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Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2

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L'intento delle gride, chiamate d'impunità, e che appunto avevano un nome proprio per esser molto frequenti, l'intento era, come ognun vede, d'indurre i rei medesimi a farsi ministri della giustizia, e di seminare la diffidenza fra loro. Perduta la speranza e abbandonata la pretensione di ottener l'effetto intero degli editti, si voleva almeno, col sagrifizio d'una porzione del pubblico esempio, assicurarne un'altra, e la più importante. Ma, senza parlare della sensatezza dell'intento, nè del merito morale dei mezzi, che questi, in moltissimi casi, riuscissero inefficaci a conseguirlo, ne abbiamo la prova in molte gride d'impunità contra uno o più banditi, ripublicate molti anni dopo la prima publicazione. L'impunità d'un delitto era un premio di poco valore per complici che d'ordinario ne avevano addosso molti altri, e che intanto godevano, con fatica, è vero, una impunità intera all'ombra del loro capo. La liberazione era un debole allettamento per banditi che non vivevano, nè volevano vivere se non di quelle cose per le quali s'incorreva nel bando. Di più, per ottenere questi vantaggi, quali che fossero, il complice o il bandito doveva necessariamente aver che fare con la giustizia, confidarsi ad una autorità cavillosa e malfida, la quale certamente desiderava più di sterminarlo che di dargli una ricompensa, e che disponeva di procedure complicatissime, e non solo operava ad arbitrio, ma ne aveva consecrato anche il nome. Quanto a quell'esca del premio pecuniario, ella non poteva tentare che una classe di persone: le gride costituivano birro o carnefice ogni cittadino che avesse voluto farne l'uficio e meritarne la paga; ma l'uso della forza publica e le idee comuni tendevano a tutt'altro che a far risguardare come onorevole e virtuosa una tale cooperazione del privato a quella forza, e nessun uomo dabbene e pacifico avrebbe voluto affrontare un pericolo e l'infamia, nè vincere una ripugnanza fondata in gran parte sopra motivi onesti, per amore degli scudi. Non restavano dunque che i facinorosi di professione, e gli scherani stessi del tiranno; ma quando uno di questi fosse riuscito a far sicuramente il suo colpo, doveva poi aspettarsi la vendetta di lui, se, preso, egli tornava in libertà, o dei suoi parenti ed amici, s'egli fosse stato morto; doveva, dico, aspettarsela con certezza, in un tempo in cui la vendetta era dai più tenuta come una obligazione d'onore, e l'assassinio in questi casi non era contato fra quelle azioni che lo tolgono. Tutto ciò quando l'impresa di prendere o di uccidere un tiranno fosse stata per sè agevole; ma i tiranni adoperavano anch'essi naturalmente tutti i mezzi che potevano, per assicurarsi contra la forza aperta e contra le insidie; di questi mezzi ne avevano assai; e quel che è osservabile, le gride stesse, fatte contra di essi, ne suggerivano, ne somministravano loro alcuni, e dei più potenti.

