Бесплатно

Vecchie storie d'amore

Текст
0
Отзывы
iOSAndroidWindows Phone
Куда отправить ссылку на приложение?
Не закрывайте это окно, пока не введёте код в мобильном устройстве
ПовторитьСсылка отправлена

По требованию правообладателя эта книга недоступна для скачивания в виде файла.

Однако вы можете читать её в наших мобильных приложениях (даже без подключения к сети интернет) и онлайн на сайте ЛитРес.

Отметить прочитанной
Шрифт:Меньше АаБольше Аа

IV

Corse la fama che la bella Giovanna del Farneto andava in moglie al vecchio sire di Monveglio; e la gente compiangendo la donzella ne ignorava tutta la sventura, ignorava che il suo dolore era quale il segreto dolore di Raimondo di Santelmo.

Le nozze s'annunciavano magnifiche. A un'abbazia a mezza strada tra Monveglio ed il Farneto, alla quale d'ogni parte dovevano convenire i parentadi degli sposi, si sarebbe celebrato il matrimonio una mattina presto; e messer Lapo, che non poteva girare e cavalcare, avrebbe attesi gli sposi nel castello al convito delle nozze.

Magnifiche le nozze; ma neppure la solenne circostanza fece liberale messer Lapo, e per non spendere nei cavalli che recassero le parenti e i servi di scorta alla figliuola, egli mandò attorno qua e là a domandarne in prestito. Di che avuta notizia Raimondo di Santelmo desiderò che il suo buon leardo, già ignaro testimone del suo amore lungo e sfortunato, fosse testimone a Giovanna anche del dolore e della fede sua richiamandole il ricordo di lui per ogni passo del cammino doloroso; e inviò un valletto a chiedere di grazia a messer Lapo che disponesse a palafreno della sposa il suo cavallo. – È quieto – disse il valletto – e la porterà soavemente.

Messer Lapo acconsentí. E la mattina delle nozze, quando avanti giorno le fantesche vestivano la povera Giovanna e gli scudieri allestivano gli altri cavalli per la compagnia, e in tutto il castello era un affaccendarsi rumoroso e gaio, il leardo fu condotto da Santelmo. Al lume dei torchi, per la finestra della sua stanza, messer Lapo vide partire la compagnia, e guardò a lungo la figliola, la quale gli parve bella e bene adorna; ma non porse attenzione a come fosse bello e bene adorno anche il leardo che la portava ambiante, dolcemente.

La cavalcata procedeva triste. I primi raggi del sole si spegnevano in una nuvolaglia biancastra e nell'aria plumbea non si moveva una foglia di tutto quel bosco entro cui la strada penetrava perdendosi nel fondo fitto; non un uccello cantava allegro; e la sposa sentiva cosí enorme il peso della sua sventura che non aveva forza di piangere e le mancava il respiro. La cavalcata procedeva triste. Nel cielo, sopra, la nuvolaglia si addensava a poco a poco e dinanzi l'aria si rabbuiava sempre piú, quasi annottasse: però alcuno della scorta, interrogato il tempo, proponeva di tornare indietro.

– Siamo a mezzo viaggio: avanti! – dissero gli altri. E la sposa, smarrita nel suo dolore enorme la considerazione delle cose, non vedeva e non udiva; non udiva che ripercuotersi nel cuore il passo uguale del leardo: Raimondo! Raimondo! Raimondo!

Già un rombo sordo passava per le nuvole imminenti: cavalieri e dame incitarono destrieri e palafreni e con paura tentavano di ridere. – Povera sposa! L'acquazzone la coglieva per la strada! – Infatti l'intemperie cominciò a risolversi in gocce grosse e rade e poi in un'acqua dirotta, crosciante, fragorosa. Nel fondo livido i lampi guizzavano e s'inseguivano tra gli alberi che al bagliore parevano mostri sbigottiti, e il tuono, dentro quel cielo e dentro quel bosco era il rotolare d'un traino infernale.

