Se lei sapesse

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Читает Francesca Consalvi
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CAPITOLO DUE

Dopo la pensione Kate era tornata a vivere a Richmond, in Virginia. Era cresciuta nella cittadina di Amelia, a circa quaranta minuti da Richmond, ma aveva frequentato il college giusto accanto il limitare del centro. Aveva trascorso gli anni da studentessa alla Virginia Commonwealth University, volendo originariamente studiare arte. Dopo tre anni aveva scoperto di avere a cuore la giustizia criminale tramite uno dei corsi a scelta in psicologia. Era stato un sentiero tortuoso e sghembo a condurla a Quantico e alla sua illustre carriera trentennale.

Adesso percorreva in macchina alcune di quelle familiari strade di Richmond. Era stata a casa di Debbie Meade solo una volta in passato, ma sapeva esattamente dove si trovava. Lo sapeva perché ne invidiava il luogo, uno di quegli edifici dall’aria antica sulle strade fuori dal centro delimitate da alberi invece che da semafori e alti edifici.

La via di Deb era momentaneamente inondata di foglie cadute dagli olmi che la sovrastavano. Dovette parcheggiare tre case più in là, perché la famiglia e gli amici avevano già cominciato a riempire i posteggi di fronte alla casa.

Percorse il marciapiede, cercando di convincersi che era una cattiva idea. Sì, aveva pianificato di entrare in casa solo come amica – anche se Jane e Clarissa avevano deciso di aspettare e di recarsi da Deb nel pomeriggio, per darle un po’ di spazio. Ma c’era anche qualcosa di più profondo. Negli ultimi mesi aveva cercato qualcosa da fare, un modo migliore e più significativo di riempire il proprio tempo. Spesso aveva sognato di prendere del lavoro come freelancer dal bureau, magari persino dei compiti basilari di ricerca.

Persino il più piccolo riferimento al suo lavoro la entusiasmava. Per esempio, la settimana seguente avrebbe dovuto recarsi in tribunale per testimoniare a un’udienza per il rilascio su condizionale. Non era bramosa di affrontare di nuovo il criminale, ma anche solo essere in grado di immergersi di nuovo nel lavoro per un lasso di tempo così breve era bello.

Ma sarebbe stato la settimana seguente – e adesso sembrava lontano un’eternità.

Alzò lo sguardo sul portico anteriore di Debbie Meade. Sapeva perché si trovava lì, davvero. Voleva trovare delle risposte a domande che le vorticavano in testa. La cosa la faceva sentire egoista, come se stesse usando la perdita dell’amica come scusa per mettere di nuovo piede con cautela nelle acque che non sentiva da più di un anno. Questa situazione coinvolgeva un’amica, il che la rendeva complicata. Ma la vecchia agente che c’era in lei sperava che avrebbe potuto evolversi in qualcos’altro. L’amica che era in lei, però, pensava che potesse essere rischioso. E tutte insieme quelle parti di lei si chiedevano se forse non sarebbe dovuta rimanere una fanatica del ritorno al lavoro.

Forse è esattamente quello che sto facendo, pensò Kate salendo i gradini fino alla residenza dei Meade. E, onestamente, non era del tutto sicura di come sentirsi in proposito.

Bussò alla porta piano e le venne aperto subito da un’anziana che Kate non conosceva.

«È della famiglia?» chiese la donna.

«No» rispose Kate. «Sono solo una buona amica.»

La donna la scrutò per un attimo prima di farla entrare. Kate entrò e percorse il corridoio, superando un soggiorno pieno di persone austere sedute attorno a una singola persona su una poltrona reclinabile. La persona in poltrona era Debbie Meade. Kate riconobbe l’uomo in piedi accanto a lei che parlava con un altro uomo come suo marito, Jim.

Entrò goffamente nella stanza e andò dritta da Deb. Senza concederle abbastanza tempo da scendere dalla poltrona, Kate si chinò e la abbracciò.

«Mi dispiace tanto, Deb» disse.

Deb era chiaramente spossata dalle lacrime, e riuscì solo a fare un cenno contro la spalla di Kate. «Grazie di essere venuta» le sussurrò all’orecchio Deb. «Pensi di potermi raggiungere tra qualche minuto in cucina?»

