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Il processo Bartelloni

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Il processo Bartelloni
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I

Il 2 decembre 1831, circa le dieci antimeridiane, i sei auditori della Rota Fiorentina, che formavano il Turno Giudicante sugli affari criminali, erano tutti congregati nella stanza in cui solevano tener consiglio.

Arrivati alla spicciolata, si eran messi a discorrer fra loro degli argomenti più estranei allo scopo pel quale si riunivano.

Un auditore raccontava che un suo bambino di tre anni aveva ruzzolato la scala: un secondo si lamentava del mal di capo: un terzo deplorava di non trovar rimedio alle sue insonnie. Non posso dormire, diceva, neppur all’udienza!

Dopo un quarto d’ora giunse il presidente.

Tutti gli mossero incontro per stringergli la mano e dargli il buon giorno.

Il presidente entrò sorridendo, fece riverenze a destra e a sinistra, e strinse con tutte e due le mani la mano che gli porgeva ciascuno degli auditori.

– Vostra signoria sta bene? – domandò l’auditore Lechini, un omettino di bassa statura, magrolino, sempre ligio, cerimonioso, e che faceva uno sforzo per non buttarsi in ginocchioni quando parlava col presidente, con gli alti magistrati della Consulta, o con qualche altro dignitario da cui dipendeva il suo avanzamento.

– Sto benissimo, caro Lechini, – rispose il presidente, gratificando di un sorriso speciale il suo prediletto. – Loro, signori, stanno tutti ottimamente, lo vedo! – continuò, volgendo attorno un’occhiata benevola e con un gesto di cordiale protezione. – Ci sono notizie da Pisa sulla salute di Sua Altezza la Granduchessa?

– Lo stato di Sua Altezza – rispose il Lechini, inchinandosi nel pronunziare la parola Altezza, e andando a cercare tra molte carte sopra una tavola la Gazzetta di Firenze, del giovedì – è sempre il medesimo. Ecco quello che dice il giornale.

Il presidente, sedutosi nella sua poltrona, faceva sembiante di prepararsi ad ascoltare con grande raccoglimento.

Il Lechini lesse, sotto la data di Pisa:

«Tutto quello che ha rapporto allo stato attuale della nostra adorabile Sovrana forma ora, può dirsi, la principale e più importante occupazione di tutta questa popolazione. Tra le altre pie funzioni dedicate a tale interessantissimo oggetto…»

Gli auditori, tutti in piedi, intorno al banco del presidente, ascoltavano attenti, o ne facevan sembiante, la lettura del giornale.

Quando l’auditore Lechini ebbe finito, il presidente esclamò:

– È ammirabile in ogni circostanza l’esempio, che dà la famiglia regnante, di sentimento religioso… A proposito, Lechini, avete sentito la messa del maestro Andrea Nencini nell’Oratorio dei Preti di San Firenze?

– Sicuro, signor Presidente! – disse il Lechini – Anzi l’arcivescovo Minucci mi ha domandato notizie di lei.

– È un buon lavoro questa messa?

– Stupendo! – rispose l’auditore – L’esecuzione poi magnifica… Il tenore Giovanni Duprez ci ha imparadisati. Anche il basso Domenico Cosselli ha fatto prodigi. L’orchestra del Teatro della Pergola è stata eccellente…

Il presidente della Rota, colto, ingegnoso, faceva pompa volentieri del suo gusto per la letteratura, per le arti, e in specie per la musica.

– Ho sentito sere sono – riprese il presidente – al Teatro degl’Infuocati una ragazza, che canta di contralto, in modo… – creda, Lechini.... – da sbalordire.... Si chiama Clementina Vecchietti. E cantava quella bellissima aria del nostro Mercadante:

Ah! s’estinto ancor mi vuoi…

E il magistrato ripeteva l’aria a mezza voce, e con la mano destra batteva la misura sopra un bracciuolo della poltrona.

– Sembra che sia piaciuto molto il Torquato Tasso recitato dalla Compagnia Internari e Paladini… La Internari mi scrivono che nella parte della duchessa Eleonora è insuperabile.

