Concessione D’armi

Текст
Из серии: L’Anello Dello Stregone #8
0
Отзывы
Читать фрагмент
Отметить прочитанной
Как читать книгу после покупки
Шрифт:Меньше АаБольше Аа

CAPITOLO CINQUE

Thor era in sella al suo cavallo, suo padre da una parte e McCloud dall’altra, Rafi poco più in là. Dietro di loro sedevano decine di migliaia di soldati dell’Impero, la divisione principale dell’esercito di Andronico, tutti disciplinati e pazienti in attesa di un ordine da parte di Andronico. Si trovavano tutti in cima a un crinale e guardavano verso l’Altopiano, con le sue vette ricoperte di neve. In cima all’Altopiano si trovava la città di McCloud – Highlandia – e Thor si irrigidì vedendo migliaia di uomini che uscivano dalle mura dirigendosi verso di loro, pronti alla battaglia.

Non erano uomini di MacGil e neppure dell’Impero. Indossavano un’armatura che Thor riconobbe a malapena, ma mentre stringeva la presa sull’elsa della sua nuova spada, non si sentiva perfettamente sicuro di chi fossero o del perché stessero attaccando.

“Uomini dei McCloud. I miei soldati di un tempo,” spiegò McCloud ad Andronico. “Tutti ottimi guerrieri. Tutti uomini che un tempo ho allenato e con i quali ho combattuto.”

“Ma ora ti si sono rivoltati contro,” osservò Andronico. “Si stanno lanciando alla carica per scontrarsi con te in battaglia.”

McCloud si accigliò. Senza un occhio e con metà del volto marchiato con il sigillo dell’Impero, aveva un aspetto grottesco.

“Mi spiace, mio signore,” disse. “Non è colpa mia. È tutta opera di mio figlio, Bronson. Ha scagliato la mia stessa gente contro di me. Se non fosse per lui, ora sarebbero tutti qui al mio fianco per sostenere la tua grandiosa causa.”

“Non dipende da tuo figlio,” lo corresse Andronico, la voce tagliente come l’acciaio, voltandosi verso di lui. “È perché sei un comandante debole e un padre ancora più debole. Il fallimento in tuo figlio è il tuo fallimento. Avrei dovuto sapere che saresti stato incapace di controllare i tuoi stessi uomini. Avrei dovuto ucciderti molto tempo fa.”

McCloud deglutì, nervoso.

“Mio signore, devi anche considerare che non stanno combattendo solo contro di me, ma anche contro di te. Vogliono sbarazzarsi dell’Impero e liberare l’Anello.”

Andronico scosse la testa, portando una mano alla sua collana di teste mozzate.

“Ma ora tu sei dalla mia parte,” disse. “Quindi combattere contro di me significa anche combattere contro di te.”

McCloud sguainò la spada, guardando con sguardo torvo l’esercito che si avvicinava.

“Andrò a combattere e uccidere ogni singolo uomo del mio precedente esercito,” dichiarò.

“So che lo farai,” disse Andronico. “Se così non fosse, ti ucciderei con le mie stesse mani. Non che abbia bisogno del tuo aiuto. I miei uomini possono creare ben più danni di quanti tu possa mai neanche sognarne, soprattutto se guidati dal mio stesso figlio, Thornico.”

Thor sedeva a cavallo e sentiva vagamente la conversazione tra i due, a tratti non ascoltandola per niente. Era come intontito. La sua mente brulicava di pensieri sconosciuti dei quali non aveva ricordo, pensieri che gli pulsavano nel cervello e gli ricordavano continuamente l’alleanza che aveva giurato a suo padre, il dovere di combattere per l’Impero, il suo destino di figlio di Andronico. Questi pensieri vorticavano senza sosta nella sua testa e per quanto ci provasse era impossibile riuscire a liberare la mente e avere pensieri propri. Era come trovarsi preso in ostaggio nel proprio stesso corpo.

