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Il Killer della Rosa

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Из серии: Un Mistero di Riley Paige #1
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Il Killer della Rosa
Il Killer della Rosa
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Читает Caterina Bonanni
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Il Killer della Rosa
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TRADUZIONE ITALIANA
A CURA DI IMMACOLATA SCIPLINI
Blake Pierce

Blake Pierce è un avido lettore ed è da sempre ammiratore dei romanzi gialli e thriller. IL KILLER DELLA ROSA è il romanzo di debutto di Blake. Blake apprezza i vostri commenti, pertanto siete invitati a visitare www.blakepierceauthor.com per unirvi alla email list, ricevere una copia gratuita del libro, dei regali, a connettervi su Facebook e Twitter, e a restare in contatto!

Copyright © 2015 di Blake Pierce. Tutti i diritti sono riservati. Fatta eccezione per quanto consentito dalla Legge sul Copyright degli Stati Uniti d'America del 1976, nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, né potrà essere inserito in un database o in un sistema di recupero dei dati, senza che l'autore abbia prestato preventivamente il consenso. La licenza di questo ebook è concessa soltanto ad uso personale. Questa copia del libro non potrà essere rivenduta o trasferita ad altre persone. Se desiderate condividerlo con altri, vi preghiamo di acquistarne una copia per ogni richiedente. Se state leggendo questo libro e non l'avete acquistato, o non è stato acquistato solo a vostro uso personale, restituite la copia a vostre mani ed acquistatela. Vi siamo grati per il rispetto che dimostrerete alla fatica di questo autore.  Questa è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, aziende, società, luoghi, eventi e fatti sono il frutto  dell'immaginazione dell'autore o sono utilizzati per mera finzione. Qualsiasi rassomiglianza a persone reali, viventi o meno, è frutto di una pura coincidenza.  Immagine di copertina di  Copyright GoingTo, usata con l’autorizzazione di Shutterstock.com.

Prologo

Un nuovo spasmo di dolore riportò Reba nell’incubo. Si mosse tendendo le corde che la tenevano legata intorno allo stomaco ad un tubo verticale, imbullonato al pavimento ed al soffitto, al centro della piccola stanza. I polsi erano legati davanti, e così anche le caviglie.

Si rese conto di essersi addormentata e la paura la svegliò del tutto. Improvvisamente avvertì la consapevolezza del fatto che quell'uomo l'avrebbe uccisa. A poco a poco, ferita dopo ferita. Non era la sua morte che lui voleva, e neppure il sesso. Desiderava solo che lei provasse dolore.

Devo restare sveglia, pensò. Devo uscire da qui. Se mi addormento di nuovo, sono morta.

Nonostante il calore all'interno della stanza, il suo corpo nudo grondava di sudore. Guardò in basso, e vide i piedi nudi contro il pavimento di legno duro. Intorno si distinguevano macchie di sangue secco, un chiaro segnale che non lei non era stata certo l'unica ad essere stata legata lì. Il panico crebbe in lei.

L'uomo era andato da qualche parte. La porta della stanza era ben chiusa, ma sarebbe tornato. Lo faceva sempre. E, poi, avrebbe fatto qualcosa che credeva l'avrebbe fatta gridare. Le finestre erano sbarrate, e non poteva capire se fosse giorno o notte; la sola luce proveniva da una lampadina appesa al soffitto. Ovunque fosse, sembrava che nessuno potesse sentire le sue grida.

Si chiese se quella stanza, un tempo, fosse appartenuta ad una bambina; infatti era grottescamente rosa, decorata interamente da ghirigori e motivi fiabeschi. Qualcuno, certamente il suo carceriere, non ripuliva da molto tempo; aveva rotto e rovesciato sgabelli e sedie e distrutto tavoli. Il pavimento era disseminato di arti e busti di bambole per bambine.  Piccole parrucche – di bambole ovviamente immaginò Reba – erano inchiodate come scalpi alle pareti: per la maggior parte, erano acconciate in maniera elaborata, e sfoggiavano tutte i colori tipici dei giocattoli. Una toeletta, rosa e malconcia, era poggiata alla parete; lo specchio, a forma di cuore, era stato ridotto in mille pezzi. L'unico altro elemento di mobilio intatto era un minuscolo letto singolo, con una logora coperta rosa. Il suo carceriere talvolta riposava lì.