– Ma l’autore del lavoro si è scoperto?

– Oh! si scopre facilmente l’autore di un lavoro che piace, anche se voglia sulle prime farsi pregare.... Si è quindi saputo subito che il Torquato Tasso è dell’autore della Monaca di Monza.

Fu picchiato alla porta.

– Entrate! – disse il presidente.

Un usciere entrò, portando una lettera, e la consegnò al presidente.

Il presidente l’aprì e lesse: «Vostra signoria è invitata ad assistere alla prima adunanza, che l’I. e R. Accademia dei Georgofili terrà domenica mattina, 4 decembre, a ore 10 e mezzo.»

La porta fu spalancata di nuovo con grande strepito ed entrò, tutto accigliato, e con mal garbo, l’auditore Pantellini.

Questo auditore rappresentava in tutte le discussioni la contradizione, l’opposizione.

Mentre l’auditore Lechini credeva suo obbligo di essere sempre dello stesso parere del presidente, l’auditore Pantellini si compiaceva di esporre sempre un parere contrario a quello del suo superiore.

– Buon giorno! – disse bruscamente, appena entrato, e come se avesse voluto addentare tutti i presenti. E, mentre posava il cappello sopra una sedia, guardava il Lechini con un piglio quasi stesse in forse di divorarlo.

L’auditorìno aveva paura delle violenze e delle escandescenze del suo collega, alle quali serviva spesso di bersaglio.

– Buon giorno, signor auditore! – rispose il presidente al saluto quasi minaccioso del collega.

Il presidente, che non si era mosso dalla poltrona, tendeva la mano al nuovo arrivato con fisonomia ilare e in atto di molta cortesia.

Il presidente apparteneva ad una famiglia nobile, frequentava i più eletti convegni della città, era uomo di squisita educazione, di animo mitissimo, di carattere amabile.

Mise la sua mano bianca, morbida, in quella ruvida e nervosa dell’auditore Pantellini: quindi, alzandosi, esclamò:

– Signori!… è tardi, dobbiamo entrare in udienza.

L’auditore Lechini corse al cordone del campanello e lo tirò.

Subito comparve un usciere.

– Andate ad avvertire il signor Avvocato Fiscale e il Cancelliere che il signor presidente vuol cominciare l’udienza…

L’usciere, che aveva lasciato la porta aperta, fece un cenno.

Altri due uscieri entrarono: e cavarono da due armadii le toghe dei magistrati.

– Il prigioniero è sceso? – domandò il presidente all’usciere capo, mentre questi gli legava con molta diligenza le facciòle.

– Sì, signor presidente: si trova nella stanza di custodia, accompagnato dall’agente Lucertolo che è ora di servizio alle carceri, e con il quale l’inquisito parla molto volentieri.

– L’Avvocato Fiscale, il Cancelliere sono già in sala d’udienza!… – disse, tornando con la toga già in dosso, e col berretto in mano, l’usciere, che era stato mandato a far l’ambasciata.

– Signori, sono pronti? – interrogò il presidente.

E visto che tutti avevano infilato la toga, aggiunse, rivolto al capo usciere:

– Dunque, possiamo andare!

– Prendete! – disse all’usciere l’auditore Pantellini, relatore nella causa, tendendogli, con un gesto molto brusco, un grosso fascio di fogli.

Pochi secondi dopo, i sei magistrati della Rota entravano nella sala d’udienza, preceduti dall’usciere, che alzando una mano verso il pubblico, gridava: abbasso i cappelli!

Gli auditori sedettero.

Il presidente scambiò un lieve saluto con l’avvocato fiscale, quindi rivolto al birro graduato, che stava dinanzi una porta chiusa, a sinistra della sala, vicino al banco dei magistrati:

– Fate entrare – gli disse – l’inquisito.

Ci fu un mormorìo di curiosità.

Subito entrarono un gruppo di birri e dietro di loro comparve, sereno, tranquillo, quasi sorridente, Nello Bartelloni, accompagnato da altri birri.

Da un’altra porta entrava nel medesimo istante l’avvocato Arzellini.