Finalmente con strepito di schianto repentino un fulmine stridette e scoppiò da presso ed il leardo spaventato prese la corsa d'una furia: corse cosí, non piú veduto, un lungo tratto della strada; poi, non piú veduto, balzò dalla strada oltre un rio e dietro un sentieruolo obbliquo; e la sposa, avvinghiata alla criniera, cieca di terrore sembrava tendesse lo sguardo ad un abisso nel quale s'aspettasse di precipitare.

Quanto camminò il leardo traverso la boscaglia? D'improvviso Giovanna riacquistando la vista delle cose si scorse fuori del bosco, sotto il cielo terso e luminoso e davanti a un piccolo castello bianco e solatio. Il leardo nitrí. Dal castello uno scudiero guardò e riconobbe il leardo; guardò il sire del luogo, Raimondo di Santelmo, e riconobbe Giovanna; e poiché fu abbassato il ponte lestamente, Giovanna cadde dal cavallo nelle braccia di Raimondo.

Ma lo scudiero aveva a pena dato da mangiare al cavallo madido di pioggia e di sudore che il sire venne nella stalla e comandò: – Salta in groppa e corri dal proposto di Sestale: che per nessuna cosa al mondo manchi di essere qua prima di notte.

Né era ancora notte quando, mentre le genti del Farneto e di Monveglio ricercavano tuttavia pe 'l bosco la donzella, il signore del Farneto e il signore di Monveglio appresero che madonna Giovanna, in cospetto di Dio e del prete di Sestale, era divenuta moglie a Raimondo di Santelmo.

«Mi sta bene» disse quel di Monveglio; ma l'altro bestemmiò Iddio e la sorte e la figliola. E piú tardi, imparando il fatto del leardo, «Maledetto quel cavallo! – gridò con rabbia – . Per lui ho rinnegata la figliola e lascierò al diavolo la mia roba.»

Ser Lapo, la notte, nei sogni torbidi osservava un cavallo furioso con sópravi la figlia traverso il bosco, e la visione e l'impressione dei sogni perdurandogli nella mente turbata e affievolita, egli ripeteva spesso anche di giorno: – Ah quel cavallo! quel cavallo!

V

Un giorno d'autunno, in tanto che madonna Giovanna e una fantesca distendevano il bucato al sole, arrivò di corsa a Santelmo uno scudiero del Farneto. – Madonna – disse – , messer Lapo sta male e vuol vedervi. – Ciò udito madonna Giovanna affollò lo scudiero d'inchieste e Raimondo fece sellare il leardo.

Presero per via piú breve il sentiero occulto che l'amore di Raimondo aveva tracciato dentro il bosco. E andando, con l'anima in pena, la donna si raffigurava il padre morente nella camera ove egli era rimasto lieto un mattino ad attenderla sposa e poi in un tormentoso abbandono era rimasto dei mesi ad aspettare la morte; lo rivedeva quale l'aveva veduto un giorno fanciulla portare di peso dai servi entro la stessa camera, il volto contraffatto e gli occhi gonfi e sanguigni, brutto, pauroso; e a secondare cosí con la fantasia commossa il ricordo lontano, sentiva quasi un conforto risalendo piú addietro nelle memorie della puerizia, quando per virtú della sua gaja innocenza quetava le ire del padre, ne raddolciva le asprezze e ne dissipava forse i truci disegni: su 'l castello gravavano leggende di misteri foschi. Essa, con la visione precisa dalle cose infantili, ricorreva ora per le camere ampie fredde e sonore; nella corte chiusa da muraglie umide; nell'orto incolto; sotto il porticato conventuale; attorno la cinta tutta screpolata e macchiata di licheni e di muschi, e chiamava il padre con strilli di terrore e di gioia; ed egli con un pallido sorriso l'accoglieva nelle sue braccia.