Le società civili (ancora un momento di pazienza) sono state spesso paragonate al corpo umano, i legislatori ai medici, le leggi alle medicine: e in fatti queste cose si somigliano molto, se non altro in ciò, che son tutte cose assai curiose. Hanno poi altre somiglianze parziali; eccone una. Un medico amministra un rimedio ad intenzione che faccia nel corpo una tale operazione, che il rimedio fa, o non fa, ma ne fa poi sovente altre che il medico non ha volute, nè prevedute, che non riconoscerà come conseguenze del suo fatto, quando si manifestino, ma dirà: oh, vedete un po' che scherzi fa la natura! Lo stesso accade sovente in fatto di leggi: e siccome poi le società civili sono infermi di lunga vita, sono, per servirci di un modo proverbiale, di quelle conche fesse che bastano un pezzo, così alle volte, appena dopo cento, dugento, trecent'anni, si comincia a sospettare, ad aver sentore, che certe doglie vecchie d'un corpo sociale, certi sintomi stravaganti e non mai spiegati, sono effetti d'uno specifico mirabile applicato o cacciato giù fin da quel tempo per ordine d'un medico valente, (parlo in metafora) o per consulto di più valenti medici. V'ha anche alcuni di questi effetti, nè voluti, nè preveduti dal legislatore, che danno in fuori immediatamente. Le gride, di cui parliamo, dovevano produrre inevitabilmente questo: che i tiranni, quanto più erano minacciati da quelle, tanto più si tenessero intorno di quei malfattori segnalati, ai quali le gride non promettevano grazia, e che non avendo altra speranza di salvezza che nel loro signore, non solo non erano tentati d'ordirgli insidie, ma interessati a guardarlo dalle altrui. Così quegli atti legislativi tendevano, non per intenzione, ma in fatto, a riunire i più perniciosi e determinati ribaldi, davano, per così dire, un nuovo bisogno e un nuovo indicamento di organizzazione alle forze nemiche della giustizia in tutti i sensi di questa parola. Che se, per uscire da questo inconveniente, si fosse estesa ad ogni classe di colpevoli la promessa dell'impunità e della liberazione, si cadeva nell'altro terribile di rinunziare anche alla speranza, alla volontà, di non lasciar senza pena almeno certi più atroci misfatti. Con queste osservazioni si capisce tanto o quanto il come a nessuno venisse voglia di prendere il tiranno innominato, nè tanti altri banditi come lui.

In quell'asilo egli dovette pensare ai casi suoi. Grazia dall'autorità non era da sperarne, nè manco egli era inclinato a ricorrere ad un tale rimedio; rimaner quivi rinchiuso, a che fare? e fin quando? Uscirne, e tornare a casa sua a far la vita di prima, non era cosa riuscibile, al punto a cui aveva spinte le cose. Risolvette dunque di sfrattar dallo Stato. Suppongo che a questa circostanza debba riferirsi un tratto della sua vita, che è menzionato nella storia sopra citata del Ripamonti, un tratto che basterebbe a dare un'idea dell'uomo, e che noi riporteremo perciò, traducendolo alla meglio dall'energico latino di quello scrittore: «Una volta», dic'egli, «che costui, non so per qual cagione, volle sgombrare il paese, la paura che mostrò, il riguardo e la segretezza che usò, furono tali: traversò la città a cavallo, con un seguito di cani» (gli uomini si sottintendono) «a suon di tromba; e passando dinanzi al palazzo di Corte, lasciò alle guardie un'imbasciata di villanie pel governatore». Uscito ch'ei fu dello Stato, si pubblicò un altro bando che ne lo dichiarava cacciato, e gli levava la protezione regia, sì che, tornando, potesse esser fatto prigione e impunemente offeso da tutti, mantenute le promesse anteriori; e aggiunta la liberazione di quattro banditi a chi lo consegnasse vivo o morto. Dove egli andasse a posarsi, o dove errasse, che facesse fuori e quanto tempo vi rimanesse, nè il manoscritto lo dice, nè altrove ne ho trovata menzione: trovo soltanto che una mattina egli pigliò il partito di tornarsene in paese. O fosse cangiato quel governatore che s'era dichiarato suo nemico personale; fossero mancati di vita o decaduti di potenza alcuni de' suoi più capitali nemici, o venuti in potenza de' suoi amici; o fosse levato il bando per qualche potentissima raccomandazione (che anche un tal supposto è verisimile in quella condizione di tempi); o fossero nate altre circostanze qualunque da inspirargli una nuova sicurezza, o quel suo animo gliene tenesse luogo, certo è ch'egli stimò di poter tornare liberamente a casa sua e di stabilirvisi, e vi tornò infatti, non però in Milano, ma in un castello d'un suo feudo su l'estremo confine col territorio bergamasco, e allora collo Stato Veneto. È parimente certo che nella sua assenza egli non aveva rotte le pratiche, nè intermesse le corrispondenze con que' tali suoi amici, e che stabilito nel suo castello continuò ad essere unito con loro, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, «in lega occulta di consigli atroci e di cose funeste». Pare anzi che quel terribile faccendone di misfatti approfittasse dell'esiglio per estendere tali corrispondenze, e contraesse allora in più alti luoghi certe nuove terribili pratiche, delle quali il Ripamonti parla con una sua brevità misteriosa: «Anche alcuni principi esteri», dice questo scrittore, «si valsero più volte dell'opera sua per qualche importante uccisione, e in più d'un caso gli spedirono da lontano rinforzi di gente che servisse a ciò sotto i suoi ordini». Noi abbiamo ben fatto il possibile per trovar qualche più distinto particolare d'un fatto così importante alla cognizione e del personaggio e dello stato della società in quel tempo; ma senza effetto. La storia, e massime quella dei costumi, è nei libri, come nei musei d'anticaglie, a pezzi e bocconi, e troppo spesso, principalmente nei libri, se ne trova di quelli che non si possono mettere insieme con altri pezzi e con altri bocconi, tanto da vederne una figura, e da ricavarne una notizia186.