Prima di sedersi al banco della difesa, si tolse di capo il berretto nero, e s’inchinò rispettoso al Presidente e all’Avvocato Fiscale.

II

La sala nella quale teneva le udienze la Rota Criminale fiorentina, al pianterreno, nel palazzo detto del Bargello, riceveva luce da finestre che davano sul cortile: era piuttosto oscura.

Vi si accedeva dalla porta, che è oggi quasi sulla cantonata di Via del Proconsolo e della piazza San Firenze. Allora quel tratto di via del Proconsolo si chiamava Via de’ Librai: la porta era più bassa, adorna di fregi e di un gran cornicione, e in alto, posati su due aggetti, erano due leoni.

Sulla testa di questi leoni, in certi giorni solenni, si metteva una corona in ferro dorato.

Una scaletta segreta metteva in comunicazione gli ufficii della Cancelleria con la stanza del Soprastante alle carceri della Rota e per questa scaletta scendevano i prigionieri, condotti alle udienze, e passavano spesso anche i Cancellieri, recandosi a visitare i detenuti.

Un trabocchetto che, movendo da una gran sala del palazzo rasentava gli uffici della Rota Criminale e andava a finire nei sotterranei, dette in antichissimi tempi origine alle più cupe leggende.

La disposizione e l’ornamento della sala d’udienza poco differivano dal modo oggi per tal rispetto praticato.

I sei auditori sedevano dietro a un lungo banco coperto da un tappeto verde; a destra dei giudici sedeva l’Avvocato Fiscale, a sinistra il Cancelliere.

Dinanzi al banco dei giudici, più in basso, era il banco al quale sedevano gli avvocati, e dietro una lunga fila di sedie sulle quali prendevano posto gli attuarii, giovani, cioè, che nella Cancelleria facevano pratiche per abilitarsi alla magistratura, e altri giovani, che studiavano per diventare avvocati.

Un cancello di legno, alto quasi fino al collo di un uomo di ordinaria statura, spartiva la sala delle udienze dal posto riservato al pubblico.

La curiosità destata dal processo di Nello era acutissima.

Tutti volevano vedere il presunto assassino.

Un’ora prima che l’udienza cominciasse, la gente era entrata nella sala.

Alcuni venditori del Mercato avevano persino chiuso le botteghe per assistere all’interrogatorio di Nello, che doveva esser fatto dopo la lettura della relazione.

 

Uomini e donne erano lì pigiati e si alzavano in punta di piedi, e quelli rimasti indietro cercavano spingersi innanzi a furia di gomiti e d’imprecazioni. I due birri, che stavano di guardia alla porta della sala, ogni tanto facevano cenni con le mani, prima che cominciasse l’udienza, e il silenzio a un tratto si ristabiliva.

Poco dopo le vociferazioni, le esclamazioni d’impazienza ripigliavano, e i birri, chiamandoli per nome, minacciavano di far uscire i più rumorosi.

Due consiglieri di Stato, alcuni magistrati della Consulta, un segretario del ministro inglese, alcuni ragguardevoli personaggi dell’aristocrazia erano seduti nel posto riservato agli attuarii, e ai giovani avvocati.

Ogni tanto essi si volgevano indietro, come disgustati per gli acri odori che emanavano dalla folla dei mercatìni.

Nello aveva fatto atto di buttarsi a sedere, ma Lucertolo, afferratolo per un braccio, glielo aveva impedito.

– Devi stare alzato! – gli mormorò, digrignando i denti, – finchè il presidente non ti dica di sederti.

L’auditore Pantellini era occupato a mettere in ordine le pagine della sua relazione.

Il presidente richiese il cancelliere di adempiere alle solite formalità, e quindi, rivoltosi all’auditore Pantellini che gli sedeva a destra:

– Signor auditore! – gli disse a bassa voce, – può leggere la sua relazione!

Il pubblico s’impazientiva di non veder Nello.

Lucertolo, Zampa di Ferro, il Matto, Vendifumo, il birro più agghindato e più elegante della città, ritti e vigilanti attorno all’inquisito, ne toglievano la vista agli astanti.

