Il Dono Della Battaglia

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Из серии: L’Anello Dello Stregone #17
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CAPITOLO UNDICI

Volusia si trovava di fronte ai suoi molti consiglieri tra le strade della capitale dell’Impero, fissando lo specchio con orrore. Osservò il suo nuovo volto da ogni angolazione: metà era ancora bellissimo mentre l’altra metà era sfigurato, sciolto, e la cosa le faceva ribrezzo. Il fatto che metà della sua bellezza fosse ancora presente peggiorava soltanto le cose. Sarebbe stato tutto più facile, si rendeva conto, se tutto il viso fosse stato sfigurato. Almeno non avrebbe ricordato nulla del suo aspetto precedente.

Volusia ricordava il suo aspetto meraviglioso, la fonte del suo potere che l’aveva portata attraverso ogni evento della sua vita, che le aveva permesso di manipolare uomini e donne senza distinzioni, di far cadere gli uomini in ginocchio con un solo sguardo. Ora era tutto svanito. Ora era solo una ragazza di diciassette anni come tutte le altre, peggio ancora un mezzo mostro. Non poteva sopportare la vista del suo volto.

In un’esplosione di rabbia e disperazione Volusia gettò lo specchio a terra e lo guardò andare in frantumi sulla strada linda della capitale. Tutti i suoi consiglieri rimasero lì in silenzio distogliendo lo sguardo, sapendo che era meglio non parlare in quel momento. Fu chiaro anche a lei, guardando i loro volti, che nessuno voleva più guardarla, nessuno voleva vedere l’orrore che ora appariva sulla sua faccia.

Volusia si guardò attorno cercando i Voks, desiderosa di farli a brandelli, ma se n’erano già andati, erano scomparsi non appena avevano scagliato quell’orrendo incantesimo su di lei. Le avevano consigliato di non unirsi a loro e ora si rendeva conto che gli avvertimenti erano stati corretti. Aveva pagato un caro prezzo. Un prezzo che non le sarebbe mai stato restituito.

Volusia voleva sfogare la sua rabbia su qualcuno e i suoi occhi si posarono su Brin, il suo nuovo comandante, un guerriero statuario che aveva solo pochi anni più di lei e che le faceva la corte da lune. Giovane, alto e muscoloso, aveva un aspetto mozzafiato e le era corso dietro per tutto il tempo fin da quando l’aveva conosciuta. Eppure adesso, con sua rabbia, non voleva neanche incrociare il suo sguardo.

“Tu,” gli sibilò contro Volusia, capace a malapena di contenersi. “Adesso non mi guardi neppure?”

Volusia avvampò quando lui sollevò la testa ma non incrociò il suo sguardo. Ora questo era il suo destino per il resto della sua vita, lo sapeva: sarebbe sempre stata guardata come qualcosa di strano.

“Mi trovi disgustosa adesso?” gli chiese con voce rotta dalla disperazione.

Lui tenne la testa bassa e non rispose.

“Molto bene,” disse Volusia dopo un lungo silenzio, determinata ad eseguire la sua vendetta su qualcuno. “Allora ti ordino di guardare il volto che odi di più. Mi darai prova che sono bellissima. Dormirai con me.”

Il comandante alzò lo sguardo e la guardò negli occhi per la prima volta con paura e orrore stampati in volto.

“Mia dea?” le chiese con voce rotta, terrorizzata, sapendo che avrebbe dovuto affrontare la morte se le avesse disobbedito.

Volusia sorrise, felice per la prima volta, rendendosi conto che si trattava di una vendetta perfetta: giacere con l’uomo che la trovava più ripugnante.

“Dopo di te,” disse facendosi da parte e indicando la stanza.

*

Volusia si trovava di fronte alla grande finestra ad arco al piano superiore del palazzo della capitale dell’Impero e mentre il sole sorgeva e le tende le sfioravano il viso, piangeva in silenzio. Poteva sentire le lacrime che gocciolavano sulla parte buona del suo volto, ma non dall’altra parte, quella sciolta. Lì era insensibile.

Un leggero russare risuonava nell’aria e Volusia si diede un’occhiata alle spalle vedendo Brin steso lì, ancora addormentato con il volto contorto in un’espressione di disgusto anche nel sonno. Aveva odiato ogni momento del suo incontro con lei, lo sapeva, e questo le aveva concesso una piccola vendetta. Ma ancora non si sentiva soddisfatta. Non poteva lasciarla passare liscia ai Voks e aveva necessità di vendicarsi oltre.