L'uomo la osservava con scuri occhi brillanti, nascosto dietro il passamontagna che gli copriva il volto. All'inizio, aveva confidato nel fatto che indossasse sempre la maschera: Se non voleva che lei gli vedesse il volto, doveva voler dire che non pianificava di ucciderla e che l'avrebbe lasciata andare …

Ma ben presto aveva compreso che la maschera serviva ad uno scopo diverso. Le sembrava di aver scorto un mento sottile e una fronte inclinata, ed era certa che i tratti dell'uomo fossero femminei e sgraziati. Sebbene fosse forte, era più basso di lei, il che probabilmente gli procurava insicurezza. Indossava la maschera -immaginava – per apparire più terrificante.

Aveva rinunciato a convincerlo a non farle del male. All'inizio, aveva pensato di riuscirci. Dopotutto, sapeva di essere graziosa. O almeno lo ero, pensò tristemente.

Sudore e lacrime scesero lungo il viso graffiato, e lei poté sentire il sangue intriso nei lunghi capelli biondi. Gli occhi le bruciavano: le aveva messo delle lenti a contatto, che le rendevano più difficile vedere.

Soltanto Dio conosce il mio aspetto ora.

Si abbandonò, reclinando la testa in avanti.

Ora muori, implorò a se stessa.

Doveva essere molto semplice da fare. Era certa che altre persone fossero morte lì prima.

Ma lei non poteva. Soltanto il pensarci le fece battere più forte il cuore, venire l'affanno, stringere lo stomaco. Lentamente, quando divenne ormai consapevole che la sua morte si stava avvicinando, una nuova sensazione si fece largo dentro di lei. Stavolta, non era panico o paura. Non era disperazione. Era qualcos'altro.

Che cosa provo?

Poi realizzò. Era rabbia. Non contro il proprio carceriere. Aveva ormai da tempo esaurito quel sentimento verso di lui.

Sono io, lei pensò. Sto facendo quello che vuole. Quando urlo, piango, singhiozzo e imploro, faccio ciò che vuole lui.

Ogni qualvolta lei trangugiava quella brodaglia fredda e insipida che lui le dava da mangiare   con l'aiuto di una cannuccia, faceva quello che lui voleva. Ogni qualvolta frignava pateticamente, affermando di essere madre di due figli che avevano bisogno di lei, non faceva altro che deliziarlo a non finire.

La sua mente si aprì su una nuova finestra, cessando finalmente di agitarsi. Forse doveva provare un'altra via. Si era ribellata così tanto in quei giorni. Forse era stato l'approccio sbagliato. Erano come quei piccoli giochi di bambù, le trappole cinesi, dove si mettono le dita in ogni estremità del tubicino, e più si spinge, più si bloccano le dita. Forse, il trucco stava nel rilassarsi, deliberatamente e completamente. Forse, era quella la via d'uscita.

Muscolo dopo muscolo, la donna lasciò che il suo corpo si rilassasse, sentendo ogni dolore, ferita dove la carne toccava le corde. E, lentamente, capì quale era il punto in cui le corde erano  in tensione.

Almeno, aveva trovato quello che le serviva. C'era soltanto una leggera tensione intorno alla sua caviglia destra. Ma non sarebbe bastata a scioglierla, almeno non ancora. No, doveva lasciare che i muscoli le si rilassassero di più. Ondeggiò gentilmente la caviglia, poi sempre più gentilmente, poi con maggior forza, finché la corda non si allentò.

Finalmente, con un misto di gioia e sorpresa, avvertì allentarsi la corda che le bloccava il,tallone e riuscì a liberare il piede destro.

Esaminò immediatamente il pavimento. A meno di un metro di distanza, mescolato alle parti di bambole, c'era il coltello del suo carceriere. L'uomo rideva sempre, lasciandolo lì, stuzzicandola. La lama, ricoperta di sangue, scintillava sarcasticamente nella luce.

Allungò il piede libero verso il coltello ma non riuscì a raggiungerlo.

La donna allentò di nuovo il corpo. Scivolò di pochi centimetri e allungò il piede, finché il coltello non fu abbastanza vicino. Afferrò la lama lercia tra i pollici, la puntò sul pavimento e la sollevò attentamente con il piede, finchè non si trovò il manico nel palmo della sua mano. Lo strinse forte con le dita intorpidite e lo fece girare intorno, puntando lentamente alla corda che le legava i polsi. Il tempo parve fermarsi, mentre lei tratteneva il fiato, sperando, pregando di non fallire. Che lui non arrivasse.