L’auditore Pantellini cominciò a leggere con voce dura, e ogni tanto accompagnava la lettura con un gesto minaccioso e vibrato.

Il delitto del Vicolo della Luna era esaminato in tutti i suoi particolari.

L’auditore parlava della stanza misteriosa, della constatazione della ferita, dei precedenti di Nello.

Spesso il nome di un mercatìno, citato come testimone, pronunziato dal giudice in mezzo alla sua relazione, faceva scorrere un brivido, un sommesso mormorìo nella folla accalcata di là dal cancello.

La relazione, che leggeva l’auditore Pantellini, era imparziale, ma da essa la colpabilità di Nello risultava chiara, quasi indiscutibile.

I deposti di alcuni testimoni erano molto gravi: tutti i più piccoli precedenti del povero ragazzo presentati nel modo più odioso.

Esclamazioni di orrore si udirono nella sala, quando il giudice cominciò a parlare delle condizioni in cui era stato trovato il corpo del ferito in mezzo a una gora di sangue nella Piazza della Luna.

La sala, sempre scarsa di luce, appariva anche più buia per la giornata piovigginosa. Il giudice leggeva con accento quasi lugubre.

Le sue descrizioni brevi, evidenti, aumentavano l’atrocità della scena, che ricordava.

Quando egli cominciò a dire della ferita, per la quale l’assassinato aveva perduto il dono della parola, quando accennò ai lunghi mesi di acute sofferenze sopportate dal paziente, quando annunziò che, sebbene fosse stato necessario di fargli cambiar clima, e trasportarlo con ogni precauzione, come un moribondo, pure si avevano di lui notizie che tuttora inducevano a sperar poco della sua vita, quando accennò che la ferita era stata resa più larga e più dolorosa dal modo violento, brutale con cui l’assassino n’aveva tratto fuori il pugnale, da diecine di petti si alzò un grido di esecrazione!

Negli atti del processo non si trovava un solo argomento in favore di Nello, non ostante la buona volontà dell’auditore Nolmi, che lo aveva preparato: invece si accumulavano contro di lui le risultanze più compromettenti.

Come sa il lettore, l’auditore Francesco Nolmi aveva raccolto la convinzione morale che Nello non fosse colpevole, o per lo meno che la sua colpabilità fosse dubbia; ma il suo era sentimento, basato sopra osservazioni da filosofo, e sopra induzioni di una mente delicata, fondato su ingegnose, sottili ipotesi piuttosto che su fatti certi e positivi. Ora agli animi volgari doveva naturalmente sfuggire ciò che aveva colpito il magistrato, uomo dottissimo, e di grande intelletto. Non era già sfuggito anche a’ suoi colleghi? E nel Turno di Revisione non era stato deciso di rinviare il processo alla Rota con due voti contro il suo?

La relazione volgeva al termine.

Lucertolo era tra coloro che l’ascoltavano più ansiosamente.

Di tanto in tanto, durante la lettura, egli faceva col capo un lieve cenno, appena percettibile, come se rispondesse a qualche suo interno ragionamento.

Il birro attento, trepidante, aveva aspettato di scorgere da un momento all’altro nell’arida relazione uno di quei tratti, che nella loro evidenza e semplicità bastano ad illuminare tutto un processo, che recano un raggio di verità nelle tenebre più intricate di un’istruttoria mal riuscita, che dimostrano ai veri intelligenti come il giudice abbia a traverso il fitto velo, che ingannevoli apparenze gli mettevano innanzi, veduta la strada da battersi e dalla quale i suoi colleghi, che l’hanno preceduto nelle ricerche, si sono allontanati.

Ma nulla di ciò traspariva da quella relazione.

Il giudice, severo, implacabile, seguiva le traccie del processo inquisitorio: non si alzava di una spanna dal terreno, che già aveva trovato battuto.

Spesso a certi punti della relazione, Lucertolo e Zampa di Ferro scambiavano sguardi significativi.