Quello era un piccolo pezzo di vendetta, una minuscola parte di ciò che desiderava. I Voks del resto erano scomparsi mentre lei, la mattina successiva, era ancora viva, ancora incastrata con se stessa come sarebbe stata per il resto della sua vita. Imprigionata in quell’aspetto, in quel volto sfigurato che lei stessa non poteva sopportare.

Volusia si asciugò le lacrime e guardò fuori, oltre il confine della città, oltre le mura della capitale, verso l’orizzonte. Mentre i soli sorgevano iniziava a vedere le deboli tracce degli eserciti dei Cavalieri del Sette, con i loro stendardi all’orizzonte. Erano accampati là fuori e stavano mettendo insieme i loro eserciti. La stavano lentamente circondando raccogliendo milioni di soldati da ogni angolo dell’Impero, tutti pronti ad invadere. Ad annientarla.

Accettava il confronto. Non aveva bisogno dei Voks, lo sapeva. Non aveva bisogno di nessuno dei suoi uomini. Poteva ucciderli da sola. Dopotutto era una dea. Aveva lasciato il regno dei mortali da molto e ora era una leggenda, una leggenda che nessuno – nessun esercito al mondo – poteva fermare. Li avrebbe accolti da sola e li avrebbe uccisi tutti una volta per tutte.

Poi alla fine non ci sarebbe stato più nessuno ad affrontarla. Allora il suo potere sarebbe stato supremo.

Volusia udì un rumore dietro di lei e con la coda dell’occhio scorse del movimento. Vide che Brin si alzava dal letto gettando via le lenzuola e iniziando a vestirsi. Lo vide muoversi furtivamente, attento a fare piano, e si rese conto che intendeva scivolare fuori dalla stanza prima che lei lo vedesse, così da non essere costretto a guardarla in faccia. Questo unì ulteriore insulto alla già presente ingiuria.

“Oh, comandante,” disse vagamente.

Lo vide immobilizzarsi per la paura. Si voltò e la guardò controvoglia e lei gli sorrise torturandolo con il grottesco aspetto delle sue labbra deformi.

“Vieni qui, comandante,” gli disse. “Prima che te ne vai c’è qualcosa che voglio mostrarti.”

Lui si voltò e camminò lentamente attraversando la stanza e raggiungendola. Rimase lì vicino a lei guardando ovunque ma non il suo volto.

“Non vuoi dare un piccolo bacio d’addio alla tua dea?” gli chiese.

Lo vide rabbrividire, per quanto leggermente, e provò una fresca ondata di rabbia bruciarle dentro.

“Non preoccuparti,” aggiunse con espressione di colpo più cupa. “Ma c’è almeno una cosa che voglio mostrarti. Dai un’occhiata. Vedi là fuori all’orizzonte? Guarda bene. Dimmi cosa vedi laggiù.”

Lui si fece avanti e lei gli mise una mano sulla spalla. Lui si chinò in avanti ed esaminò con attenzione la linea dell’orizzonte aggrottando la fronte confuso.

“Non vedo niente, mia dea. Niente di diverso dal solito.”

Volusia sorrise sentendo il vecchio spirito di vendetta salire dentro di sé, sentendo il suo vecchio desiderio di violenza e crudeltà.

“Guarda meglio, comandante,” disse.

Lui si chino un po’ di più e con un rapido gesto Volusia lo afferrò per la camicia e con tutta la sua forza lo spinse dalla finestra.

Brin gridò dimenandosi e volando in aria, cadendo per una trentina di metri fino ad atterrare morendo sul colpo nella strada di sotto. Il tonfo riverberò tra le strade altrimenti silenziose.

Volusia sorrise guardando il suo corpo e sentendo finalmente un senso di vendetta.

“Guardati,” rispose. “Chi fra noi due è il più grottesco adesso?”

CAPITOLO DODICI

Gwendolyn camminava attraverso i bui corridoi della torre dei Cercatori di Luce con Krohn al suo fianco, risalendo lentamente la rampa circolare che si dispiegava ai lati dell’edificio. La scala era fiancheggiata da torce e devoti al culto che stavano silenziosamente sull’attenti con le mani nascoste nelle loro tuniche. La curiosità di Gwendolyn si faceva man mano più profonda mentre continuavano a salire di un piano dopo l’altro. Il figlio del re, Kristof, l’aveva condotta per metà strada dopo il loro incontro, poi si era girato per scendere, dandole istruzioni su come completare la propria ascesa da sola per raggiungere Eldof, che poteva incontrare solo da sola. Per tutto il tempo che ne avevano parlato le era stato presentato come un dio.