Ma ora egli moriva e forse era già morto senza averla riveduta, dopo averla invocata e attesa invano: forse era già morto! Ella guardò il marito che le veniva appresso pensoso e silenzioso.

Sotto i piedi del leardo crepitavano le foglie secche. Nel bosco era una tristezza lugubre.

Giunti che furono al castello madonna Giovanna corse dove ser Lapo, adagiato sopra un seggiolone e sorretto da guanciali, traeva a stento il respiro presso un'ampia finestra. Il suo aspetto non era piú quello di un tempo e non era quello che la figliola s'era raffigurato: nel viso esangue traspariva la sofferenza di un micidiale dolore per gran tempo raccolto e protratto, ma l'anima, che aveva conteso il corpo alla morte e per brev'ora aveva vinto, quasi purificata dalla contesa e dalla vittoria gli effondeva nel viso esangue una luce nuova di bontà e di pietà. Gli occhi non piú irosi e torvi guardarono con dolcezza placida, a lungo; poi dalle labbra raggricciate e livide uscirono finalmente parole miti e generose. E messer Lapo, che aveva perdonato a' suoi figli, volle vedere Raimondo, e riconoscendolo disse: – Muoio.

Seguí un silenzio d'alcuni minuti, eterno, e rotto soltanto dai singhiozzi della figliola e dal gorgoglioso respiro del padre. Poi questi, quasi vaneggiasse o afferrasse in una riflessione estrema un'estrema ricordanza, balbettò ancora: – Quel cavallo… quello…

O era l'ultima volontà di ser Lapo? Ordinando di condurre nella corte, sotto la finestra, il leardo, madonna Giovanna indovinava essa l'ultima volontà di ser Lapo? – Poco dopo il leardo raspava giú nella corte, e la figlia china su 'l padre – È là – disse tendendo la mano verso il cavallo.

Il vecchio alzò le pálpebre ed abbassò uno sguardo dalla finestra; lo vide e parve che sorridesse: ma le pálpebre non ricaddero sopra le pupille spente.

– Padre! – gridò la donna.

Il sire di Farneto, morto, pareva che sorridesse.

LIBERALITÀ DI MESSER BERTRAMO D'AQUINO

La corte di Carlo primo d'Angiò, dopo la strage di Tagliacozzo e poscia che da un colpo di scure fu troncata l'adolescente baldanza di Corradino di Svevia, fioriva di nobili donne e baroni e cavalieri e splendeva in magnificenza di conviti, danze, tornei e feste mai piú vedute.

Ad una di tali feste messer Bertramo d'Aquino, che tra i cavalieri del re aveva lode di singolare valore e cortesia, conobbe la moglie di messer Corrado, suo amico di molti anni, la quale era bellissima donna e si chiamava Fiola Torrella; e cominciando egli súbito a vagheggiarla, in breve se ne innamorò di guisa che non poteva pensare ad altro. E giacché madonna Fiola, non per freddezza di natura o per amor del marito o per sincerità di virtú, ma per diffidenza degli uomini e timore di scandalo e troppa stima di sé medesima, gli si mostrava aspra e fiera, messer Bertramo si perdeva ogni dí piú nel desiderio di lei e per lei giostrava, faceva grandezze, vinceva ogni altro cavaliere in gentilezza e liberalità.

Tutto invano: madonna era sorda alle sue ambasciate; gli rinviava lettere e doni; non gli rivolgeva pure uno sguardo. Ond'egli, che oramai non sperava piú nulla, nulla piú le chiedeva; e non sentendo alcun bene se non in vederla, triste e sconsolato, ma sempre con destrieri nuovi e mirabili, passava tutti i giorni sotto alle finestre di lei e ogni volta poteva vederla la salutava umilmente: essa moveva altrove i begli occhi.