 

XII.
Descrizione dell'autografo della prima minuta de' «Promessi Sposi»187

1) «Introduzione»

Fogli 6 in-fol. di pp. 4 l'uno. Il primo non è numerato, gli altri hanno la numerazione alla romana II-VI, fatta dal Manzoni stesso. Comincia: «L'Historia si può veramente»; finisce: «non sarebbe pure inteso». È il primo sbozzo autografo, ed è scritto a colonna, come tutto il Romanzo. Forma il n. 1.A de' Fogli staccati dai «Promessi Sposi». Fu stampato da me a pp. 183-194 del vol. I degli Scritti postumi.

2) [Fogli di scarto del primo abbozzo dell'Introduzione]

Fogli 2 in-fol. di 4 pp. per ciascuno. Il Manzoni, di sua mano, numerò col III il primo di questi due fogli, ma poi dette di frego a quel numero e lo mutò in II.bis Il secondo fu da lui numerato III. Cominciano: «Ogni epoca letteraria»; finiscono: «a quelle nostre, sacrificando». Formano il fascicolo n. 1.B de' Fogli staccati dai «Promessi Sposi». Sono a stampa a pp. 194-198 del vol I degli Scritti postumi.

3) «Introduzione»

Abbraccia 4 fogli in-fol. di 4 pp. l'uno, il primo senza numerazione, gli altri numerati dal Manzoni 2-4. L'ultima pagina del quarto foglio è bianca. Comincia: «La Storia si può veramente»; finisce: «del molto più che egli stesso vi ha speso». Sta in fronte alla prima minuta del Romanzo; ma in realtà è la seconda minuta dell'Introduzione. Fu stampata a pp. 198-204 del vol I degli Scritti postumi.

4) «Capitolo I. Il curato di…»

È il primo capitolo del tomo primo, con questa data, su in alto: 24 Aprile 1821. Si compone de' fogli: I, 2-5 e 8-14. Di quest'ultimo è scritta soltanto la prima colonna. De' fogli mancanti 6 e 7, il 6 fu trasportato dal Manzoni nella seconda minuta, dove si trova. Gli mutò il numero, prima in 7, poi in 8, rimastogli. Il foglio 7 nella seconda minuta ebbe prima il numero 8, poi quello 9. Di esso, peraltro, stracciò le due ultime pagine e ve ne sostituì due nuove. Le due pagine vecchie hanno adesso il n. 17. Il capitolo comincia: «Quel ramo del lago di Como»; finisce: «ordinatamente sui casi suoi».

5) «Cap. II. Fermo»

Si compone de' fogli 15, 17-23. Di quest'ultimo è scritta soltanto la prima colonna. Il Manzoni trasportò nella seconda minuta le due prime pagine del foglio 16; e lasciò nella prima le due ultime pagine del foglio stesso. Il capitolo comincia: «La consulta fu tempestosa e durò tutta la notte»; finisce: «che noi racconteremo nel seguente capitolo».

6) «Cap. III. Il causidico»

Prima era intitolato: «Don Rodrigo». Si componeva de' fogli 24-34, che l'A. trasportò tutti quanti nella seconda minuta, dove hanno la nuova numerazione 47-68. Incomincia: «I tre rimasti a consiglio»; finisce: «Tanto è vero che un uomo colpito da grandi dolori non sa più quello che si dica».