Un lieve canto riempiva l’aria pregna di incenso mentre Gwen saliva lungo la graduale rampa e si chiedeva: quale segreto sorvegliava Eldof? Le avrebbe dato la conoscenza di cui aveva bisogno per salvare il re e il Crinale? Sarebbe mai stata capace di recuperare la famiglia del re da quel posto?

Quando ebbe svoltato un angolo, la torre improvvisamente si aprì davanti a lei e Gwen sussultò per ciò che vide. Entrò in una stanza altissima, con il soffitto a una trentina di metri e le pareti ricoperta da terra fino in cima di vetrate colorate. Una soffusa luce inondava la stanza colorandola di scarlatto, viola e rosa e donandole una qualità eterea. E ciò che rendeva il tutto ancora più surreale era un uomo seduto da solo in quel posto immenso, al centro della stanza, con una scia di luce che scendeva su di lui come ad illuminare lui e lui soltanto.

Eldof.

Il cuore di Gwen le batteva forte in petto vedendolo lì seduto dalla parte opposta della stanza, come un dio calato dal cielo. Sedeva lì con le mani raccolte nella sua tunica dorata e luccicante, la testa completamente calva e un enorme e magnifico trono fatto d’avorio con torce da entrambe le parti e una rampa di gradini che vi conduceva. Quella stanza, quel trono, i gradini che vi conducevano davano l’idea di avvicinarsi a ben più che un re. Gwen si rese subito conto perché il re si fosse sentito minacciato dalla sua presenza, dal suo culto, dalla sua torre. Era tutto disegnato per ispirare ammirazione e sottomissione.

 

Non le fecce nessun cenno, né si accorse della sua presenza e Gwen, non sapendo cos’altro fare, iniziò a salire la lunga scala dorata che conduceva al trono. Camminando vide che dopotutto non era completamente solo là dentro, dato che oscurati dall’ombra si trovavano fedeli tutti allineati lungo la rampa, con gli occhi chiusi e le mani serrate nelle tuniche. Si chiese quante migliaia di seguaci avesse.

Alla fine si fermò pochi metri davanti al suo trono e sollevò lo sguardo.

Lui la guardava con il suo sguardo che sembrava antico, blu ghiaccio, luccicante, e mentre le sorrideva non dimostrava alcun calore. Erano occhi ipnotici. Le ricordava i momenti in cui si trovava in presenza di Argon.

Non sapeva cosa dire mentre lui la guardava: sembrava che le stesse scrutando l’anima. Lei rimase lì in silenzio aspettando che fosse pronto e accanto a sé poté sentire Krohn che si irrigidiva, all’erta quanto lei.

“Gwendolyn del Regno Occidentale dell’Anello, figlia di re MacGil, ultima speranza di salvezza per la sua gente e per la nostra,” disse lentamente, come se stesse leggendo alcuni antichi scritti, con la voce di una profondità mai sentita, come se provenisse dalla pietra stessa. Gli occhi di Eldof erano proiettati nei suoi e la sua voce era ipnotica. Mentre lo guardava Gwen perse ogni senso del tempo e dello spazio e si sentì da subito come risucchiata dal suo culto. Si sentiva in trance, come incapace di guardare da qualsiasi altra parte nonostante ci provasse. Si sentì subito come se lui fosse il centro del mondo e capì all’istante come tutta quella gente fosse giunta a venerarlo e seguirlo.

Gwen lo fissò momentaneamente senza parole, una cosa che raramente le era capitata. Non si era mai sentita così rapita, lei che era stata dinnanzi a tanti re e regine, lei che era in prima persona una regina, lei che era figlia di un re. Quell’uomo aveva una qualità, qualcosa di difficile da descrivere: per un momento dimenticò addirittura perché era andata lì.

Alla fine si ricompose e fu capace di parlare.

“Sono qui,” iniziò, “perché…”

Lui rise interrompendola, un suono breve e profondo.

“So perché sei qui,” le disse. “Lo sapevo ancora prima di te. Sapevo del tuo arrivo in questo posto in effetti e lo sapevo prima che tu attraversassi la Grande Desolazione. Sapevo della tua partenza dall’Anello, del tuo viaggio alle Isole Superiori e dei tuoi viaggi attraverso l’oceano. So di tuo marito, Thorgrin, e di tuo figlio, Guwayne. Ti ho guardata con grande interesse, Gwendolyn. Ti guardo da secoli.”