 

Un amico, il quale vantava grande esperienza in conoscer le donne, confortava Bertramo: – O madonna ha un altro amante, ciò che non sembra da credere, o finirà con innamorarsi di voi – . E Bertramo per mezzi sottili ebbe certezza che Fiola non aveva altro amante; ma ella non cedeva, anzi diveniva piú rigida; sí che quell'amico esperto assai delle donne avrebbe dovuto ricredersi se la fortuna, impietosita delle angoscie del cavaliere, non avesse trovata una strana via per aiutarlo.

Certo giorno messer Corrado condusse la moglie e una gaia compagnia di cavalieri e di dame alla caccia del falcone in una villa che aveva poco lungi da Napoli; e poi che con loro fu stato in piú parti senza molta fortuna, giunto a una valletta, la quale pareva fatta dalla natura per cacciarvi, disse tutto allegro: – Ora vedrete se il mio sparviero sa spennacchiare! – Presto i cani si misero in traccia delle starne e levandone un bracco un fitto drappello, egli fe' il getto e gridò: – Guardate! – Lo sparviero, che era ben destro, scese di furia sulle starne frullanti e le disperse; una ghermí e stracciò e inseguí le altre, come un soldato valoroso che piombi sopra una schiera di nemici e abbattutone uno fughi e persegua i rimanenti.

– Come Bertramo d'Aquino, mio capitano, a Tagliacozzo – disse messer Corrado; e per dar ragione del confronto tra il suo caro sparviero e l'amico assai caro, narrò di questo le belle prodezze quando l'avea veduto irrompere impetuoso nel furor della mischia.

– Certo – aggiungeva – non è alla corte e fuori chi uguagli Bertramo in piacevolezza di parlare, grazia di modi e generosità e magnificenza d'animo; e anche il re gli vuole gran bene. – E di Bertramo proseguiva a narrare piú geste e vicende.

Madonna Fiola ascoltava attenta il marito e le lodi al cavaliere, che aveva posto ardentissimo amore in lei, le pungevano l'animo di compiacenza, quasi lodi fatte alla sua bellezza, se la sua bellezza aveva potuto accendere senza misura uomo cosí perfetto; e come le lusinghe della vanità nelle donne possono tutto, anche piegare a sensi miti le piú proterve, ella rivolgeva nel pensiero quante pene aveva sostenute Bertramo; quanto acerba noncuranza gli aveva dimostrata, e le pareva d'aver fatto male.

Potenza d'Amore! Essa già sentiva che meglio che una durezza superba e una fredda virtú soddisfaceva il suo orgoglio l'innalzare a sé il piú ammirato dei cavalieri, senza piú timore alcuno d'abbassarsi a lui; e nella esuberante sua giovinezza già serpeva un desiderio vago di consolazioni nuove e di nuove gioie suscitate e acuite, per lo spirito e per i sensi, dalla forza della passione e dalla fatalità della colpa. Perché era fatale che amasse Bertramo d'Aquino, se fino a quel giorno inutilmente aveva voluto resistergli. Tutto quel giorno pensò a lui; né sí tosto fu di ritorno a Napoli che si pose al balcone bramosa che egli, come soleva, passasse di là a riguardarla; e con suo conforto lo vide giungere all'ora usata. Ratteneva il bizzarro puledro e per quetarlo gli palpava il collo scorso da un tremito: salutò la dama, la quale smorta e palpitante risalutò e parve sorridere, e a lui s'allargò il cuore e chiarí la faccia in súbita allegrezza.

Cosí Bertramo fu pronto a scrivere una lettera a madonna Fiola scongiurandola di commuoversi a misericordia e di procurargli agio a parlarle; e n'ebbe risposta: a lei era grato l'amore di lui, ma per l'onor suo e del marito ella non poteva promettere e concedere cosa che le chiedesse. Riscrisse egli assicurandola che voleva solo parlarle e che in ciò solo poneva la salvezza della sua misera vita; ed ebbe risposta: venisse, ma a parlare soltanto, una prossima sera (e Fiola diceva quale) in cui Corrado, di ritorno da una caccia lontana e faticosa, sarebbe andato a dormire per tempo.