Allorchè il giudice arrivò al punto in cui sosteneva apertamente che Nello doveva aver commesso il delitto da sè solo, senza il menomo aiuto di complici, senza istigazione, secondo che si poteva con sicurezza inferir dagli atti del processo, Lucertolo battè un piede sul pavimento, facendo tal rumore, che molti torsero il capo verso di lui.

Accortosi, benchè troppo tardi, dell’imprudenza, il birro cercò di comporre la fisonomia ad una espressione di profonda concentrazione e di serietà.

Sebbene si sentisse mira agli sguardi di molti, non alzò gli occhi, non mosse ciglio, volendo dare ad intendere, o che non era stato lui che aveva battuto il piede in terra, o che aveva compiuto quell’atto inconsciamente.

Del resto, in quel momento, Lucertolo era bello a vedere. Ormai si teneva sicuro di non essere scoperto del furto da lui commesso nella camera della vecchia Tittoli, agonizzante: aveva ripreso tutta la sua maestà, tutta la sua alacrità e, a dire il vero, aveva speso una parte dei denari rubati a render più agevoli le indagini a cui si era consacrato.

L’amore dell’arte era potentissimo, radicato in questo poliziotto, che ad ogni costo, e pei fini da noi palesati, voleva far carriera e spingersi in alto.

Una prova del suo genio era stata quella di farsi mettere di servizio alle Carceri della Rota.

In tal guisa egli esercitava una duplice ed efficace sorveglianza.

Vegliava fuori su Bobi Carminati, ed entro le carceri si trovava di continuo in contatto con Nello.

Così egli non perdeva mai di vista i due punti estremi a’ quali, secondo il suo pensiero, il delitto del Vicolo della Luna era strettamente collegato.

Ma Bobi Carminati, dopo pochi mesi, gli era sfuggito.

Audace sino alla temerità, non scaltro quanto Lucertolo, ma come lui arrischiato e avventuroso, Bobi Carminati lasciava il Corpo dei Pompieri, dove era inviso, e con una misteriosa protezione trovava nientemeno il modo d’entrare nella polizia.

Cinque mesi dopo il delitto, il pompiere Bobi Carminati era divenuto famiglio in uno dei sobborghi più lontani di Firenze, e sotto la dipendenza del Capitan Bargello di Brozzi.

Appena entrato nella milizia civile, appellativo ambizioso che il governo aveva dato ad una polizia sulla quale contava molto, e che guardava con occhio davvero paterno, il Carminati non fu più chiamato per nome, perdette anche il suo nomignolo di Marrone e ricevette un soprannome, ispirato dal suo truce aspetto, dai propositi feroci, che spesso teneva, il soprannome di Boia.

Quando si trattava di fare qualche spedizione penosa, di mettere un birro risoluto, che non scherzasse, alle calcagna di qualche manigoldo, il caporale diceva: – Ci manderemo il Boia! – E già Bobi Carminati era in pochi mesi divenuto lo spauracchio dei ladri campestri e dei rompicolli che infestavano le campagne.

Il disegno di Lucertolo si era dunque allargato.

La sua operazione diveniva più brillante, acquistava nuova importanza.

Non si trattava più per lui soltanto di scoprir l’innocenza di Nello, di scovar il vero autore dell’assassinio commesso sul pittore Gandi, ma si trattava eziandio di provare che l’assassino era un suo collega, di mostrare che la polizia degenerava, che andava troppo abbassandosi, raccogliendo i suoi agenti nella feccia dello stesso volgo.

Questo doveva, tornando in discredito di coloro che allora dirigevano la polizia, sempre più mettere in grido Lucertolo, procacciargli nome tra’ suoi, poichè nei birri in quel periodo del 1831 era grande l’odio simulato verso gli altissimi capi della polizia: grande quasi quanto l’obbedienza, l’umiltà che ostentavano dinanzi ad essi.

Dieci minuti dopo che Lucertolo si era lasciato sfuggire l’improvvido atto d’impazienza, l’auditore Pantellini aveva finito di leggere la sua relazione.

L’accusa era formidabile, stringata, logica, convincente. Il rigido auditore aveva fatto un capolavoro. Nulla era sfuggito al suo acume; i più piccoli indizii, raccolti con abilità, accortamente disposti, acquistavano una forza indicibile. Il povero Nello era avvinghiato in una rete di ferro.