Mentre Andronico parlava, ognuna delle sue parole diventava un suggerimento nella mente di Thor, tramutandosi poi in un ordine. Poi in qualche modo diventava il suo stesso pensiero. Thor combatté con se stesso, dato che una parte di sé avrebbe voluto sbarazzarsi di quei sentimenti invasivi e raggiungere così un punto di chiarezza. Ma più lottava, più difficile diveniva liberarsi.

Mentre sedeva a cavallo, guardando l’esercito che avanzava verso di loro al galoppo attraversando la piana, sentiva il sangue che gli scorreva vorticosamente nelle vene e tutto ciò a cui riusciva a pensare era la sua lealtà a suo padre, il suo bisogno di annientare chiunque si mettesse in mezzo ai piedi nel loro cammino. Il suo destino di comandare l’Impero.

“Thornico, mi hai sentito?” lo richiamò Andronico. “Sei pronto a dare prova di te in battaglia per tuo padre?”

“Sì, padre mio,” rispose Thor guardando fisso davanti a sé. “Combatterò contro chiunque si schieri contro di te.”

Andronico sorrise soddisfatto. Si voltò e si rivolse ai suoi uomini.

“UOMINI!” gridò con voce tonante. “È venuto il tempo di affrontare il nemico, di sbarazzare l’Anello dei suoi sopravvissuti ribelli una volta per tutte. Inizieremo da questi uomini di McCloud che osano sfidarci. Thornico, mio figlio, vi guiderà in battaglia. Lo seguirete come seguireste me. Darete la vostra vita per lui come fareste per me. Ogni tradimento contro di lui è un tradimento contro di me!”

“THORNICO!” gridò Andronico.

“THORNICO!” gli fece eco il coro di decine di migliaia di soldati dell’Impero alle sue spalle.

Thor, incoraggiato, sollevò in aria la sua nuova spada, la spada dell’Impero, quella che l’adorato padre gli aveva dato. Sentì il potere scorrergli dentro, il potere della sua linea di sangue, del suo popolo, di tutto ciò che gli dava significato. Finalmente era di nuovo a casa, di nuovo con suo padre. Per suo padre avrebbe fatto qualsiasi cosa. Si sarebbe anche gettato contro la morte.

Thor lanciò un alto grido di battaglia, spronò il cavallo e scese al galoppo verso la valle, il primo a lanciarsi in battaglia. Dietro di lui si levò un forte grido di battaglia mentre decine di migliaia di uomini lo seguivano, tutti pronti a seguirlo fino alla morte.

CAPITOLO SEI

Micople sedeva rannicchiata, rinchiusa nell’immensa rete di acdonio, incapace di allungarsi e di sbattere le ali. Si trovava a bordo della nave dell’Impero e nonostante tutti gli sforzi non riusciva a sollevare il collo, a muovere le zampe o ad allungare gli artigli. Non si era mai sentita peggio di così in vita sua, non aveva mai fatto esperienza di una simile mancanza di libertà e di forza. Era accoccolata a forma di palla, sbatteva lentamente le palpebre e si sentiva abbattuta, più per Thor che per se stessa.

Micople poteva percepire l’energia di Thor, anche a quella distanza, anche se la nave stava attraversando l’oceano, oscillando tra onde mostruose che la facevano salire e ridiscendere infrangendosi contro lo scafo. Micople poteva anche avvertire il cambiamento di Thor: sentiva che stava diventando qualcun altro, non più l’uomo che aveva conosciuto. Questo le spezzava il cuore. Non poteva fare a meno di sentirsi come se in qualche modo lo avesse abbandonato. Tentò un’altra volta di divincolarsi, così desiderosa di andare da lui e salvarlo. Ma semplicemente era impossibile liberarsi.

Un’onda enorme si abbatté sul ponte e l’acqua schiumante del Tartuvio arrivò fin sotto alla rete facendola scivolare e mandandola a sbattere la testa contro il legno dello scafo. Micople tremò e ringhiò, avendo ormai perso lo spirito e la forza di un tempo. Si stava rassegnando al suo nuovo destino, sapendo che la stavano portando lontano per ucciderla o peggio per tenerla in cattività. Non le interessava cosa ne sarebbe stato di lei. Voleva solo che Thor stesse bene. E voleva un’occasione, solo un’ultima possibilità di vendetta contro i suoi aggressori.