«Certo.»

Kate ruppe l’abbraccio e fece qualche cenno comprensivo col capo alle altre facce che conosceva che si trovavano nella stanza. Sentendosi fuori posto, Kate raggiunse il fondo del corridoio che sfociava nella cucina. Non c’era nessuno, ma c’erano piatti e bicchieri vuoti dove fino a non troppo tempo prima c’era stata della gente. C’erano delle torte sul bancone insieme a rotolini al prosciutto e altro finger food. Kate si mise a ripulire, andando al lavandino per mettersi a lavare i piatti.

Molto dopo Jim Meade entrò in cucina. «Non sei tenuta a farlo» disse.

Kate si voltò verso di lui e vide che sembrava stanco e incredibilmente triste. «Lo so» disse. «Sono passata per mostrare il mio supporto. Pare che le cose fossero piuttosto pesanti in soggiorno quando sono entrata, perciò vi supporto lavando i piatti.»

Lui annuì, con l’aria di poter crollare all’istante. «Una nostra amica aveva detto di aver visto entrare una donna qualche minuto fa. Sono piuttosto contento che fossi tu, Kate.»

Kate vide un’altra persona venire verso la cucina dietro di lui, ugualmente stanca e sofferente. Deb Meade aveva gli occhi gonfi e rossi dal pianto. Aveva i capelli in disordine e quando guardò Kate per tentare un sorriso questo parve caderle giù dalla faccia.

Kate mise giù il piatto che stava lavando, si asciugò in fretta le mani con un asciugamano che si trovava sul lavandino e andò dall’amica. Kate non era mai stata una persona molto fisica, ma sapeva quando era necessario un abbraccio. Si aspettava che Deb cominciasse a piangere nel mezzo dell’abbraccio, ma non ci fu nulla, solo il suo peso cadente.

Probabilmente per il momento ha pianto tutte le sue lacrime, pensò Kate.

«L’ho saputo solo stamattina» disse Kate. «Mi dispiace tanto, Deb. Per entrambi» disse lanciando un’occhiata a Jim.

Jim fece un cenno di riconoscenza e poi guardò il corridoio. Quando vide che non c’era in agguato nessun altro, con il leggero mormorio della compagnia ancora in soggiorno, si avvicinò a Kate mentre Deb rompeva l’abbraccio.

«Kate, dobbiamo chiederti una cosa» disse Jim quasi sussurrando.

«E, per favore» disse Deb prendendole la mano. «Lasciaci dire tutto prima di bloccarci.» Kate sentì un piccolo fremito nella presa di Deb e le si spezzò un po’ il cuore.

«Certo» disse Kate. I loro occhi imploranti e l’assoluto peso della loro sofferenza si librava sopra la sua testa come un’incudine che sicuramente sarebbe caduta da un momento all’altro.

«La polizia non ha assolutamente idea di chi sia stato» disse Deb. Improvvisamente la sua spossatezza si trasformò in qualcosa di più simile alla rabbia. «Sulla base delle cose che abbiamo detto e dei messaggi che hanno trovato sul telefono di Julie, la polizia ha arrestato subito il suo ex ragazzo. Ma lo hanno trattenuto per meno di tre ore e poi lo hanno lasciato andare. E basta. Però, Kate… io so che è stato lui. Deve essere stato lui.»

Kate aveva visto quell’approccio molte volte in passato durante i suoi anni come agente. Le famiglie in lutto volevano subito giustizia. Avrebbero oltrepassato la logica e una solida indagine per assicurarsi che venisse operata il prima possibile una specie di vendetta. E se i risultati non erano rapidi, la famiglia in lutto presumeva incompetenza da parte della polizia o dell’FBI.

«Deb… se lo hanno rilasciato così velocemente devono esserci state delle prove molto solide. Dopotutto… quanto tempo è passato da quando uscivano insieme?»

«Tredici anni. Ma ha continuato a contattarla per anni, anche dopo che si è sposata. Una volta ha dovuto farsi dare un ordine restrittivo.»

«Comunque la polizia doveva avere un buon alibi per lui per farlo rilasciare così velocemente.»