Gwen provò un brivido a quelle parole, anche per la familiarità di quella persona che non conosceva. Sentì un formicolio nelle braccia, lungo la spina dorsale, chiedendosi come potesse sapere tutto questo. Sentì da subito che si trovava nella sua orbita e che non sarebbe potuta fuggire anche se avesse provato.

“Come fai a sapere tutto questo?” gli chiese.

Lui sorrise.

“Io sono Eldof. Sono tanto l’inizio quanto la fine della conoscenza.”

Si alzò in piedi e Gwen fu scioccata di vedere che era alto il doppio di ogni uomo avesse mai incontrato. Fece un passo più vicino a lei scendendo la rampa e con gli occhi così ipnotizzanti che Gwen si sentì come incapace di muoversi in sua presenza. Era così difficile concentrarsi davanti a lui, pensare con la propria testa.

Gwen si sforzò di fare chiarezza nella propria mente, di concentrarsi sugli affari di cui doveva trattare.

“Il tuo re ha bisogno di te,” gli disse. “Il Crinale ha bisogno di te.”

Lui rise.

“Il mio re?” ripeté con disprezzo.

Gwen si sforzò di insistere.

“Crede che tu sappia come salvare il Crinale. Crede che tu gli tenga nascosto il segreto, un segreto che potrebbe salvare questo posto e tutta questa gente.”

“Sì, è così,” rispose inespressivo.

Gwen fu presa alla sprovvista da quella immediata a schietta risposta e non sapeva come controbattere. Si era aspettata che avrebbe negato.

“Davvero?” gli chiese strabiliata.

Lui sorrise ma non disse nulla.

“Ma perché?” gli chiese. “Perché non dovresti condividere questo segreto?”

“E perché dovrei farlo?” chiese lui.

“Perché?” ribatté lei di stucco. “Ovviamente per salvare questo regno, per salvare il suo popolo.”

“E perché dovrei volerlo fare?” insistette lui.

Gwen socchiuse gli occhi confusa: non aveva idea di come rispondere. Alla fine sospirò.

“Il tuo problema,” continuò Eldof, “è che credi che tutti debbano essere salvati. Ma è qui che sbagli. Guardi il tempo attraverso le lenti di pochi decenni. Io lo guardo dal punto di vista di secoli. Tu guardi la gente come fosse indispensabile: io li vedo come ingranaggi nella grande ruota del destino e del tempo.”

Fece un passo più vicino, con occhi sempre più perforanti.

“Alcune persone, Gwendolyn, sono destinate a morire. Alcune persone devono morire.”

“Devono morire?” chiese Gwen inorridita.

“C’è bisogno che alcuni muoiano per liberarne di altri,” rispose lui. “Alcuni devono cadere così che altri possano elevarsi. Cosa rende una persona più importante di un’altra? Un luogo più importante di un altro?”

Lei soppesò le parole, sempre più confusa.

“Senza distruzione, senza spreco, la crescita non sarebbe possibile. Senza le sabbie vuote del deserto non ci possono essere fondamenta su cui costruire grandiose città. Cosa conta di più: la distruzione o la crescita? Non capisci? Cos’è la distruzione se non un fondamento?”

Gwen, perplessa, cercava di capire, ma le sue parole non facevano che accrescere la sua confusione.

“Quindi hai intenzione di startene da parte e lasciare che il Crinale e la sua gente muoiano?” chiese. “Perché? che bene te ne verrebbe?”

Eldof rise.

“Perché tutto dovrebbe sempre essere per un beneficio?” le chiese. “Non li salverò perché non sono destinati ad essere salvati,” disse con enfasi. “Questo posto, il Crinale, non è destinato a sopravvivere. È destinato ad essere distrutto. Questo re è destinato ad essere distrutto. Tutto questo popolo è destinato ad essere distrutto. E non sta a me mettermi sulla strada del destino. Mi è stato concesso il dono di vedere il futuro, ma è un dono di cui non abuserò. Non cambierò ciò che vedo. Chi sono io per mettermi sulla strada del destino?”

Gwendolyn non poté fare a meno di pensare a Thorgrin e Guwayne.

Eldof sorrise.

“Ah sì,” disse guardandola. “Tuo marito. Tuo figlio.”

Gwen lo guardò scioccata, chiedendosi come avesse potuto leggerle la mente.

“Vuoi così tanto aiutarli,” aggiunse, ma poi scosse la testa. “Ma a volte non si può cambiare il destino.”