Ecco finalmente la sera del convegno; limpida sera estiva. Bertramo s'era dilungato assai fuori della città quasi ad affrettare, ad incontrare l'ora invocata e troppo lenta a discendere; e quando le ombre confusero le cose e le stelle si specchiarono nel mare pensò: – Di già Fiola m'aspetta – ; ma non tornò a dietro, ma sentí vivo il piacere d'essere atteso, egli che dell'attesa aveva patita tutta la pena. Pure il maligno compiacimento fu breve e se ne dolse; rivolse il cavallo e gl'infisse gli sproni nei fianchi: via, di aperto galoppo e di piena gioia, come all'assalto!

Intanto Fiola, visto che ebbe il marito addormentato nel profondo sonno della stanchezza, consegnò due lenzuoli di tela finissima alla piú fida delle sue donne, che andasse a distenderli su 'l molle letticciòlo composto entro una casupola in fondo al giardino per riposarvi nel tempo piú caldo; ed essa corse a socchiudere la porta dalla quale doveva entrare l'amante. Ascoltò: nessuno. Allora dalle aiuole e dalle macchie si die' a raccogliere le piú belle rose e strappandone i gambi riponeva le corolle e i petali freschi in un cestello che recava al braccio: anche vi metteva fragranti vainiglie e gelsomini, e quando il cestello fu colmo lo porse alla fante e le disse: – Spargi questi fiori su le lenzuola e acconcia ogni cosa; e poco dopo che messere sarà venuto, fanne cenno d'entrare. – E stette ad attendere.

Ma alla mente di lei, che con la fantasia si spingeva da un pezzo a pregustare le voluttà del suo dolce amore, balenò a un tratto il dubbio non stesse per cadere nella vendetta di messer Bertramo, il quale troppo duramente e troppo lungamente aveva fatto soffrire; non dovesse, se messer Bertramo mancasse per inganno al convegno, esser fatta gioco di lui. E se egli non aveva l'animo che suo marito le avea dipinto, non poteva ella, con acerbo dolore e vergogna, divenire la favola non solo di lui, ma de' suoi amici e di tutta la città, ella, la virtuosa donna di messer Corrado? Onde si vedeva accomunata dalla colpa e dallo scherno a quante dianzi spregiava, e si doleva d'esser caduta dalla sua casta fierezza e malediceva al mal concepito affetto.

Ma ascoltò: – Eccolo! – ; e rapida e lieta fu incontro al cavaliere che entrava e gli aperse le braccia sorridendo e sospirando: – Ben venuta l'anima mia, per cui sono stata tanto in affanno!

Messer Bertramo la strinse forte: – Mercé dunque del suo grande amore; pietà, o madonna Fiola, dei suoi lunghi travagli! – Le parole di lui erano ardenti non meno che gli sguardi di lei; e a lui pareva che ella avesse una luce intorno il capo biondo, e a lei sembrava ch'egli fosse ebbro d'amore.

Sedettero sotto un arancio fiorito scambiando piú baci che motti, e come Fiola pensava – Or ora la fante ci dà il segno d'entrare – , messer Bertramo, il quale nelle avide strette la sentiva tutta desiosa e del suo bel corpo indovinava i segreti mal difesi dalla veste sottile, poco piú tempo attendeva a godere del piacere ultimo e sommo. Ma meravigliandolo assai una tale accondiscendenza in Fiola, egli volle conoscere prima da lei perché fosse stata tanto rigida seco e qual cagione l'avesse indotta da poco a dargli un conforto sí grande.

Ella rispose: – Io non v'amava; ma mio marito, un giorno che eravamo alla caccia insieme con molti cavalieri e gentildonne, osservando un nostro bravo falcone precipitare addosso a una brigata di starne e scompigliarle tutte, si sovvenne di voi e disse che come il falcone alle starne aveva visto far voi ai nemici nella battaglia. E ricordò le prove del vostro valore e di voi asseriva che nessuno poté mai superarvi in cortesia e liberalità. Allora io ammirando l'animo vostro mi pentii subitamente d'avervi fuggito quasi mala cosa, e ora vi dono co 'l mio cuore tutta me stessa.