«Be’, nel caso non me ne parleranno» disse Deb.

«Deb… senti» disse Kate stringendole la mano per darle conforto. «La perdita è troppo recente. Prenditi qualche giorno e ricomincerai a pensare razionalmente. L’ho visto succedere cento volte.»

Deb scosse la testa. «Ne sono sicura, Kate. Si sono frequentati per tre anni e neanche una volta mi sono fidata di lui. Siamo piuttosto sicuri che l’abbia picchiata almeno in due occasioni, ma Julie non l’ha mai detto. Aveva un brutto carattere. Persino lui te lo direbbe.»

«Sono sicura che la polizia sta…»

«Ecco cosa ti chiediamo» la interruppe Deb. «Voglio che dia un’occhiata alla cosa tu. Voglio che tu entri nel caso.»

«Deb, sono in pensione. Lo sai.»

«Lo so. E so anche quanto ti manca il lavoro. Kate… l’uomo che ha ucciso mia figlia non ha avuto che un piccolo spavento per aver passato un po’ di tempo in sala interrogatori. E adesso è a casa, in tutta comodità, mentre io devo organizzare la sepoltura di mia figlia. Non è giusto, Kate. Per favore… darai un’occhiata alla cosa? Lo so che non puoi farlo su base ufficiale ma… qualsiasi cosa tu possa fare. Lo apprezzerei.»

C’era così tanto dolore negli occhi di Deb che Kate riuscì a sentirlo passare tra di loro. Tutto in lei le stava dicendo di rimanere salda – di non permettere a nessuna falsa speranza di entrare nel dolore di Deb. Però, allo stesso tempo, Deb aveva ragione. Il lavoro le mancava. E anche se ciò che le veniva proposto era solo qualche telefonata di base al dipartimento di polizia di Richmond o persino ai suoi ex colleghi del bureau, sarebbe stato qualcosa.

Sarebbe stato sicuramente meglio che ossessionarsi sulla carriera passata con viaggetti solitari al poligono di tiro.

«Ecco quello che posso fare» disse Kate. «Quando sono andata in pensione, ho perso tutta la mia influenza. Certo, mi telefonano di tanto in tanto per avere la mia opinione, ma non ho autorità. Inoltre questo caso sarebbe completamente fuori dalla mia giurisdizione anche se fossi ancora attiva. Ma farò qualche telefonata ai miei vecchi contatti e mi assicurerò che la prova che hanno trovato per liberarlo fosse solida. Onestamente, Deb, è il massimo che posso fare.»

 

La gratitudine fu evidente subito sia in Deb che in Jim. Deb la abbracciò di nuovo e stavolta pianse davvero. «Grazie.»

«Nessun problema» disse Kate. «Ma non posso proprio promettervi niente.»

«Lo sappiamo» disse Jim. «Però almeno adesso sappiamo che una persona competente sta attenta a noi.»

Kate non si sentiva a suo agio all’idea che la vedessero come una forza interna che li assistesse, e non le piaceva neanche che presumessero che la polizia non li stesse aiutando. Di nuovo seppe che si trattava solo del dolore che provavano, e di quanto questo li stesse accecando nella loro ricerca di risposte. Perciò, per il momento, lasciò stare.

Pensò a quanto stanca fosse stata a fine carriera – non proprio stanca fisicamente, ma prosciugata emotivamente. Le era sempre piaciuto molto il suo lavoro, ma quanto spesso era arrivata alla fine di un caso e aveva pensato tra sé: Diavolo se sono stanca di questo schifo…

Era accaduto sempre più spesso negli ultimi anni.

Ma quel momento non riguardava lei.

Tenne vicina l’amica, scervellandosi sul fatto che a prescindere da quanto si cercasse di lasciarsi il passato alle spalle – che si trattasse di relazioni o della carriera – in qualche modo questo riusciva sempre ad arrancare non troppi passi indietro.