Durante l’esposizione dei fatti, così stringata e così inesorabile, il pubblico era rimasto di continuo perplesso, sospeso, agitato.

Tutti erano esasperati, irritati contro Nello e, dopo che l’auditore ebbe pronunziata l’ultima parola della sua relazione, vi fu un secondo di silenzio, di terribile e angoscioso silenzio.

Bisognava passare all’interrogatorio dell’inquisito,

I cuori battevano, tutti gli occhi erano rivolti verso Nello.

Lucertolo, cercato destramente il modo di parlare più volte solo con lui nella carcere, lo aveva, senza parere, o eccitar sospetti, preparato a questo interrogatorio.

Egli, dunque, ne aspettava più impaziente di ogni altro i risultati.

All’invito del presidente, Nello si alzò.

Pallido, e col labbro inferiore cadente, ma tranquillo, quasi sorridendo, fissava i suoi occhi nei giudici con una strana espressione.

Dopo averlo interrogato sulle generalità, il presidente gli disse.

– Come avete udito, voi siete accusato del delitto di tentato omicidio a scopo di furto nella persona del signor Roberto Gandi. Che cosa potete dire a vostra discolpa?

Il momento era solenne.

Tutti quelli che erano dietro la cancellata, allungavano il collo, si rizzavano sempre più in punta di piedi per veder Nello.

Quattro o cinque de’ mercatìni più arditi si permisero alcune esclamazioni, proferite a mezza voce fra le più energiche del loro linguaggio, come se volessero indurre i birri che circondavano Nello a tirarsi in disparte e così dar modo al pubblico di sodisfare la sua curiosità di veder l’inquisito.

Ma Zampa di Ferro, il Matto, Lucertolo, si voltarono con certi ceffi, che consigliavano il silenzio a’ più loquaci.

Le esclamazioni cessarono immantinente.

Nello non rispose alla prima interrogazione.

Allora il presidente con voce più scolpita rinnovò la domanda.

– Come avete udito, voi siete accusato del delitto di tentato omicidio a scopo di furto nella persona del signor Roberto Gandi. Che cosa potete dire a vostra discolpa?

– Io dichiaro – rispose Nello con voce ferma – che sono innocente.

Si udì un mormorìo di disapprovazione.

– Ricordo – disse il presidente in tuono minaccioso – che la maestà del luogo non consente interruzioni indecorose ed inutili. Dò fin d’ora ordine agli esecutori di vigilare da chi partano certe voci e di arrestare i disturbatori!… La giustizia ha bisogno di calma, non di intempestive eccitazioni.

Altri due birri entrarono nel recinto riservato al pubblico.

Pareva ormai sicuro che tutti avrebbero trattenuto anche il respiro.

– Voi dunque insistete – continuò il presidente, parlando a Nello – nell’affermare la vostra innocenza, che del resto avete dichiarato sempre nei vostri costituti?

– Giuro – disse Nello, questa volta alzando anche più la voce – che io sono innocente!

– Signor presidente – soggiunse l’Avvocato fiscale – vorrei che a complemento di quanto si trova in atti nel processo scritto, fosse domandato all’inquisito come egli passò la notte del 14 gennaio.

 

– Diteci come e dove passaste la notte del 14 gennaio? – richiese a Nello il presidente.

Nello rimase un istante perplesso: egli non si ricordava più di nulla.

Come abbiamo già raccontato, la sua mente debole era piena di lacune: la sua memoria era imperfetta.

L’idiota aveva tratti di apparente lucidità, si fermava con pertinacia su certe idee, ma il legame tra l’una e l’altra idea sovente gli sfuggiva; si confondeva, titubava, precipitava nelle tenebre della ragione.

Il modo con cui sapeva parlare di certi fatti estrinseci, di certe circostanze più ordinarie, impediva che i non esercitati nella conoscenza di certe misteriose malattie, di certe profonde imperfezioni dell’intelletto si persuadessero, sentissero che quel disgraziato non poteva essere responsabile.