“Guarda dov’è! Scivolata per mezzo pontile!” gridò uno dei soldati dell’Impero.

Micople sentì un improvviso dolore pungente tra le sensibili scaglie del muso e vide due soldati dell’Impero, con lance lunghe dieci metri, che la pungolavano attraverso la rete mantenendosi a distanza di sicurezza. Micople cercò di ritrarsi dai loro colpi, ma la rete la teneva immobile. Ringhiò mentre continuavano a punzecchiarla ripetutamente, chiaramente divertiti.

“Non fa più paura adesso, vero?” chiese uno all’altro.

Il compagno rise, pungendola con la lancia vicino all’occhio. Micople si spostò all’ultimo momento, evitando così di essere accecata.

“È innocua come una mosca,” disse uno.

“Ho sentito dire che la metteranno in mostra nel nuovo edificio del congresso dell’Impero.

“Io ho sentito una cosa diversa,” disse un altro. “Dicono che le taglieranno le ali e la tortureranno per tutto il male che ha fatto ai nostri uomini.”

“Mi piacerebbe poterlo vedere.”

“Dobbiamo veramente consegnarla intatta?” chiese uno.

“Ordini.”

“Ma non vedo perché non possiamo almeno maltrattarla un poco. Dopotutto non ha bisogno di entrambi gli occhi, giusto?”

Gli altri risero.

“Beh, se la metti così, direi di no,” rispose il compagno. “E che così sia. Divertiamoci.”

Uno di loro si avvicinò e sollevò un’alta lancia.

“Stai ferma ora, ragazzina!” disse il soldato.

Micople trasalì, impotente, mentre il soldato le si avventava contro, pronto a conficcarle la lancia nell’occhio.

Improvvisamente un’altra ondata si abbatté sulla nave. L’acqua fece cadere il soldato che scivolò dritto verso il suo muso, con gli occhi sgranati per il terrore. Con un grosso sforzo Micople riuscì a sollevare un artiglio giusto per permettere che il soldato le finisse sotto, poi lo abbassò calandolo sulla sua gola.

L’uomo gridò mentre il sangue sgorgava ovunque, mescolandosi con l’acqua e lasciandolo morire dissanguato. Micople sentì una sferzata di soddisfazione.

I soldati rimasti si voltarono e corsero via, gridando impauriti. Nel giro di pochi istanti sopraggiunsero una decina di uomini dell’Impero, tutti con lunghe lance in mano.

“Uccidete la bestia!” gridò uno di loro.

Si avvicinarono tutti per ucciderla e Micople si sentì certa che fosse la sua fine.

Ma poi sentì un’improvvisa rabbia sorgerle dentro, diversa da qualsiasi cosa avesse mai provato. Chiuse gli occhi e pregò Dio di darle un ultimo sprazzo di forza.

Lentamente sentì un forte calore salirle dalla pancia e scorrerle fino alla gola. Sollevò la bocca ed emise un ruggito. Con sua sorpresa dalla bocca le uscì un’enorme fiammata.

 

Il fuoco attraversò la rete e anche senza distruggerla avvolse gli uomini che le si stavano avvicinando.

Gridarono tutti mentre i loro corpi andavano a fuoco. La maggior parte di essi collassò a terra mentre quelli che non morirono all’istante corsero e saltarono in mare. Micople era soddisfatta.

Apparvero altre decine di soldati, questa volta con delle mazze, e Micople cercò di raccogliere ancora delle fiamme.

Ma questa volta non funzionò. Dio aveva risposto alle sue preghiere e le aveva concesso la grazia di un colpo. Ma ora non c’era nulla che potesse fare. Era grata almeno per ciò che aveva appena fatto.

Decine di soldati si gettarono su di lei, colpendola con le mazze e lentamente Micople si sentì sprofondare, sempre più in basso, chiudendo gli occhi. Si rannicchiò stretta, rassegnata, chiedendosi se il suo tempo in questo mondo fosse giunto al termine.