CAPITOLO TRE

Kate non perse tempo. Tornò a casa e si mise alla scrivania del suo piccolo studio per un attimo. Guardò fuori dalla finestra della stanza, nel suo piccolo giardino sul retro. La luce del sole entrava dalla finestra, gettando un rettangolo di luce sui pavimenti in legno. I pavimenti, come la maggior parte del resto della casa, mostravano le cicatrici e le croste della sua costruzione degli anni Venti. A vivere nella zona di Carytown di Richmond Kate spesso si sentiva fuori posto. Carytown era una piccola sezione alla moda della città, e lei sapeva che avrebbe finito col trasferirsi altrove abbastanza presto. Aveva soldi a sufficienza per comprare una casa praticamente ovunque volesse, ma l’idea stessa di trasferirsi la esauriva.

Era quella specie di mancanza di motivazione che forse le aveva reso tanto difficile il pensionamento. Quella, e il rifiuto di lasciar andare i ricordi di chi era stata al bureau per quei trent’anni. Quando quei due sentimenti collidevano, spesso si sentiva demotivata e priva di una reale direzione.

Però adesso c’era la richiesta di Deb e Jim Meade. Sì, era una richiesta sbagliata, ma Kate non ci vedeva niente di male nel fare almeno qualche telefonata. Se non ne fosse venuto fuori nulla, almeno poteva richiamare Deb per dirle che aveva fatto del suo meglio.

La sua prima telefonata fu al vicecommissario della polizia di Stato della Virginia, un uomo che si chiamava Clarence Greene. Ci aveva lavorato da vicino su molti casi nell’ultima decina di anni e condividevano rispetto reciproco l’uno per l’altra. Sperava che l’anno ormai trascorso non avesse del tutto cancellato il rapporto. Sapendo che Clarence non era mai in ufficio, optò per bypassare la linea fissa e chiamarlo al cellulare.

Proprio quando pensava che nessuno le avrebbe risposto, venne salutata da una voce familiare. Per un attimo Kate si sentì come se non avesse mai lasciato il lavoro.

«Agente Wise» disse Clarence. «Come diavolo stai?»

«Bene» disse lei. «E tu?»

«Come sempre. Devo ammetterlo, però… Pensavo di aver smesso di vedere il tuo nome comparirmi sullo schermo.»

«Sì, a proposito» disse Kate. «Odio arrivare con una cosa come questa dopo più di un anno di silenzio, ma ho un’amica che ha perso la figlia. Le ho dato la mia parola che avrei dato un’occhiata alle indagini.»

«Allora che cosa vuoi da me?» chiese Clarence.

«Be’, il sospettato principale era l’ex ragazzo della figlia. Pare che sia stato arrestato e poi rilasciato in circa tre ore. Naturalmente i genitori se ne stanno chiedendo la ragione.»

«Oh» disse Clarence. «Senti… Wise, non posso proprio divulgarti l’informazione. E, con tutto il dovuto rispetto, tu questo lo dovresti già sapere.»

«Non sto cercando di interferire nel caso» disse Kate. «Mi stavo solo chiedendo perché non è stata data una vera ragione ai genitori per il rilascio del sospetto. È una madre in lutto in cerca di risposte e…»

«Mi ripeto, ti fermo qui» disse Clarence. «Come sai bene ho a che fare con madri e padri in lutto piuttosto regolarmente. Solo perché in questo momento tu per caso ne conosci una personalmente non vuol dire che posso infrangere il protocollo o girarmi dall’altra parte.»

«Visto il lavoro che abbiamo fatto insieme, lo sai che intendo agire solo per il meglio.»

«Oh, ne sono sicuro. Ma l’ultima cosa di cui ho bisogno è un’agente dell’FBI in pensione che ficca il naso in un caso corrente, a prescindere da quanto possa fare l’indifferente. Devi capirlo, okay?»

La parte brutta era che lei lo capiva davvero. Eppure doveva tentare un’ultima volta. «Lo considererei un favore personale.»

«Ne sono sicuro» disse Clarence, un po’ accondiscendente. «Ma la risposta è no, agente Wise. Ora, se vuoi scusarmi, sto andando in tribunale per parlare con una di quelle vedove in lutto di cui ti ho appena parlato. Mi dispiace di non essere riuscito ad aiutarti.»