Finalmente, sentì uno strappo e, quasi si stupì di sentire le sue mani libere. Immediatamente, col cuore in gola, sciolse le corde intorno ai polsi.

Libera. Non riusciva quasi a crederci.

Per un istante, tutto ciò che riuscì a fare fu rannicchiarsi lì, con il formicolio a mani e piedi, dovuto al pieno ritorno della circolazione. Picchiettò le lenti a contatto con le dita, resistendo alla necessità di toglierle. Le spostò lentamente su un lato, pizzicandole e togliendole. Gli occhi le dolevano terribilmente, e fu un sollievo averle tolte. Guardando i due dischetti di plastica nel palmo della sua mano, il loro colore le diede la nausea. Erano infatti di un blu scuro piuttosto innaturale. Li gettò via.

Col cuore in gola, Reba si tirò su e raggiunse rapidamente la porta. Afferrò la maniglia, ma non la girò.

Che cosa faccio se lui è qua fuori?

Non aveva altra scelta.

Reba girò la maniglia e aprì silenziosamente la porta. Davanti a sé vide un lungo corridoio vuoto, illuminato soltanto da un'apertura ad arco posta sulla destra. Percorse il corridoio, nuda, scalza e in silenzio; procedendo vide che l'arco si apriva in una stanza scarsamente illuminata. Si fermò a guardare. Era una semplice sala da pranzo, composta da tavolo e sedie, insomma una stanza completamente ordinaria, come se una famiglia sarebbe presto giunta al suo interno, per cenare. Alle finestre, erano appese delle vecchie tende in pizzo.

 

Una nuova ondata d'orrore la investì. La grande ordinarietà di quel luogo era inquietante, una prigione non avrebbe dovuto essere così.

Attraverso le tende, vide che fuori era buio e se ne rallegrò pensando che l'oscurità le avrebbe reso più semplice la fuga.

Tornò nel corridoio, percorrendolo tutto fino ad una porta, che semplicemente sembrava condurre all'esterno. Zoppicando raggiunse la porta e mosse il freddo catenaccio di ottone. La porta si aprì pesantemente verso di lei, rivelandole la notte esterna.

La porta si apriva su una piccola veranda, oltre la quale c'era un giardino. Il cielo notturno era senza luna e illuminato dalle stelle. Non c'era alcuna altra fonte di luce, nessun segno della presenza di case nelle vicinanze. La donna uscì lentamente sulla veranda e raggiunse il giardino, secco e privo d'erba. La fresca brezza le inondò i polmoni doloranti.

Provò un misto di panico e sollievo. La gioia della libertà.

Reba fece il primo passo, preparandosi a correre, quando, improvvisamente, sentì una mano stringerle il polso.

Poi, giunse la familiare e orrenda risata.

L'ultima cosa che sentì fu un oggetto pesante, forse di metallo, colpirle la testa, e infine precipitò nei più profondi abissi dell'oscurità.

Capitolo 1

Almeno il tanfo non si è manifestato, pensò l'Agente Speciale Bill Jeffreys.

Ancora piegato sul corpo, non riuscì a fare a meno di trovarne delle tracce. Si mescolava con il fresco odore di pino e la leggera foschia sollevatasi dal ruscello, odore di cadavere che doveva essere lì da molto tempo. Ma non era così.

Il corpo nudo della donna era stato disposto con cura su un grosso macigno, sulla riva del ruscello. Era stata messa seduta e giaceva contro un altro macigno, aveva le gambe divaricate e allargate, con le mani lungo i fianchi. Vide una strana piega nel braccio destro, che gli suggerì l'esistenza di un osso rotto. I capelli mossi erano ovviamente quelli di una parrucca, malconcia, con qualche ciocca di biondo. Un sorriso beffardo era disegnato col rossetto sulla sua bocca.

L'arma del delitto le stringeva ancora il collo; era stata strangolata con un nastro rosa. Una rosa rossa sintetica giaceva sulla roccia di fronte a lei, ai suoi piedi.

Bill provò gentilmente a sollevarle la mano sinistra. Non si mosse.

“E' ancora in rigor mortis” Bill disse all'Agente Spelbren, accovacciato sull'altro lato del cadavere. “E' morta da non più di ventiquattro ore.”

“Che cos'hanno i suoi occhi?” Spelbren chiese.

“Cuciti con del filo nero, in modo che restassero spalancati” lui rispose, senza neanche osservare più da vicino.

Spelbren lo guardò incredulo.

“Controlla tu stesso” Bill esclamò.