Presto tutto divenne nero.

CAPITOLO SETTE

Romolo si trovava al timone della sua enorme nave, lo scafo dipinto di nero e oro, con la bandiera dell’Impero – il leone con l’aquila in bocca – che sventolava fiera nel vento. Stava lì con le mani ai fianchi, la sua struttura muscolosa ancora più larga, come se fosse ancorato sul pontile, e guardava le onde impetuose e brillanti del Mar Ambrek. In lontananza si scorgevano le sponde dell’Anello.

Finalmente.

Il cuore di Romolo fremette di attesa quando mise occhio sull’Anello per la prima volta. Sulla sua nave viaggiavano i suoi migliori uomini, diverse decine di soldati di prima scelta, e dietro di loro navigavano migliaia delle migliori navi dell’Impero esistenti. Una vasta armata che riempiva il mare sotto l’egida dell’Impero. Stavano compiendo un lungo viaggio, girando attorno all’Anello determinati a sbarcare dalla parte di McCloud. Romolo aveva programmato di entrare nell’Anello da solo, cogliere di sorpresa il suo vecchio comandante – Andronico – e assassinarlo quando meno se lo aspettasse.

Sorrise al pensiero. Andronico non aveva idea del potere e dell’astuzia del suo numero due al comando, e stava per capirlo nel modo più duro. Non avrebbe mai dovuto sottovalutarlo.

Enormi onde continuavano a sollevarsi e Romolo gioiva tra gli schizzi d’acqua sul volto. Teneva stretto in mano il mantello magico che aveva recuperato nella foresta e sentiva che avrebbe funzionato, che gli avrebbe fatto attraversare il Canyon. Sapeva che quando l’avrebbe messo sarebbe stato invisibile, capace di penetrare oltre lo Scudo ed entrare da solo nell’Anello. La sua missione gli richiedeva di essere furtivo, astuto e di giocare sull’effetto sorpresa. I suoi uomini ovviamente non potevano seguirlo, ma non gli servivano: una volta dentro avrebbe trovato gli uomini di Andronico – uomini dell’Impero – e li avrebbe assoldati per sostenerlo nella sua causa. Li avrebbe divisi e si sarebbe creato il suo esercito, scatenando una guerra civile. Dopotutto i soldati dell’Impero amavano Romolo tanto quanto Andronico. Avrebbe usato gli uomini di Andronico contro di lui.

Poi avrebbe trovato un MacGil, lo avrebbe riportato dall’altra parte del Canyon, come il mantello richiedeva di fare, e se la leggenda era vera lo Scudo sarebbe stato distrutto. Senza lo Scudo avrebbe poi potuto raccogliere tutti i suoi uomini e l’intero esercito si sarebbe riversato all’interno, annientando l’Anello una volta per tutte. Poi, finalmente, Romolo sarebbe stato l’unico sovrano dell’intero universo.

Fece un respiro profondo. Poteva già assaporare la sensazione. Stava combattendo da una vita per un momento come quello.

Guardò il cielo rosso sangue, il secondo sole ormai al tramonto, un’enorme palla all’orizzonte, che a quell’ora del giorno emetteva una luce blu scintillante. Era l’ora del giorno in cui Romolo pregava i suoi dei: il dio della terra, il dio del mare, il dio del cielo, il dio del vento e, soprattutto, il dio della guerra. Sapeva di doverli placare tutti. Era pronto: aveva portato molti schiavi da sacrificare, sapendo che il loro sangue gli avrebbe dato potere.

Le onde continuavano a infrangersi attorno a loro mentre si avvicinavano alla costa. Romolo non attese che gli altri calassero le funi, ma balzò giù dallo scafo non appena la nave toccò la sabbia, un salto di sette metri buoni, atterrando in piedi con l’acqua fino alla vita. Non rabbrividì neppure.

Romolo passeggiava sulla riva come se fosse di sua proprietà lasciando profonde impronte sulla sabbia. Dietro di lui i suoi uomini abbassarono le funi e iniziarono a fissare le navi mentre una barca dopo l’altra arrivavano a destinazione.