Terminò la telefonata senza un saluto, lasciando Kate a fissare quel quadrato di luce che lentamente si spostava sul pavimento di legno massiccio. Prese in considerazione la mossa successiva, notando che il vicecommissario Greene aveva appena rivelato che stava andando in tribunale. Immaginò che la mossa furba sarebbe stata prendere il suo rifiuto di aiutarla come una sconfitta. Ma la riluttanza di lui ad aiutarla le faceva solo desiderare ancor di più di continuare a scavare.

Mi è sempre stato detto che avevo una vena cocciuta come agente, pensò alzandosi dalla scrivania. È bello vedere che alcune cose non sono cambiate.

***

Mezz’ora dopo Kate stava parcheggiando l’auto in un garage adiacente al terzo distretto di polizia. Sulla base del luogo in cui era avvenuto l’omicidio di Julie Meade – nome da sposata Julie Hicks – Kate sapeva che sarebbe stato la miglior fonte di informazioni. L’unico problema era che a parte il vicecommissario Greene, non conosceva nessun altro nel dipartimento, ancor meno nel terzo distretto.

Entrò nell’ufficio con sicurezza. Sapeva che c’erano alcune cose della situazione corrente che un agente attento avrebbe notato. Innanzitutto, lei non aveva un’arma da fianco. Aveva un porto d’armi per portare un’arma nascosta, ma dato quello che intendeva fare aveva pensato che avrebbe potuto causare più problemi di quanti ne valesse, se fosse stata beccata a essere anche minimamente disonesta.

E la disonestà era cosa che proprio non poteva permettersi. Pensione o no, c’era in gioco la sua reputazione – una reputazione che si era costruita con grande cura per oltre trent’anni. Avrebbe dovuto percorrere una linea sottile nei minuti seguenti, cosa che accoglieva bene. Non si era sentita così in ansia per l’intero anno che aveva vissuto da pensionata.

Si avvicinò alla scrivania delle informazioni, una zona ben illuminata separata dalla stanza centrale da un pannello di vetro. Una donna in uniforme sedeva alla scrivania, timbrando qualcosa su un libro mastro mentre Kate si avvicinava. Alzò lo sguardo su Kate con una faccia che sembrava non venire onorata da un sorriso da giorni.

«Come posso aiutarla?» chiese la receptionist.

«Sono un’agente dell’FBI in pensione in cerca di informazioni su un omicidio recente. Speravo di farmi dare i nomi degli agenti in carico del caso.»

«Ha un documento?» chiese la donna.

Kate estrasse la patente di guida e la fece scivolare attraverso l’apertura del vetro divisorio. La donna la guardò per un totale di un secondo e poi la fece scivolare di nuovo verso di lei. «Mi serve il documento identificativo dell’FBI.»

«Be’, come ho detto, sono in pensione.»

«E chi l’ha mandata? Mi serviranno nomi e informazioni di contatto e poi dovranno compilare una domanda per farle avere le informazioni.»

«Speravo di scavalcare tutte le formalità.»

«Allora non posso aiutarla» disse la donna.

Kate si chiese quanto avrebbe potuto insistere. Se avesse spinto troppo, qualcuno avrebbe sicuramente avvisato Clarence Greene e sarebbe stato un male. Si scervellò, cercando di pensare a un altro modo. Riuscì a trovarne solo uno, ed era molto più rischioso di quel che stava tentando in quel momento.

Con un sospiro, Kate disse bruscamente, «Be’, grazie comunque.»

Girò sui tacchi e uscì dall’ufficio. Era un po’ in imbarazzo. Che diavolo aveva pensato? Anche se avesse ancora avuto il documento del bureau sarebbe stato illegale per il dipartimento di Richmond fornirle qualsiasi informazione senza l’approvazione di un supervisore di Washington D.C.

Era oltremodo umiliante tornare alla macchina con una sensazione così assoluta – la sensazione di essere una semplice civile.

Ma una civile che odia avere un no come risposta.

Prese il cellulare e fece partire una chiamata per Deb Meade. Quando Deb rispose, sembrava ancora stanca e lontana.

«Scusa se ti disturbo, Deb» disse. «Ma tu hai il nome e l’indirizzo dell’ex ragazzo?»

Come si scoprì, Deb aveva entrambi.