Spelbren sbirciò gli occhi.

“Accidenti” mormorò tranquillamente. Bill notò che non indietreggiava disgustato e lo apprezzò. Aveva lavorato con altri agenti, alcuni dei quali avevano molta esperienza come Spelbren, che avrebbero vomitato in quel momento.

Bill non aveva mai lavorato con lui prima di allora. Avevano affidato il caso a Spelbren, chiamato da un ufficio della Virginia. Era stata infatti una sua idea ingaggiare qualcuno dall'Unità di Analisi Comportamentale di Quantico. Ecco perché Bill era lì.

Mossa intelligente, pensò Bill.

Bill vide che Spelbren era più giovane di lui, di pochi anni, ma, nonostante ciò, aveva uno sguardo segnato, vissuto, che gli piacque abbastanza.

“Indossa le lenti a contatto” Spelbren notò.

Bill osservò più da vicino. L'altro aveva ragione. Un blu inquietante e artificiale che gli fece distogliere lo sguardo. Faceva freddo laggiù, lungo il ruscello a quell'ora tarda del mattino, ma, nonostante questo, gli occhi erano appiattiti nelle orbite. Sarebbe stato difficile risalire all'ora esatta del decesso. Tutto ciò di cui Bill fu certo, era che il corpo era stato portato lì durante la notte, e disposto in quel modo con cura.

Sentì una voce vicina.

“Fottuti federali.”

Bill sollevò lo sguardo e vide tre poliziotti del luogo, a pochi metri di distanza da lui. Ora stavano sussurrando qualcosa, con un tono che gli rendeva impossibile ascoltare, e allora Bill comprese che quelle due parole erano state pronunciate deliberatamente in modo da essere sentire. I poliziotti erano della vicina Yarnell, e non erano chiaramente felici di avere l'FBI tra i piedi. Pensavano di potersela sbrigare da soli.

Il ranger a capo del Mosby State Park era stato di diverso avviso. Non era abituato a cose peggiori di vandalismo, abbandono di rifiuti, pesca e caccia illegali, e sapeva che la gente di Yarnell non era capace di gestire una storia del genere.

Bill aveva fatto un viaggio di quasi 200km in elicottero, per poter arrivare sul posto prima che il cadavere fosse rimosso. Il pilota aveva seguito le coordinate, che lo avevano condotto fino ad un prato su una collina nei paraggi, dove il ranger e Spelbren lo avevano incontrato. Avevano percorso pochi chilometri, lungo una strada sterrata, e Bill, appena giunto a destinazione aveva visto la scena del delitto, già dalla strada. Era a poca distanza in basso, verso il ruscello.

I poliziotti attendevano impazienti nelle vicinanze, ed erano già stati sulla scena. Bill sapeva esattamente quello che stavano pensando. Intendevano risolvere il caso da soli; un paio di agenti dell'FBI erano l'ultima cosa che avrebbero voluto vedere.

Spiacente, contadinotti, Bill pensò, ma siete fuori dai giochi.

“Lo sceriffo crede che si tratti di traffico di droga” Spelbren disse. “Ma si sbaglia.”

“Perché lo pensi?” chiese. Conosceva lui stesso la risposta, ma voleva avere un'idea sul funzionamento della mente di Spelbren.

“Ha sui trent'anni, non così giovane” Spelbren disse. “Segni di allentamento della pancia, quindi ha avuto almeno un figlio. Non è affatto il tipo classico, implicato nel traffico di droga.”

“Hai ragione” Bill disse.

“E che mi dici della parrucca?”

Bill scosse la testa.

“La sua testa è stata rasata” l'altro rispose, “perciò, per qualunque motivo indossasse la parrucca, non era affatto per cambiare il colore dei capelli.”

“E la rosa?” Spelbren chiese. “Un messaggio?”

Bill esaminò il fiore.

“Fiore di stoffa economica” rispose. “Il tipo che troveresti in qualsiasi negozio a basso costo. Lo rintracceremo, ma non scopriremo nulla.”

Spelbren  lo guardò, chiaramente colpito.

Bill dubitava che qualunque cosa avessero scoperto si sarebbe rivelata utile. L'assassino era fin troppo determinato, troppo metodico. L'intera scena del crimine era stata disposta in uno stile inquietante, che gli trasmetteva agitazione.

Vide i poliziotti locali avvicinarsi, per coprire il corpo. Erano state scattate delle foto, e il cadavere ora poteva essere tranquillamente rimosso.