7) «Cap. IV. Il Padre Cristoforo»

Prima era intitolato: «Il Padre Galdino», Si compone de' fogli rimasti 35-38. I fogli 39-46 furono dal Manzoni trasportati nella seconda minuta. Comincia: «Era un bel mattino di novembre»; finisce: «dicendo ad una voce: Oh Padre Guardiano!»

8) «Cap. V. Il tentativo»

Si componeva de' fogli 47-58, che il Manzoni trasportò nella seconda minuta. Comincia: «Il qual Padre Guardiano»; finisce: «lo condusse seco in una stanza vicina».

9) «Cap. VI. Peggio che peggio»

Si componeva de' fogli 59-67, che l'A. trasportò nella seconda minuta, ma cancellandovi quasi per intiero la prima stesura e tornando a riscrivere il capitolo. Nella prima minuta è rimasto soltanto il foglio 68. Il capitolo comincia: «Ognuno può avere»; finisce: «di non dir parola del disegno contrastato».

10) «Capitolo VII. La sorpresa»

Il Manzoni trasportò nella seconda minuta i fogli 69-80; lasciando nella prima soltanto il foglio 81. Comincia: «Il Padre Cristoforo arrivava nell'attitudine d'un buon generale»; finisce: «e la povera Lucia appoggiata».

11) «Capitolo VIII. La fuga»

De' fogli che lo formano sono rimasti l'82, l'83, il 91 e il 92, Quest'ultimo era prima numerato 90. Il Manzoni trasportò nella seconda minuta il foglio 84, che divenne 86, l'85 mutato in 87, l'87 trasformato in 89, l'88 diventato 90, e l'89 cambiato in 91. Il vecchio foglio 86 manca. Con questo capitolo finisce il tomo primo. Comincia: «Ton, ton, ton, ton, i contadini»; finisce: «viveva delle sue stesse speranze».

12) «Cap. I. Digressione – La Signora»

Prima aveva per titolo: «Cap. IX. Disgressione»; divenne poi, invece dell'ultimo capitolo del tomo I, il capitolo I del tomo II. I fogli che lo compongono hanno la vecchia numerazione manzoniana 92-101, ma cancellata; uno soltanto, l'11 e ultimo, ha quella nuova, pur dategli dal Manzoni. Comincia: «Avendo posto in fronte a questo scritto»; finisce: «con la Signora a subire l'esame».

13) «Capitolo II. La Signora tuttavia»

Si compone de' fogli 12-23. Il capitolo termina nella seconda colonna dell'ultimo di questi fogli. Comincia: «Le parole della Signora»; finisce: «si sarebbe fatta per lo meglio».

14) «Capitolo III»

Si compone de' fogli 24-34. Comincia: «V'ha dei momenti in cui l'animo»; finisce: «poteva esser un gran soccorso».

15) «Capitolo IV»

Si compone de' fogli 35-45. Comincia: «Appena cessati gl'inchini»; finisce: «e come diremo nel seguente capitolo».

16) «Capitolo V»

Si compone de' fogli 46-53. Comincia: «Il quartiere dove abitavano le educande»; finisce: «con un colpo la lasciò senza vita».

17) «Capitolo VI»

Si compone de' fogli 54-59. Disgraziatamente mancano i fogli 60-61. Comincia: «Accorse al romore Egidio»; finisce: «non da un vecchio calvo e barbuto».

18) «Capitolo VII»

Si compone de' fogli 62-74. Comincia: «Come una truppa di segugi»; finisce: «era appunto per lui quel che il diavolo fece».

19) «Capitolo VIII»

Si compone de' fogli 75-87. Comincia: «Il mattino seguente»; finisce: «la via che gli era prescritta».

20) «Capitolo IX»

Si compone de' fogli 88-95 e 95-1/2-99. «Comincia: «Quando Egidio si avvenne»; finisce: «essere esenti da ogni perplessità».