Udite le parole della donna, messer Bertramo stette alquanto silenzioso e raccolto in sé medesimo per improvvisa concitazione di pensieri e d'affetti diversi; poi, con uno sforzo che parve e fu supremo, perché egli rifiutava il bene non di quella sera, ma della sua giovinezza, ma della sua vita, si levò in piedi e disse:

– Non sarà mai ch'io offenda vostro marito se egli mi ama cosí e se ha tanta fede in me! E tolte di seno alcune bellissime gioie, le porse alla donna pregandola di serbarle per sua memoria, e aggiunse: – Per memoria di voi, voi datemi ora un ultimo bacio.

Madonna Fiola Torrella turbata molto, chi sa se per nuova ammirazione dell'animo nobilissimo del gentiluomo o piú tosto per vivo rammarico del perduto piacere, lo baciò sulla bocca, e messer Bertramo, senza piú toccarla, le disse addio e partí.

II

«Sempre alla lussuria séguita dolore e penitenza…»

LA SALVAZIONE DI FRA' GERUNZIO

Da una cella nel monastero di Pentula frate Gerunzio guardava in basso, lontano, sotto un chiaro lembo di cielo la massa scura di Gerico, né poteva pregar bene Iddio; e interrompeva piú volte le preci rituali con preci sue, angoscioso e lamentevole.

– Signore, che restituisti il vedere a Bertimeo, perché lasci cieca l'anima mia? Perché tu, che risuscitasti Lazzaro e il figliolo della vedova, non risusciti a te l'anima mia? Perché dai miei occhi non sgorgano lagrime degne di grazia come le lagrime del ladro e dell'adultera e io perdo, senza che tu m'aiuti, l'anima mia? Non mi abbandonare, Signore! Fa, Signore, ch'io oda la tua voce, la stessa mia voce nelle mie orazioni; fa che io le senta, che io senta nell'anima le mie colpe come tu su la fronte le spine de' Farisei! —

Da una torre di Gerico, la città degli amori e delle rose, una schiera di colombi levò il volo e delineò nell'alto il giro della città; ma alla veduta di quella tenue candida fila nel cielo azzurro e di quel cielo azzurro il monaco Gerunzio rimase intimidito quasi a un ammonimento, muto quasi a una minaccia divina; e chinò gli occhi a terra.

Allora, di súbito, lí innanzi a lui, stesa a giacere, vide una femmina nuda. Come lucide le chiome nere! Come freschi i fiori del seno turgido! Vezzi di vergine, riso di peccatrice, beltà d'una dea: era piena di grazia e rideva, tutta nuda.

Tale da piú tempo il tormento di frate Gerunzio. La notte, nelle lunghe tenebre e nei brevi sonni, aveva torbidi sogni di laidezza, turpi, nefandi, e al risvegliarsi provava un senso di stanchezza, di nausea, di esecrazione per quella sua carne che in guerra collo spirito riusciva a vincere finché alla prima luce e serenità mattutina, quando sembra che la divinità si ridesti in cuore agli uomini, egli non pregasse e si dolesse e appassionasse; ma quando il sole diffondeva il calore e la vita nel mondo, ecco apparirgli altre, ben altre visioni, limpide, affascinanti, gioiose; ecco ben altre allucinazioni: lusinghiere giovinette nella prima coscienza ed esperienza delle impudicizie maschili; audaci etère sapienti d'ogni voluttà carnale; indulgenti matrone nella piena bellezza del corpo e nella urgente pienezza dei sensi e delle voglie. E ridevano. Di notte era certo lo spirito della concupiscenza che opprimeva la sua volontà sorprendendola nel sonno e nella stanchezza; ma di giorno, allorché volonteroso di bene cercava star tutto intento a sé stesso, quale era la strana forza a cui l'arbitrio suo non poteva resistere? Forse era il rigoglio della virilità, la gagliardia dei muscoli, la potenza imaginativa del cervello, l'istinto che l'impugnava e trionfava; e perciò pregava Iddio cosí affannosamente e sinceramente. Invano. E una volta, in disperazione, la testa fra le mani, si mise a ragionare in questo modo:

– Ero ricco, e dispersi le ricchezze dei miei padri in elemosine e convertii le pietre preziose in pane per i poveretti: campi e palazzi, cavalli meravigliosi e vesti di seta che movevano ad invidia i poveri e a gelosia i compagni, tutto vendetti a soccorso di orfani e vedove, di piagati e di feriti; e coi miei vini spumanti rimisi vigoria e salute in estenuati ed infermi; e perché mi dicevano bello, digiunai e imbruttii. A tutto feci rinuncia, e adesso vorrei distormi da questa mia carne, che non contengono flagellazioni e disagi, e rendere il mio spirito a Dio. Dio, accogli il mio spirito che si riposi in te! —

Tacque, e poi con viso e con voce di uomo fatto perverso – Non vuole? – disse – . E sia cosí! – Uscí dal cenobio; si spogliò della tonaca; indossò vesti e pelli, e con l'apparenza di un onesto pastore si diresse alla volta di Gerico.

Difficile via, un sentiero sopra e tra monti scoscesi; ma nessuna fatica, anche piú grande fatica, avrebbe mortificate le membra di frate Gerunzio; niuna violenza di fede e di rimorso avrebbe potuto oramai frenarne il passo il pensiero lo sguardo, ed egli affrettava alla volta di Gerico. I suoi occhi vagavano lungi, ove il Giordano pareva il mare e il Carit argento limpido sotto il sole, o, se il sentiero piegava dietro il dorso delle montagne, si contenevano a vista minore, non brillando meno di gioia, perché da tutto, da un granito e da un salgemma che scintillasse coi colori dell'iride; da un fiore rosso che rompesse il verde cupo delle ginestre; da un uccello di varie tinte che levasse il volo frusciando, i suoi occhi ricevevano e recavano all'anima avvivata e accesa il senso della natura e della vita. E il suo pensiero, già buio nella tribolazione dell'intima battaglia e breve e pauroso nelle racchiuse idee del chiostro, si schiariva a poco a poco in quell'ampia e lieta libertà del mondo, e si estendeva e rafforzava: nell'attività dei nervi e dello spirito il monaco dianzi emaciato dai digiuni e dalle vigilie, affaticato dal misticismo e dalle preghiere e roso dalla bramosia vana della propria dissoluzione, sembrava d'un tratto rifiorire, ritemprarsi di nuovo sangue e inebbriarsi d'aria e di luce come di un vitale liquore. Nell'aperta considerazione delle cose sparivano i terrori della sua mente; s'era svestito del cilicio, ma anche si svestiva del sogno ascetico che gli aveva turbata e traviata la fantasia; ubbidiva allo stimolo dei sensi, ma presentiva il benessere che verrebbe a tutto lui stesso, spinto e corpo, dalla colpa, necessaria e umana colpa, la quale andava a commettere.

 

Scendeva – le montagne digradando a diventare ubertose colline vestite di palma e dura e tamarigi e pomi di Sodoma – , e come il sole tramontante divampava dietro le vette piú alte, il colle Galgala rimaneva nell'ombra: Gerunzio vi ristette e guardò con tutta l'anima nello sguardo. Ecco Gerico! Ah che il sole stendeva ancora fasci di luce sulla campagna di Gerico, e la città pareva adagiarsi, luminosa, splendida, in un letto d'erba e d'anemoni, rose, viole e narcisi!