Romolo osservò tutto il suo lavoro e sorrise. Il cielo si stava facendo scuro e lui aveva raggiunto la costa nel momento più appropriato per presentare un sacrificio. Sapeva che doveva ringraziare gli dei per questo. Si voltò e si rivolse ai suoi uomini.

“FUOCO!” gridò.

Gli uomini si affrettarono a costruire un’enorme pira, alta cinque metri: una massiccia pila di legno che attendeva solo di essere accesa, sagomata nella  forma di una stella a tre punte.

Romolo annuì e i suoi uomini trascinarono avanti una decina di schiavi, uno legato all’altro. Li legarono attorno al legno della pira, stringendo per bene le funi. I prigionieri guardavano con gli occhi sgranati per il panico. Gridavano e si dimenavano, terrorizzati, vedendo le torce pronte e rendendosi conto che stavano per essere bruciati vivi.

“NO!” gridò uno di loro. “Per favore! Ti prego! Questo no. Qualsiasi altra cosa, ma questo no!”

Romolo li ignorò. Voltò la schiena a tutti e fece diversi passi avanti, aprì le braccia e piegò il collo guardando il cielo.

“OMARUS!” gridò. “Dacci la luce per vedere! Accetta questo mio sacrificio questa notte. Stai con me nel mio viaggio nell’Anello. Dammi un segno. Fammi sapere se avrò successo!”

Romolo abbassò le mani e nello stesso istante i suoi uomini corsero in avanti e lanciarono le torce nel legno.

Si levarono grida di orrore mentre tutti gli schiavi venivano bruciati vivi. Le scintille volavano ovunque e Romolo rimase lì in piedi, il volto illuminato dalla luce delle fiamme, godendosi lo spettacolo.

Fece un cenno con la testa e i suoi uomini portarono avanti una vecchia donna, priva di occhi, il volto rugoso, il corpo rinsecchito. Diversi uomini la sorreggevano su una portantina e lei si chinò in avanti verso le fiamme. Romolo la guardò, paziente, in attesa della sua profezia.

“Avrai successo,” disse. “A meno che tu non veda i soli convergere.”

Romolo sorrise. I soli convergere? Non era mai successo in migliaia di anni.

Era felice e un piacevole calore gli riempiva il petto. Era tutto ciò che aveva bisogno di sentire. Gli dei erano con lui.

Afferrò il suo mantello, montò a cavallo e lo spronò con forza, iniziando a galoppare da solo, sulla sabbia, lungo la strada che l’avrebbe condotto all’Attraversamento Orientale, oltre il Canyon e, presto, nel cuore dell’Anello stesso.

CAPITOLO OTTO

Selese attraversava ciò che restava del campo di battaglia, Illepra al suo fianco. Procedevano insieme cercando segni di vita. Era stata una lunga e difficile camminata da Silesia e loro due erano sempre state insieme, seguendo il corpo principale dell’esercito, curandosi dei feriti e dei morti. Si erano staccate dagli altri guaritori ed erano diventate buone amiche, legate nelle avversità. Si sentivano naturalmente legate: vicine di età, simili l’una all’altra e, forse dettaglio più importante, entrambe innamorate di un MacGil. Selese amava Reece e Illepra, anche se era restia ad ammetterlo, amava Godfrey.

Avevano fatto del loro meglio per rimanere al passo con l’esercito, passando tra campi, foreste e strade fangose, fermandosi costantemente di fronte ai feriti dei MacGil. Sfortunatamente trovarli non si era rivelato difficile: ce n’erano in abbondanza tutt’attorno. In alcuni casi Selese era stata in grado di guarirli, ma in moltissimi altri il meglio che lei ed Illepra avevano potuto fare era stato medicare le loro ferite, eliminare il dolore con i loro composti e permettere loro una morte pacifica.

Era straziante per Selese. Avendo operato da guaritrice in un piccolo villaggio per tutta la vita, non si era mai occupata di questioni di tale gravità. Era abituata a trattare graffi, tagli e ferite minori, al massimo il morso di un persalcio. Ma non era abituata a uno spargimento di sangue e a una presenza di morte così massicci, né a ferite così gravi. La cosa la rattristava profondamente.

