dall’inizio.

Oltrepassarono il bordo della lastra di ghiaccio e l’acqua sopra di loro divenne scura, quasi nera, punteggiata da blocchi di ghiaccio in movimento. Ormai c’era solo il buio, illuminato dalle loro torce, e dalle luci davanti a loro.

Stavano per raggiungere l’obiettivo. Stava succedendo molto più in fretta di quanto si fosse aspettato.

Calma… calma.

Superò un piccolo apparecchio, che brillava verde nell’oscurità. Era una scatola metallica, a forse dieci metri alla sua destra. Se avesse dovuto tirare a indovinare, avrebbe detto che era alta un metro per cinquanta centimetri di larghezza. Su un fianco c’erano controlli di vario tipo. Era abbastanza piccolo e lontano che quasi non lo notò.

Era un robot. Luke sapeva che si trattava di un veicolo sottomarino operato da remoto, chiamato anche ROV. Era legato a una grossa fune gialla che svaniva in lontananza verso nord e che doveva essere la sua fonte principale di energia. Probabilmente conteneva anche i cavi che lo controllavano, e attraverso i quali mandava dati… ma a chi?

Era dominata da un grande occhio rotondo, probabilmente la lente della telecamera.

Бесплатный фрагмент закончился. Хотите читать дальше?
Купите 3 книги одновременно и выберите четвёртую в подарок!

Чтобы воспользоваться акцией, добавьте нужные книги в корзину. Сделать это можно на странице каждой книги, либо в общем списке:

  1. Нажмите на многоточие
    рядом с книгой
  2. Выберите пункт
    «Добавить в корзину»