21) «Capitolo X»

Si compone de' fogli 100-116. Comincia: «La carrozza correva tuttavia»; finisce: «e mescolandovi del vostro il meno che sarà possibile». In calce poi porta scritto: «Fine del 2.º volume».

22) «Cap. I»

È il capitolo I del tomo III, e su in alto porta scritto: 28 8bre 1822. Si compone de' fogli 1-11. Comincia: «Il Cardinale Federigo secondo il suo costume»; finisce: «seguirono posatamente la lettiga».

23) «Capitolo II»

Ha principio alla terza colonna del foglio ii e abbraccia i fogli 12-24. Comincia: «La casupola del curato»; finisce: «il nome del Conte del Sagrato non ricompare poi più nel manoscritto».

24) «Capitolo III»

Si compone de' fogli 25-30. Comincia: «Quando il Cardinale, terminate le funzioni, si ritirò»; finisce: «pregò egli il curato di portarsi a Chiuso e di far sapere a Lucia ch'egli pensava a Lei e che stesse dì buon animo».

25) [Capitolo IV]

Il Manzoni si scordò d'intestarlo, ed Ermes Visconti vi scrisse: «Cap. (quello che sarà)». Abbraccia i fogli 31-50. Comincia: «Dopo due, tre o quattro giorni spesi dal Cardinale nella visita»; finisce: «per quanto un sì magnifico epiteto può stare con un sì misero sostantivo».

26) «Capitolo V»

Abbraccia i fogli 51-64. I fogli però 52-64, prima avevano un'altra numerazione: il 52 era 51, e via di seguito. Comincia: «Ho visto più volte un caro fanciullo (vispo a dir vero più del bisogno)»; finisce: «che sarebbero venuti anni migliori, che insomma il tempo avrebbe rimediato a tutto».

27) «Capitolo VI»

Si compone de' fogli 65-77. I fogli 65 e 66, prima erano numerati 64 e 65. Comincia: «Il tempo è una gran bella cosa: gli uomini lo accusano è vero di due difetti»; finisce: «Prendiamo dunque gli uomini come sono, raccontando quello che hanno fatto».

28) [Capitolo VII]

Abbraccia i fogli 78-86 e le due prime colonne del foglio 87. L'intestatura: Capitolo VII fu cancellata dal Manzoni, che per un istante vagheggiò di farne la prosecuzione del capitolo precedente; pensiero che poi depose. Comincia: «La folla che all'avviarsi della carrozza s'era tutta messa in movimento, per tenerle dietro, cominciò a disperdersi»; finisce: «o a maggior pena pecuniaria o corporale ad arbitrio di Sua Eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie».

29) «Capitolo VIII»

Ha principio alla terza colonna del foglio 87 e abbraccia i fogli 88-99. Incomincia: «A queste parole giunse egli alla soglia del palazzo del Capitano di Giustizia»; finisce: «Lasceremo per ora Fermo, giacchè si trova in una situazione tollerabile e torneremo colla sua e nostra Lucia».

30) «Capitolo IX»

Abbraccia i fogli 100-110. Comincia: «Dobbiamo ora far conoscere al lettore i personaggi coi quali si trovava Lucia»; finisce: «come ai giorni nostri farebbe una madre della condizione di Agnese che avesse una figliata collocata in Inghilterra». Segue, ma cancellato: «Fine del tomo III. 11 marzo 1823»; poi, senza cancellare, e aggiunto dopo: «segue».

31) [Aggiunta al Capitolo IX]

Si compone de' fogli 111-113. Comincia: «La povera donna aveva un'altra faccenda su le braccia: la corrispondenza con Fermo»; finisce: «fin che ella fu interrotta dagli avvenimenti, che racconteremo nel volume seguente»; e poi: «Fine del tomo III». Questa aggiunta è formata dei fogli 58 e 59 del tomo IV, che stralciò di là, dandogli i numeri 111 e 112, e del nuovo foglio 113. Nel vecchio foglio 58 cancellò le due prime colonne, contenenti un brano che incominciava: «Fatte le parti, i monatti lo posero [Don Rodrigo] nella bussola e lo portarono al lazzeretto»: e che finiva: «Fermo era sempre rimasto a Bergamo, dove era andato a porsi in salvo».