Nella sua professione Selese aveva sempre desiderato curare la gente e vederla stare bene, eppure da quando si era messa in viaggio da Silesia non aveva visto altro che un’incessante scia di sangue. Come potevano gli uomini fare una cosa del genere gli uni agli altri? Quei feriti erano tutti fratelli di qualcuno, erano padri e mariti. Come poteva il genere umano essere così crudele?

Selese era ancora più straziata dalla propria mancanza di abilità nell’aiutare ogni persona che incontrava. Le loro scorte erano limitate a ciò che erano in grado di trasportare, e dato il lungo viaggio non era molto. Gli altri guaritori del regno erano sparpagliati ovunque, in tutto l’Anello. Erano tutti insieme un esercito, ma erano comunque troppo pochi e le scorte scarseggiavano. Senza vagoni adeguati, senza cavalli e senza una squadra di aiutanti, quello era tutto ciò che lei poteva trasportare.

Selese chiuse gli occhi e fece un respiro profondo mentre camminava ripassando nella sua mente i volti dei feriti. Moltissime volte le era toccato prendersi cura di un soldato ferito a morte che gridava di dolore, aveva visto i suoi occhi diventare vitrei e gli aveva dato del blatox. Si trattava di un efficace antidolorifico e calmante. Ma non bastava per curare una ferita infetta, non aveva il potere di bloccare l’infezione. Senza tutte le sue scorte quello era il meglio che poteva fare. Questo le faceva venire voglia di piangere e gridare allo stesso tempo.

Selese e Illepra si inginocchiarono ciascuna di fronte a un soldato ferito a pochi passi l’una dall’altra, entrambe impegnate nel suturare un taglio con ago e filo. Selese era stata costretta a usare quell’ago un po’ troppe volte e avrebbe voluto averne uno pulito. Ma non aveva scelta. Il soldato gridava di dolore mentre lei ricuciva la lunga ferita che gli tagliava il bicipite e che non sembrava voler rimanere chiusa. Selese premette un palmo sul braccio dell’uomo cercando di arrestare il flusso di sangue.

Ma era una battaglia persa. Se solo fosse giunta da quel soldato un giorno prima, tutto sarebbe andato bene. Ma ora il suo braccio era verde e lei stava prevenendo l’inevitabile.

“Andrà tutto bene,” gli disse Selese.

“Non è vero,” rispose lui guardandola con occhi di morte. Selese aveva visto quello sguardo ormai troppe volte. “Dimmi. Morirò?”

Selese fece un respiro profondo ed esitò. Non sapeva come rispondere. Odiava essere disonesta. Ma non poteva sopportare di dirgli la verità.

“Il nostro destino è nelle mani di chi ci ha creato,” disse. “Non è mai troppo tardi per nessuno di noi. Bevi,” concluse, prendendo una fiala di blatox da un sacchettino di pozioni che teneva alla vita, appoggiandola alle labbra dell’uomo e accarezzandogli la testa.

Lui ruotò gli occhi indietro e sospirò, tranquillo per la prima volta.

“Mi sento bene,” disse.

Poco dopo chiuse gli occhi.

Selese sentì una lacrima scorrerle lungo la guancia e velocemente se la asciugò.

Illepra finì con il suo ferito ed entrambe si alzarono in piedi, continuando a camminare lungo quell’interminabile sentiero, sorpassando un cadavere dopo l’altro. Si diressero inevitabilmente verso est, seguendo il corpo principale dell’esercito.

“Ma stiamo almeno facendo qualcosa qui?” chiese alla fine Selese, dopo un lungo silenzio.

“Certo,” rispose Illepra.

“Non sembra che sia proprio così,” ribatté Selese. “Ne abbiamo salvati così pochi e persi talmente tanti.”

“E perché non considerare quei pochi,” le chiese Illepra. “Non valgono niente?”

Selese rifletté.