Gloria ad Adriano! Torri e templi s'ergevano, meravigliosi giganti, su le rovine di Tito, e la cupola di San Giovanni Battista pareva uno specchio convesso temprato d'oro. La città di Erode, distrutta due volte e due volte risorta, obliava Erode e Jele, e scherniva Giosuè profeta: «Maledetto nel cospetto del Signore l'uomo il quale imprenderà di riedificare questa città di Jerico! Egli la fonderà sopra il suo figliuol maggiore e poserà le porte di essa sopra il suo figliuol minore!»

Gerunzio ricordò la imprecazione di Giosuè. Ma Rahab, per cui il profeta ebbe sua la città idolatra, non era essa una meretrice? Ed egli entrò allegro in Gerico.

Dietro le antiche terme di Erode, in un freddo e nero angiporto, stavano le meretrici: una su la soglia, poggiata allo stipite e ritta sulla gamba sinistra e con la destra piegata su la sinistra, perché se ne indovinasse la grossa forma; dentro, tre altre, assise su guanciali in procace attitudine e intese a bere un chiaro liquore, ond'erano ebbre, rubiconde e loquaci; un'ultima traeva note da un arpicordo e cantava con voce sommessa. Il monaco Gerunzio, oltrepassando pallido e palpitante, gettò uno sguardo al sito infame e come udí chiamarsi – vieni! – osservò innanzi a sé: nessuno. Si rivolse e, avesse pure avuta dinanzi, per la suburra, tutta una moltitudine, non avrebbe piú scorto alcuno perché scorgeva la femmina che l'aveva chiamato: Vieni!

Colei che stava su la porta si ritrasse quasi per dar luogo a un pezzente, ma l'altra, che era briaca, rise, e lisciando la barba prolissa dell'uomo: – vero – disse – , o pastore, che tu hai buona moneta?

Gerunzio la seguí alla celletta, avido di peccare. Dal basso giungeva come un lamento lontano la voce della cantatrice, e dalla cella vicina un ridere osceno.

Il monaco tese le braccia.

Quando Iddio percuote della lebbra il peccatore, a questo s'impiaga d'improvviso la pelle sí che resta visibile la carne viva, e i peli s'imbiancano su la piaga: corre per le ossa del peccatore un sudor freddo, un lungo brivido, uno spasimo lungo; poi la pelle dove non è la piaga si raggrinza e vi si formano delle tacche bianche verminose e delle croste gialle e fetide. Perciò la vista del lebbroso è orrenda come il tormento di lui, e nel Levitico si legge ch'ei deve avere le vesti sdruscite e il capo scoperto e il labbro di sopra velato, e che deve gridare: – l'immondo! l'immondo! – ; perciò il Signore commise a Mosé che disfacesse la casa dell'infetto e riducesse in polvere fino le pietre e lo smalto di esse: chi guarda un lebbroso prova un ineffabile schifo e trema di spavento, perché vede il segno dell'ira divina.

Il monaco tese le braccia; ed ecco che sentí germogliarsi su la pelle, súbito, dalla pianta dei piedi alla sommità del capo, la lebbra maligna: si vide; e la meretrice urlò: – L'immondo! l'immondo! – Ma allora Gerunzio non ebbe piú innanzi a sé una donna nuda; innanzi a sé e in sé finalmente, ebbe e comprese la luce celeste che gli scioglieva la caligine dell'anima, gl'illuminava il cuore e il pensiero colla verità oltremondana, lo infocava di fede, lo santificava; e allora cadde ginocchioni e sorridendo e levando gli occhi e le mani tranquillo, sereno, sublime, disse a voce alta:

– Questo castigo, Dio, è la mia salvazione!

Купите 3 книги одновременно и выберите четвёртую в подарок!

Чтобы воспользоваться акцией, добавьте нужные книги в корзину. Сделать это можно на странице каждой книги, либо в общем списке:

  1. Нажмите на многоточие
    рядом с книгой
  2. Выберите пункт
    «Добавить в корзину»