CAPITOLO QUATTRO

Pur non avendo il suo vecchio documento del bureau, Kate aveva comunque l’ultimo distintivo che avesse mai posseduto. Era puntellato sulla mensola del camino come un relitto di altri tempi, non meglio di una fotografia sbiadita. Quando lasciò il terzo distretto tornò a casa e lo sollevò. Pensò a lungo se prendere anche l’arma da fianco. Guardò bramosa la M1911 ma la lasciò dov’era, nel cassetto del comodino. Portarla con sé per quello che aveva in programma di fare avrebbe voluto dire andare in cerca di guai.

Decise però di prendere le manette che teneva in una scatola da scarpe sotto al letto con altri tesori della sua carriera.

Non si sa mai.

Lasciò la casa e andò all’indirizzo che le aveva dato Deb. Era un posto a Shockoe Bottom, un quartiere a venti minuti di macchina da casa sua. Non era nervosa durante il tragitto, sentiva invece un senso di entusiasmo. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo però, allo stesso tempo, era una bella sensazione essere fuori, a caccia, di nuovo – anche se in segreto.

Non appena ebbe raggiunto l’indirizzo dell’ex ragazzo di Julie Hicks, un tizio di nome Brian Neilbolt, Kate pensò a suo marito. Le veniva in mente ogni tanto, ma a volte sembrava arrivare e rimanerci per un po’. Accadde quando svoltò nella strada di destinazione. Riusciva a vederlo scuotere la testa di frustrazione.

Kate, lo sai che non dovresti farlo, pareva dire.

Lei sorrise debolmente. A volte suo marito le mancava violentemente, un adatto contrasto col fatto che a volte le pareva di essere riuscita a superare la sua morte piuttosto velocemente.

Scosse via le ragnatele dei ricordi parcheggiando l’auto di fronte all’indirizzo che le aveva dato Deb. Era una casa piuttosto carina, divisa in due diversi appartamenti con portici a separare le proprietà. Quando smontò dalla macchina capì subito che c’era qualcuno in casa, perché riusciva a sentire qualcuno parlare molto forte all’interno.

Quando salì i gradini del portico, si sentì come se avesse fatto un passo indietro nel tempo, a circa un anno prima. Si sentiva ancora un’agente, nonostante la mancanza dell’arma da fuoco alla vita. Eppure, essendo in toto un’agente in pensione, non aveva idea di quel che avrebbe detto dopo aver bussato alla porta.

Ma non lasciò che la cosa la fermasse. Bussò alla porta con la stessa autorità che avrebbe avuto un anno prima. Mentre ascoltava le parole ad alta voce venire da dentro, pensò che si sarebbe attenuta alla verità. Mentire in una situazione di cui già non avrebbe dovuto essere parte avrebbe solo peggiorato le cose se fosse stata beccata.

L’uomo che aprì la porta prese un po’ alla sprovvista Kate. Era alto circa un metro e novantadue ed era grossissimo. Bastavano le spalle a mostrare che faceva molta palestra. Sarebbe passato tranquillamente per un pugile professionista. L’unica cosa che tradiva quella facciata era la rabbia che aveva negli occhi.

 

«Sì?» chiese. «Lei chi è?»

Lei allora fece una mossa che le era mancata tantissimo. Gli mostrò il distintivo. Sperava che desse un po’ di peso alla presentazione. «Sono Kate Wise. Sono un’agente dell’FBI in pensione. Speravo che potesse parlarmi per un attimo.»

«Di cosa?» chiese, le parole rapide e svelte.

«Lei è Brian Neilbolt?» chiese.

«Sì.»

«Allora la sua ex ragazza era Julie Hicks, giusto? Un tempo Julie Meade?»

«Ah cazzo, ancora? Senta, mi hanno già portato dentro per interrogarmi quei cazzo di poliziotti. Adesso anche i federali?»

«Stia tranquillo, non sono venuta a interrogarla. Volevo solo farle qualche domanda.»

«A me pare un interrogatorio» disse. «E poi ha detto di essere in pensione. Sono piuttosto sicuro di non essere costretto a fare niente di ciò che chiede.»