“Certo che sì,” disse. “Ma gli altri?”

Selese chiuse gli occhi e cercò di immaginarli, ma ormai erano una serie confusa di volti.

Illepra scosse la testa.

“Non pensi nel modo giusto. Sei una sognatrice. Troppo ingenua. Non puoi salvare tutti. Non l’abbiamo iniziata noi questa guerra. Ci siamo solo messe al seguito.”

Continuarono a camminare in silenzio, procedendo sempre più a est, oltre campi di corpi. Selese era felice, almeno, per la compagnia di Illepra. Si erano fatte compagnia  e si erano fornite sostegno a vicenda, condividendo esperienze e rimedi lungo il cammino. Selese era sorpresa dalla vasta gamma di erbe possedute da Illepra, alcune delle quali neppure conosceva; Illepra, dal canto suo, era continuamente sorpresa dagli unguenti unici che Selese aveva scoperto nel suo piccolo villaggio. Le due si completavano bene.

 

Mentre marciavano, passando in rassegna un’altra volta i morti, i pensieri di Selese andarono a Reece. Nonostante tutto quello che la circondava, non riusciva a levarselo dalla testa. Aveva fatto tutto il viaggio fino a Silesia per trovarlo e stare con lui. Ma il destino li aveva separati troppo presto, quella stupida guerra li aveva trascinati in due direzioni diverse. Si chiedeva a ogni momento che passava se lui fosse in salvo. Si chiedeva dove si trovasse precisamente sul campo di battaglia. E a ogni cadavere che passava, guardava velocemente il volto con un senso di timore, sperando e pregando che non fosse lui. Lo stomaco le si stringeva a ogni corpo che avvicinava, fino a che non lo rigirava e vedeva il volto, capendo che non era lui. E ogni volta sospirava di sollievo.

Però a ogni passo che facevano era sempre tesa, temeva di trovarlo ferito o, ancora peggio, morto. Non sapeva se sarebbe potuta andare avanti in caso fosse successo.

Era determinata a trovarlo, vivo o morto. Aveva viaggiato fino a lì e non sarebbe tornata indietro fino a che non avesse saputo cosa gli aveva riservato il destino.

“Non ho visto tracce di Godfrey,” disse Illepra, guardando per terra mentre procedevano.

Illepra aveva parlato di Godfrey a tratti da quando erano partite ed era ovvio che anche lei era cotta di lui.

“Neppure io,” le rispose Selese.

Erano in costante dialogo, entrambe rapite dai due fratelli, Reece e Godfrey, due fratelli che non sarebbero potuti essere più diversi l’uno dall’altro. Selese, personalmente, non riusciva a capire cosa Illepra trovasse in Godfrey. A lei sembrava solo un ubriacone, uno sciocco, uno da non prendere sul serio. Era divertente e simpatico, e certamente furbo. Ma non era il tipo di uomo che Selese desiderava. Lei voleva un uomo sincero, serio, sensibile. Voleva un uomo che mostrasse cavalleria e onore. E Reece era perfetto per lei.

“Non so come possa essere sopravvissuto a tutto questo,” disse Illepra tristemente.

“Lo ami, vero?” le chiese Selese.

Illepra arrossì e distolse lo sguardo.

“Non ho mai parlato di amore,” disse sulla difensiva. “Sono solo preoccupata per lui. È solo un amico.”

Selese sorrise.

“Davvero? Allora perché non smetti mai di parlare di lui?”

“Parlo sempre di lui?” chiese Illepra. “Non me ne ero accorta.”

“Sì, costantemente.”

Illepra scrollò le spalle e tacque.

“Immagino che in qualche modo mi dia sui nervi. Mi fa impazzire a volte. Sono sempre lì a trascinarlo fuori dalle taverne. Ogni volta mi promette che non ci tornerà più. Ma poi non mantiene mai la parola. Mi irrita, sul serio. Lo getterei nell’immondizia, se potessi.”

“È per questo che sei così ansiosa di trovarlo?” le chiese Selese. “Per gettarlo da parte?”

Ora toccò a Illepra sorridere.