32) «Capitolo I»

È il capitolo I del tomo IV. Abbraccia i fogli 1-13. Comincia: «Dalla fine dell'anno 1628 alla quale siamo pervenuti colla narrazione»; finisce: «Dalla Valsassina il temporale discese nel territorio di Lecco».

33) «Capitolo II»

Si compone de' fogli 14-25. Comincia: «Le contingenze infelici della vita umana»; finisce: «vestimenta o cose di qualunque genere infette». L'ultimo brano però si legge in margine alla prima colonna del foglio 26.

34) «Capitolo III»

Si compone de' fogli 26-37. Il 26, prima era 27, Comincia: «Il giorno 22 d'Ottobre di quell'anno 1629, Pietro Antonio Lovato»; finisce: «ripiglio il manoscritto del mio autore e torno alla storia».

35) «Capitolo IV»

Si compone de' fogli 38-53. Il capitolo però termina nella prima colonna dell'ultimo di questi fogli. Comincia: «Andavano intanto coll'avanzare della primavera sempre più spesseggiando»; finisce: «Gli abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero».

36) «Capitolo V»

Comincia nella seconda colonna del foglio 53 e abbraccia i fogli 54-66. Principia così: «Una sera, verso il mezzo d'Agosto, Don Rodrigo tornava alla sua casa in Milano»; finisce: «e fece la sua seconda entrata in Milano, che gli comparve in un aspetto più tristo e più strano d'assai che non era stato la prima volta».

 
37) «Capitolo VI»

Non restano di questo capitolo che i fogli 67-73. Comincia: «S'io avessi ad inventare una storia»; resta in tronco con le parole: «ma egli era presso al termine della via, d'una via».

38) [Capitolo VII]

Di questo capitolo manca il principio; de' fogli che lo componevano rimangono quelli 82-94. Nella quarta colonna di questo ultimo foglio ha principio il capitolo VIII. Ciò che resta comincia con una colonna tutta cancellata, che dalle parole: «il favore degli uomini benevoli» arriva alle parole «dai suoi nemici, i quali del resto». Il capitolo finisce: «andava cercando intorno dove fosse più bisogno della sua assistenza».

39) «Capitolo VIII»

Comincia, come s'è detto, nella quarta colonna del foglio 94 e abbraccia i fogli 95-109. Comincia: «All'intorno del picciolo tempio»; finisce: «si rivolsero a quella parte donde le era venuta quella subita commozione».

40) «Capitolo IX»

Si compone de' fogli 110-120. Comincia: «Ritto sul mezzo dell'uscio»; finisce: «e di terminare con essa la nostra storia». Poi vi sta scritto: «17 settembre 1823».

FINE DELLA PARTE SECONDA
186Segue cancellato: «Il castello dell'innominato era posto a cavaliere ad una valle angusta ed uggiosa, su la cima d'un poggio, che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe ben dire, se congiunto ad essa, o separato, per un mucchio di greppi e di dirupi e per un andirivieni di tane e di precipizii, così sul di dietro, come sui fianchi. Il lato, che risponde nella valle, è il solo accessibile: è un pendìo anzi erto che no, ma continuo, a pascoli in alto, a colture nella più bassa falda, e sparso qua e là di abituri». Ferdinando Ranalli [Degli ammaestramenti di letteratura libri quattro, Firenze, Le Monnier, 1863; vol III, pp. 211-213] dice corna della descrizione del castello dell'Innominato fatta dal Manzoni, e riporta la descrizione di un altro castello fatta dal Bartoli, che leva al cielo; senza accorgersi che appunto in quel raffronto sta la vittoria dell'autore de' Promessi Sposi, da lui voluto annientare! (Ed.)
187Si conserva nella Sala Manzoniana della Braidense; dove si trovano pure la seconda minuta, anch'essa tutta di pugno del Manzoni; la copia per la Censura, d'altra mano, ma corretta da lui; e i Fogli staccati dai Promessi Sposi, parimente autografi. (Ed.)

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