Anche questa volta il presidente dovè tornare a ribattere la domanda.

– Diteci come e dove passaste la notte del 14 gennaio?

– Nel mio letto… a dormire! – rispose Nello.

– A che ora voi eravate andato a dormire?

– Sarò andato alla solita ora… quasi appena buio… non avendo mai avuto lume per vegliare, ed essendomi proibito dalla polizia di girare la notte.

– E perchè la polizia ve lo aveva proibito?

– Perchè alle volte, senz’accorgermene, cascavo per la strada, e mi addormentavo… e mi trovavano addormentato lungo i muri, sugli scalini delle porte: e spesso… dice… mi pigliavano le convulsioni: poi perchè i ragazzi mi davano noia… Una sera un branco di ragazzi mi si avventarono addosso verso le Loggie del Mercato Nuovo, mi portarono a forza di spinte nell’osteria dell’Impannataccia; là mi fecero bere; c’erano altri uomini, che mi misero le mani addosso, e fui trovato sotto una tavola ferito alla testa e tutto insanguinato…

– Basta! Basta! – accennò il presidente – Voglio sapere…

– Vostra Signoria mi perdoni! – interruppe in tuono cortese, ma serio, l’avvocato Arzellini, alzandosi. E tenendo nella mano destra il berretto e congiungendo i polpastrelli del pollice e dell’indice della mano sinistra, che agitava in aria, continuò nel gergo curialesco di allora:

– Con licenza di V. S. io credo che il racconto dell’inquisito giovi all’interesse della difesa perchè ci dimostra come l’inquisito fosse inviso, perseguitato in mezzo a quella classe di mercatìni dalla quale il Fisco ha scelto le testimonianze più gravi, che si trovano nel suo libello…

– Parlerà dopo, signor avvocato – osservò il presidente. – Ella entra ora nel merito…

– È dovere del mio sacro ministero… ripigliava l’avvocato.

– La prego!… – E il presidente accompagnò l’invito con un gesto affabile e risoluto.

L’avvocato sedette, senza protestare, e in atto molto rispettoso.

– Voi assicurate – disse il presidente indirizzandosi a Nello – che vi coricaste appena buio? Prima di addormentarvi, o durante il sonno avete sentito qualche rumore?

– No, Eccellenza! – rispose Nello tutto intimorito. – Non mi pare.

– Spiegateci, dunque, come accadde che essendo voi andato a dormire di prima sera, siete stato trovato la notte nel vostro letto tutto coperto di sangue? Come può essere avvenuto che un uomo sia stato assassinato, trascinato sino alla porta della vostra stanza, senza che voi abbiate udito il più piccolo rumore?

– Ma, signor presidente! – tuonò l’avvocato Arzellini, alzandosi impetuoso. – Mi permetto far notare a V. S. che nessuno dei vicini ha udito alcun rumore.

– Signor avvocato… non interrompa… la prego! – replicò asciutto e un po’ sconcertato il presidente. – Voi… Nello… siete stato trovato nel vostro letto, insanguinato… Ma non basta… Sotto il materasso furon trovati nascosti l’orologio, la catena, uno spillo rubati all’uomo che giaceva dinanzi alla vostra porta, e il pugnale col quale era stata fatta la ferita da lui riportata alla testa.

– Il pugnale, la catena, l’orologio li ho presi io – rispose Nello, senza turbarsi, – ma l’uomo non l’ho assassinato io!

– Dove e come avete preso questi oggetti, se dianzi avete asserito che vi coricaste di sì buon’ora e vi addormentaste?

La mente di Nello già principiava a smarrirsi.

Egli non sapeva dare alcuna risposta.

– E voi siete in mendacio – proseguì il presidente, parlando con molta rapidità – poichè, mentre asserite di esser rimasto a letto sin dalle prime ore della sera, ci è un testimonio, che abita nel palazzo della Cavolaja, il quale la sera del 14 gennaio, circa le 10, mentre egli suonava il violino, vi ha udito cantare nella Piazza Luna.

Nello restò come fulminato.

Nella sala, ove regnava il più profondo silenzio, si sarebbe sentito alitare una mosca.