“Forse no,” disse. “Forse lo voglio anche abbracciare.”

Svoltarono attorno a una collina e arrivarono accanto a un soldato, un Silesiano. Giaceva sotto a un albero, lamentandosi, una gamba chiaramente rotta. Selese lo poteva vedere anche da lì grazie al suo occhio esperto. Accanto, legati all’albero, c’erano due cavalli.

Le due ragazze gli corsero accanto.

Mentre si preparava a curargli la ferita – un profondo taglio nella coscia – Selese non poté trattenersi dal chiedere ciò che domandava a ogni soldato che incontrava: “Hai visto qualcuno della famiglia reale? Hai visto Reece?”

Tutti gli altri soldati si erano voltati scuotendo la testa e distogliendo lo sguardo e ora Selese era così abituata alla delusione che anche ora si aspettava una risposta negativa.

Ma con sua sorpresa il soldato fece un cenno affermativo con la testa.

“Non ero insieme a lui, ma l’ho visto, sì mia signora.”

Selese sgranò gli occhi per l’eccitazione e la speranza.

“È vivo? È ferito? Sai dove si trova?” gli chiese con il cuore che accelerava il battito e stringendogli il polso.

L’uomo annuì.

“Sì. Si è imbarcato in una missione speciale. Recuperare la Spada.”

“Quale spada?”

“La Spada della Dinastia.”

Lei lo guardò con stupore. La Spada della Dinastia. La spada della leggenda.

“Dove?” chiese disperata. “Dove si trova?”

“Si è diretto verso l’Attraversamento Orientale.”

L’Attraversamento Orientale, pensò Selese. Era lontano, molto lontano. Non c’era modo di poterlo raggiungere a cavallo. Non a quel passo. E se Reece si trovava lì era sicuramente in pericolo. Aveva sicuramente bisogno di lei.

Quando ebbe finito di curare il soldato, guardò oltre e notò i due cavalli legati all’albero. Dato che quell’uomo aveva una gamba rotta non c’era modo che potesse cavalcare. I due cavalli gli sarebbero risultati inutili. E molto presto sarebbero morti se nessuno si fosse preso cura di loro.

Il soldato notò come Selese li guardava.

“Prendili, signora,” le propose. “Non ne avrò sicuramente bisogno.”

“Ma sono tuoi,” disse lei.

“Non posso cavalcarli. Non in queste condizioni. Puoi usarli tu. Prendili e trova Reece. È un lungo viaggio da qui e non ce la faresti a piedi. Mi hai dato un grande aiuto. Non morirò qui. Ho cibo e acqua per tre giorni. Arriveranno degli uomini a prendermi. Le pattuglie passano per di qua continuamente. Prendili e vai.”

Selese gli strinse i polsi, sopraffatta dalla gratitudine. Si voltò verso Illepra, determinata.

“Devo andare a trovare Reece, mi spiace. Ci sono due cavalli qui. Tu puoi prendere l’altro per qualsiasi luogo tu debba andare. Io devo attraversare l’Anello e dirigermi verso l’Attraversamento Orientale. Mi spiace, ma devo lasciarti.”

Selese montò a cavallo e fu sorpresa vedendo Illepra salire di corse sull’altro. Poi allungò un braccio con la sua spada corta e tagliò le funi che tenevano gli animali legati all’albero.

Si voltò verso Selese e sorrise.

“Pensavi davvero, dopo tutto quello che abbiamo attraversato insieme, che ti avrei lasciata andare da sola?” le chiese.

Selese sorrise. “Direi di no,” rispose.

Le due spronarono i cavalli e partirono, galoppando lungo la strada, dirette verso est, da qualche parte – Selese pregava – verso Reece.

Бесплатный фрагмент закончился. Хотите читать дальше?
Купите 3 книги одновременно и выберите четвёртую в подарок!

Чтобы воспользоваться акцией, добавьте нужные книги в корзину. Сделать это можно на странице каждой книги, либо в общем списке:

  1. Нажмите на многоточие
    рядом с книгой
  2. Выберите пункт
    «Добавить в корзину»