Lei arrossì e scrollò via le sue parole, determinata.

“Io cambierò il destino,” disse con enfasi. “A qualsiasi costo. Anche se dovessi rinunciare alla mia stessa anima.”

Eldof la guardò a lungo, osservandola con attenzione.

“Sì,” disse. “Lo farai, vero? Posso vedere questa forza in te. Lo spirito di un guerriero.”

La scrutò attentamente e per la prima volta lei scorse un poca di incertezza nella sua espressione.

“Non mi aspettavo di trovare qualcosa del genere in te,” continuò con voce più umile. “Ci sono pochi eletti, come te, che hanno il potere di cambiare il destino. Ma il prezzo che dovrai pagare sarà molto grande.”

Sospirò, come scacciando una visione.

“In ogni caso,” continuò, “non cambierai il destino qui, non nel Crinale. La morte sta sopraggiungendo. Ciò che serve loro non è di essere salvati, ma un esodo. Hanno bisogno di un nuovo capo che li conduca attraverso la Grande Desolazione. Penso tu già sappia che sei tu quel capo.”

Gwen provò un brivido a quelle parole. Non poteva immaginarsi ad avere la forza di rifare tutto di nuovo.

“Come posso guidarli?” chiese, esausta al solo pensiero. “E dove potremmo andare? Siamo nel mezzo del nulla.”

Lui si voltò facendo silenzio e iniziando ad allontanarsi. Gwen provò un improvviso ardente desiderio di saperne di più.

“Dimmi,” disse correndogli dietro e afferrandolo per un braccio.

Lui si voltò e le guardò la mano, come se un serpente lo stesse toccando. Alla fine lei la tolse. Numerosi dei suoi monaci accorsero uscendo dall’ombra e si raccolsero attorno a loro, guardandola con rabbia. Alla fine Eldof fece loro un cenno ed essi si ritirarono.

“Dimmi,” le disse. “Risponderò a una domanda. Solo a una domanda. Cosa desideri sapere?”

Gwen fece un respiro profondo, disperata.

“Guwayne,” disse senza fiato. “Mio figlio. Come posso riaverlo indietro? Come posso cambiare il destino?”

Lui la guardò a lungo e con durezza.

“La risposta è davanti ai tuoi occhi da tempo, eppure non la vedi.

Gwen si scervellò, disperata di capire, eppure non poteva comprendere cosa fosse.

“Argon,” aggiunse. “Rimane un segreto che ha avuto paura di rivelarti. È lì che si trova la tua risposta.”

Gwen era scioccata.

“Argon?” chiese. “Argon sa?”

Eldof scosse la testa.

“No. Ma il suo maestro sì.”

A Gwen girava la testa.

“Il suo maestro?” chiese.

Gwen non aveva mai considerato che Argon avesse un maestro.

Eldof annuì.

“Chiedigli di portarti da lui,” disse con tono pregno di fatalità. “La risposta che avrai stupirà anche te.”

CAPITOLO TREDICI

Mardig camminava attraverso i corridoi del castello con determinazione e contemplava nella sua mente ciò che stava per fare. Allungò un braccio e con mano sudata afferrò il pugnale che teneva nascosto alla vita. Percorreva la stessa strada che aveva fatto milioni di volte prima d’ora, la strada che lo portava da suo padre.

La camera del re non era più distante ormai e Mardig svoltava e girava lungo i familiari corridoi, oltre le guardie che si inchinavano con riverenza alla vista del figlio del re. Mardig sapeva di avere poco da temere da loro. Nessuno aveva idea di cosa stesse per fare e nessuno avrebbe saputo ciò che sarebbe successo se non dopo molto tempo dall’accaduto, quando il regno sarebbe già stato suo.

Mardig sentiva un turbine di emozioni contrastanti mentre si sforzava di mettere un piede davanti all’altro, con le ginocchia tremanti, sforzandosi di essere risoluto e preparandosi a compiere il gesto che aveva pianificato per tutta la vita. Suo padre era sempre stato un oppressore per lui, lo aveva sempre disapprovato, apprezzando invece gli altri figli, i guerrieri. Approvava addirittura sua figlia più di lui. E tutto perché lui, Mardig, aveva deciso di non prendere parte a quella cultura della cavalleria; tutto perché preferiva bere vino e andare a caccia di donne invece di uccidere altri uomini.