Ma ad un tratto, il silenzio fu turbato dai suoni di un organetto.

Una specie di zingaro, che la polizia tollerava pe’ misteriosi servigi da lui resi, passava nella via de’ Librai, suonando un’arietta popolarissima.

Nello, come già è noto al lettore, aveva una qualità, che si riscontra pure in molti poco sani della mente: una spiccata propensione alla musica.

La memoria musicale però in lui aveva bisogno per agire, secondo già dicemmo, d’essere aiutata dal ritmo. Era incapace di ripetere le parole senza l’accompagnamento della musica, e di rammentarsene altro che cantando.

Gli uomini di scienza conoscono questo fenomeno.

Dopo le prime note dell’organetto, Nello, invece di rispondere alla interrogazione del presidente, cominciò a cantare.

Cantava a squarciagola nella sala, come quando si trovava nella Piazza Luna.

Lì per lì tutti furono presi da stupore.

Poi nacque un baccano indiavolato.

Il pubblico si agitava.

Gli auditori, l’Avvocato fiscale, il cancelliere si alzarono.

L’avvocato Arzellini si accostò, anch’egli meravigliato, al suo cliente.

Ma già Lucertolo aveva steso una mano e sbarrato la bocca al mentecatto.

Nessuno capiva la vera ragione di quel canto improvviso.

Neppure uno tra coloro, che si trovavano nella sala, dubitò di attribuire a impostura, a raffinata simulazione, quell’atto di demenza del disgraziato.

– Impostore!

– Ipocrita!

– Birbante!

– Assassino!

Così il pubblico, e i birri, eccettuato Lucertolo, salutavano Nello.

L’eccitazione era immensa.

Specialmente dopo le risposte dell’inquisito, che avevano tanto aumentato, in apparenza, gl’indizii della sua colpabilità.

– Silenzio! – gridò l’usciere.

E tutti i birri rivolsero al pubblico le loro fisonomie accigliate.

Lo zingaro continuava a suonare l’organetto.

E Nello, appena Lucertolo gli ebbe lasciato la bocca libera, principiò di nuovo a cantare.

Allora gli esecutori, ad un cenno del presidente, lo trassero fuori della sala.

Ritornò due minuti dopo, tutto eccitato.

Lo zingaro si era ormai allontanato nella direzione della piazza San Firenze e Nello non cantava più.

Non rammentava anzi neppure di aver cantato.

Il pubblico strabiliava, ma ormai nessuno osava più far mormorii o atti, che provocassero rigori, secondo gli ordini dati dal presidente.

Il presidente fece a Nello un severo rabbuffo, gli spiegò come egli sempre più aggravava la sua condizione, tentando d’ingannare i giudici con mezzi tanto irrispettosi e grossolani, annunziandogli che, in separato giudizio, sarebbe stato chiamato a rispondere per schiamazzi, disordini nella sala d’udienza,

– Persistete – riprese il presidente – nel dichiarare di non aver commesso voi l’omicidio nella persona del pittore Roberto Gandi?

– Io dichiaro davanti a Dio, davanti ai giudici, davanti al popolo – disse Nello, in preda ad una singolare esaltazione – che qualcun altro ha commesso l’assassinio: io sono innocente… innocente… innocente…

E si mise a piangere.

– Signor presidente! – disse alzandosi l’avvocato Arzellini. – Credo anch’io – proseguì commosso – che il vero assassino non sia dinanzi alla Rota…

– Signor avvocato?

– Credo insomma che l’Attuario, che il Fisco abbiano troppo precipitato…

– Le ripeto!…

– Voglio far intendere, come spiegherò più ampiamente nella difesa, che altra mano versò il sangue dell’illustre artista Gandi… che sia opportuno rivolgere all’inquisito una domanda, che è stata negletta in tutta l’inquisizione.... cioè se egli abbia sospetti su colui, che può aver tentato di assassinare il signor Gandi.

– Signor avvocato! – rispose il presidente – non è questa domanda, che io creda strettamente necessaria, pure… per massima deferenza alla difesa, io la farò.

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