Bill restò lì a sospirare, sentendo le gambe irrigidirsi. I suoi quarant'anni cominciavano a rallentarlo ora, almeno un po'.

“La donna è stata torturata” osservò, sospirando tristemente. “Guardate tutti i tagli. Alcuni stanno cominciando a chiudersi.” Lui scosse cupamente la testa. “Qualcuno l'ha torturata per giorni, prima di finirla con quel nastro.”

Spelbren sospirò.

“L'esecutore era infastidito da qualcosa” osservò poi.

“Allora, quando possiamo portarla via?” uno dei poliziotti gridò.

Bill guardò nella loro direzione e li vide trascinarsi i piedi. Due di loro stavano brontolando tranquillamente. Bill sapeva che il lavoro era già finito lì, ma non disse nulla. Preferì lasciare quegli idioti nell'attesa, e con le loro domande in testa.

Si voltò lentamente e osservò la scena. Era un'area coperta da alberi, tutti pini e cedri, e da un rigoglioso sottobosco, attraversata dal ruscello che scorreva Placido verso il fiume più vicino: una scena bucolica. Persino ora, a metà estate, la temperatura non sarebbe salita di molto, così che il corpo non si sarebbe bruscamente putrefatto subito. Nonostante ciò, sarebbe stato meglio allontanarsi da lì e affidare il tutto a Quantico. Gli esaminatori lo avrebbero sottoposto a biopsia mentre era ancora ragionevolmente fresco. Il furgone del coroner era posteggiato sulla strada  sterrata dietro l'auto della polizia, ad attendere.

La strada non era null'altro che un sentiero, composto da due solchi paralleli tracciati da pneumatici attraverso la foresta. L'assassino ci era quasi certamente passato in auto. Aveva trasportato il corpo per una breve distanza, lungo un minuscolo sentiero, arrivando fino al punto in cui lo aveva sistemato, e se ne era andato. Non poteva essere rimasto lì a lungo. Sebbene la zona fosse quasi nascosta, i ranger la sorvegliavano regolarmente e le auto non avevano il permesso di percorrere quella strada. L'assassino aveva voluto che trovassero il corpo. Era orgoglioso del proprio lavoro.

Ed era stato trovato di primo mattino, da una coppia di persone a cavallo. Turisti che avevano affittato dei cavalli, come il ranger aveva comunicato a Bill. Erano turisti di Arlington, che soggiornavano in un finto ranch stile western, proprio fuori Yarnell.  Il ranger aveva detto che ora erano un po' isterici. Era stato loro comunicato di non lasciare la città, e Bill pensò di parlare con loro più tardi.

Intorno al corpo, non sembrava esserci neppure un elemento fuori posto. L'autore era stato molto attento. Aveva trascinato qualcosa dietro di sé, quando era tornato dal ruscello, una pala forse, per coprire le sue stesse impronte. Nessuno scarto lasciato intenzionalmente o accidentalmente. Nessuna traccia di pneumatico sulla strada era stata rimossa dall'auto della polizia e dal furgone del coroner.

Bill sospirò a se stesso.

Dannazione, pensò. Dov'è Riley quando ho bisogno di lei?

La sua partner storica, e migliore amica, era costretta ad una pausa involontaria; doveva riprendersi dal trauma del loro ultimo caso. Sì, era stato davvero tremendo. Lei aveva bisogno di tempo per superare il tutto, e a dire il vero, avrebbe anche potuto decidere di non tornare più in pista.

Ma aveva davvero bisogno di lei ora. Era molto più intelligente di Bill, e la cosa non lo disturbava affatto. Amava osservare la mente di lei all'opera. La immaginò al lavoro su quella scena del crimine, cogliendo ogni minuscolo dettaglio. Pensava che, in quel momento, lo avrebbe  preso in giro per tutti gli indizi così dolorosamente ovvi, che aveva sotto il naso.

Che cosa avrebbe visto Riley che Bill non aveva visto?

Non gli venne in mente nulla e quella sensazione proprio non gli piaceva. Ma non c'era molto altro che avrebbe potuto fare adesso.

“Va bene signori” Bill si rivolse ai poliziotti. “Portate via il corpo.”

I poliziotti risero e si diedero il cinque.

“Pensi che lo rifarà?” Spelbren domandò.

“Ne sono certo” fu la risposta di Bill.

“Come lo sai?”

Bill fece un lungo respiro profondo.

“Perché ho già visto il suo operato prima.”

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