Agli occhi di suo padre questo lo rendeva un fallimento. Suo padre aveva guardato con disapprovazione ogni cosa Mardig avesse mai fatto, seguendolo con i suoi occhi di disprezzo in ogni angolo. Mardig aveva sempre sognato di poter avere un giorno un qualche riconoscimento. E allo stesso tempo di poter prendere il potere per sé. Tutti si erano sempre aspettato che il trono passasse a uno dei suoi fratelli, il primogenito, Koldo. Se non a lui allora al gemello di Mardig, Ludvig. Ma Mardig aveva altri piani.

Quando Mardig svoltò l’angolo i soldati di guardia si inchinarono con riverenza e si voltarono per aprire la porta senza neanche chiedere perché.

Ma improvvisamente uno di loro si fermò inaspettatamente e si girò a guardarlo.

“Mio signore,” disse, “il re non ci ha detto di nessuna visita questa mattina.”

Il cuore di Mardig smise di battere un momento, ma si sforzò di apparire coraggioso e sicuro: si voltò e fissò il soldato, uno sguardo di potere, fino a che poté vedere che l’uomo appariva insicuro di se stesso.

“E io sarei un mero visitatore?” chiese con freddezza, facendo del suo meglio per non sembrare spaventato.

La guardia lentamente arretrò e Mardig passò attraverso le porte aperte che vennero poi chiuse dalle guardie alle sue spalle.

Mardig entrò nella stanza e vide gli occhi sorpresi di suo padre che si trovava in piedi alla finestra e guardava pensieroso il suo regno. Lo guardò confuso.

 

“Mardig,” disse suo padre, “a cosa devo l’onore? Non ti ho convocato. Né ti ho richiesto di farmi visita nelle ultime lune, a meno che non si ci sia qualcosa che desideri.”

Il cuore di Mardig gli batteva forte nel petto.

“Non sono venuto a chiederti niente, padre,” rispose. “Sono venuto a prendere qualcosa.”

Il re apparve confuso.

“A prendere?” chiese.

“A prendere ciò che mi appartiene,” rispose.

Mardig fece alcuni lunghi passi attraversando la stanza, irrigidendosi mentre suo padre lo guardava sorpreso.

“Cosa ti appartiene?” gli chiese.

Mardig sentiva i palmi che sudavano, il pugnale in mano e non sapeva se sarebbe riuscito ad andare oltre.

“Ebbene, il regno,” disse.

Mardig allentò lentamente la presa sul pugnale, volendo che suo padre lo vedesse prima di pugnalarlo, volendo che vedesse con i suoi occhi quanto lui lo odiasse. Voleva vedere l’espressione di paura di suo padre, lo shock, la rabbia.

Ma quando il re abbassò lo sguardo non fu come Mardig se l’era aspettato. Pensava che avrebbe opposto resistenza, che avrebbe lottato. Invece sollevò lo sguardo e lo fissò con tristezza e compassione.

“Figliolo,” gli disse. “Sei pur sempre mio figlio nonostante tutto e ti voglio bene. So che nel profondo del tuo cuore non intendi fare questo.”

Mardig socchiuse gli occhi confuso.

“Sono malato, figlio mio,” continuò il re. “Molto presto sarò morto. E quando ciò accadrà il regno passerà ai tuoi fratelli, non a te. Anche se dovessi uccidermi ora, non ci guadagneresti nulla. Saresti sempre il terzo nella discendenza. Quindi posa la tua arma e abbracciami. Ti voglio ancora bene, come farebbe ogni padre.”

Mardig, in un’improvvisa ondata di rabbia, con mani tremanti, si lanciò in avanti e conficcò il pugnale nel cuore di suo padre.

Suo padre rimase fermo, strabuzzando gli occhi incredulo mentre Mardig teneva stretto il coltello e lo fissava negli occhi.

“La tua malattia ti ha reso debole padre,” gli disse. “Cinque anni fa non avrei mai potuto fare una cosa del genere. E un regno non merita un re debole. So che presto morirai, ma non è abbastanza presto per me.”

Il re alla fine collassò a terra, immobile.

Morto.

Mardig abbassò lo sguardo respirando affannosamente, ancora scioccato per ciò che aveva appena fatto. Si asciugò la mano sugli abiti e gettò il coltello che atterrò con un clangore sul pavimento.

Mardig guardò suo padre con volto accigliato.

“Non preoccuparti dei miei fratelli, padre,” aggiunse. “Ho un piano anche per loro.”

Mardig passò oltre il cadavere di suo padre, Si avvicinò alla finestra e guardò verso la capitale che si dispiegava di sotto. La sua città.

Ora era tutto suo.

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