Lei finse di rimanerne ferita, distogliendo lo sguardo da lui. In realtà, però, stava guardando oltre le sue spalle massicce lo spazio dietro di lui. Vide una valigia e due zaini appoggiati contro il muro. Vide anche un foglio di carta posato sopra la valigia. Il grosso logo lo identificava come una ricevuta di Orbitz. Apparentemente Brian Neilbolt avrebbe lasciato la città per un po’.

Non il miglior scenario quando la tua ex ragazza è stata assassinata e tu sei stato portato dentro e poi immediatamente rilasciato dalla polizia.

«Dove sta andando?» chiese Kate.

«Non sono affari suoi.»

«Con chi stava parlando così rumorosamente al telefono prima che bussassi?»

«Di nuovo, non sono affari suoi. Ora, se vuole scusarmi…»

Fece per chiudere la porta, ma Kate insistette. Fece un passo avanti e incastrò la scarpa tra la porta e la cornice. «Signor Neilbolt, le sto solo chiedendo cinque minuti del suo tempo.»

Un’ondata di furia gli passò per gli occhi, ma poi parve cedere. Lasciò cadere la testa e per un attimo pensò che sembrasse triste. Era simile allo sguardo che aveva visto sui visi dei Meade.

«Ha detto di essere un’agente in pensione, vero?» chiese Neilbolt.

«Esatto» confermò.

«In pensione» disse. «Quindi se ne vada dal mio portico, cazzo.»

Lei rimase lì risoluta, rendendo chiaro che non aveva intenzione di andare da nessuna parte.

«Ho detto se ne vada dal mio portico!»

Fece un cenno e poi cercò di spingerla. Lei sentì la forza delle sue mani quando le colpirono la spalla e agì il più velocemente possibile. Subito rimase sconvolta da quanto rapidamente si manifestarono i riflessi e la memoria muscolare.

Incespicando all’indietro, avvolse entrambe le braccia attorno a quello di Neilbolt. Allo stesso tempo cadde su un ginocchio per fermare lo slancio all’indietro. Poi fece del suo meglio per praticargli un hip toss ma la sua mole era troppa da gestire. Quando lui si accorse di quel che lei stava cercando di fare, le ficcò uno spigoloso gomito nelle costole.

Il fiato le uscì fuori dal petto ma dato che lui aveva usato il gomito aveva perso l’equilibrio. Stavolta, quando tentò l’hip toss, funzionò. E dato che ci mise tutto ciò che poteva, funzionò un po’ troppo bene.

Neilbolt precipitò dal portico. Quando atterrò, colpì gli ultimi due gradini. Urlò dal dolore e cercò di rimettersi subito in piedi. Alzò lo sguardo su di lei sotto shock, cercando di capire quel che era accaduto. Carico di rabbia e sorpresa, zoppicò su per le scale verso di lei, chiaramente confuso.

Lei fece finta di volerlo colpire in viso col ginocchio destro quando lui si avvicinò al primo gradino. Quando schivò il ginocchio, lei gli prese il lato della testa e andò di nuovo sulle ginocchia. Gli fece sbattere la testa forte contro il portico mentre lui agitava le braccia e le gambe per avere presa sulle scale. Poi lei prese le manette dall’interno della giacca e le applicò con una rapidità e una facilità che solo trent’anni di esperienza potevano fornire.

Si allontanò di qualche passo da Brian Neilbolt e abbassò lo sguardo su di lui. Non combatteva contro le manette; sembrava piuttosto confuso, anzi.

Kate prese il telefono con l’intenzione di chiamare i poliziotti e si accorse che le tremava la mano. Era animata, inondata di adrenalina. Si accorse di avere un sorriso in volto.

Dio, quanto mi mancava.

Anche se il colpo alle costole le faceva un male cane – molto più di quanto le avrebbe fatto male cinque o sei anni prima, sicuro. E le giunzioni delle ginocchia le avevano fatto sempre così male dopo un contrasto?

Si concesse un momento per festeggiare ciò che aveva fatto e poi finalmente riuscì a chiamare la polizia. Nel frattempo Brian Neilbolt restava intontito ai suoi piedi, forse a chiedersi come aveva fatto una donna di almeno vent’anni più vecchia di lui a spaccargli il culo con tanta maestria.

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