Giostra Di Cavalieri

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Из серии: L’Anello Dello Stregone #16
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CAPITOLO CINQUE

Volusia, con indosso i suoi paramenti dorati, si trovava in cima alla pedana e guardava i cento gradini d’oro che aveva fatto erigere come inno a se stessa. Allungò le braccia in fuori e si godette quel momento. A perdita d’occhio poteva vedere le strade della città gremite di gente, cittadini dell’Impero, i suoi soldati, tutti i suoi nuovi fedeli inchinati davanti a lei, con le teste che toccavano terra alla luce del primo sole. Cantavano tutti insieme, un suono leggero e continuo, partecipando al servizio mattutino che lei aveva creato come i suoi ministri e comandanti avevano loro insegnato: adorarla o affrontare la morte. Sapeva che ora la veneravano perché dovevano, ma molto presto lo avrebbero fatto perché ci avrebbero creduto.

“Volusia, Volusia, Volusia,” cantavano. “Dea del sole e dea delle stelle. Madre degli oceani e messaggera del sole.”

Volusia ammirava la sua nuova città. Erette ovunque si trovavano le statue d’oro che la rappresentavano come lei aveva ordinato di fare. In ogni angolo della capitale c’era una sua statua di oro splendente; ovunque si guardasse non si poteva che vederla e venerarla.

Finalmente era soddisfatta. Finalmente era la dea che sapeva sarebbe diventata.

Il canto riempiva l’aria come anche l’incenso che veniva bruciato su ogni altare. Uomini, donne e bambini riempivano le strade, spalla a spalla, inchinandosi, e lei sentiva di meritarselo. Era stato una marcia lunga e dura arrivare fino a lì, ma aveva fatto tutta la strada fino alla capitale, era riuscita a conquistarla, a distruggere gli eserciti dell’Impero che le si erano opposti. Ora finalmente la capitale era sua.

L’Impero era suo.

Ovviamente i suoi consiglieri la pensavano diversamente, ma a Volusia non interessava poi tanto cosa pensassero. Sapeva di essere invincibile, in qualche posto tra cielo e terra, e nessun potere di questo mondo poteva distruggerla. Non solo non si ritirava per la paura, ma piuttosto sapeva che questo era solo l’inizio. Voleva ancora più potere. Aveva in programma di visitare ogni Corno e Punta dell’Impero e distruggere tutti coloro che si fossero opposti a lei e che non avessero accettato il suo potere unilaterale. Avrebbe messo insieme un esercito sempre più grande fino a che ogni angolo dell’Impero fosse stato sottomesso a lei.

Pronta ad iniziare la giornata, Volusia scese lentamente dalla pedana, facendo un gradino dorato alla volta. Allungò le mani e mentre tutti le correvano incontro li toccò con i palmi. Erano una moltitudine di fedeli che la abbracciavano e lei era una dea tra loro. Alcuni, piangendo, si buttarono a terra mentre lei avanzava formando un ponte umano, felici che lei gli camminasse sopra.

Alla fine aveva ottenuto il suo gregge. Ora era il momento di andare in guerra.

*

Volusia si trovava in cima ai bastioni che circondavano la capitale dell’Impero e scrutava il cielo sul deserto con un crescente senso di fatalità. Non si vedevano altro che cadaveri decapitati, tutti gli uomini che aveva ucciso, e un nugolo di avvoltoi che volavano e scendevano a piluccare le loro carni. Fuori dalle mura c’era una leggera brezza e lei poteva sentire già il puzzo di carne rancida portato dal vento. Sorrise di fronte a quella carneficina. Quegli uomini avevano osato opporsi a lei e ne avevano pagato il prezzo.

“Non dovremmo bruciare i morti, mia dea?” chiese una voce.

Volusia si voltò e vide il comandante delle sue forze armate, Rory, un umano alto e robusto, con bei lineamenti e un aspetto decisamente gradevole. Lo aveva scelto, lo aveva elevato al di sopra degli altri generali, perché era un piacere per gli occhi, ma anche perché era un comandante brillante e gli piaceva vincere a ogni costo, proprio come lei.

“No,” rispose senza guardarlo. “Voglio che marciscano sotto al sole e che gli animali si rimpinzino delle loro carni. Voglio che tutti sappiano ciò che succede a quelli che si oppongono alla dea Volusia.”

Lui guardò davanti a sé indietreggiando.

“Come desideri, mia dea,” le rispose.

Volusia scrutò l’orizzonte e in quel momento il suo stregone, Koolian, con indosso la sua tunica nera con il cappuccio, gli occhi luccicanti e verdi e il volto segnato dalle rughe – la creatura che l’aveva aiutata a perpetrare l’assassinio di sua madre e uno dei pochi membri della sua cerchia di cui ancora si fidava – si fece avanti avvicinandosi e osservando la scena insieme a lei.

“Sai che sono là fuori,” le ricordò. “Che stanno venendo da te. Li sento anche adesso.”

Lei lo ignorò guardando dritto davanti a sé.

“Come anche io,” disse alla fine.”

“I Cavalieri del Sette sono molto potenti, mia dea,” le disse Koolian. “Viaggiano con un esercito di stregoni, un esercito che neanche tu puoi sconfiggere.”

“E non dimenticare gli uomini di Romolo,” aggiunse Rory. “I rapporti dicono che sono vicini alle nostre coste già adesso nel loro viaggio di ritorno dall’Anello.”

Volusia continuò a guardare avanti e un lungo silenzio rimase sospeso nell’aria, spezzato da nient’altro che l’ululare del vento.

Infine Rory disse: “Sai che non possiamo tenere questo posto. Restare qui significherebbe la morte per tutti noi. Cosa ordini di fare, mia dea? Fuggiamo dalla capitale? Ci arrendiamo?”

Alla fine Volusia si voltò verso di lui e sorrise.

“Festeggeremo,” disse.

“Festeggeremo?” chiese lui scioccato.

“Sì, festeggeremo,” disse. “Fino alla fine. Rinforzate i cancelli della nostra città e aprite la grande arena. Dichiaro cento giorni di feste e giochi. Può anche darsi che moriremo,” concluse con un sorriso, “ma lo faremo sorridendo.”

CAPITOLO SEI

Godfrey correva attraverso le strade di Volusia per raggiungere velocemente i cancelli della città prima che fosse troppo tardi. Era abbastanza felice del suo successo nel sabotare l’arena riuscendo ad avvelenare l’elefante e trovare Dray liberandolo nell’arena proprio quando Dario ne aveva più bisogno. Grazie al suo aiuto e con l’aiuto della donna finiana, Silis, Dario aveva vinto. Aveva salvato la vita del suo amico, il che lo sollevava un poco dalla colpa dell’imboscata a Volusia. Ovviamente il ruolo di Godfrey era nell’ombra, dove gli riusciva meglio, e Dario non avrebbe comunque mai potuto vincere senza il proprio coraggio e la bravura nel combattere. Eppure Godfrey aveva giocato un ruolo abbastanza decisivo, seppur piccolo.

Ma ora tutto stava andando storto: si era aspettato, dopo il combattimento, di poter incontrare Dario ai cancelli dell’arena mentre lo portavano fuori, per poterlo così liberare. Non aveva previsto che l’avrebbero portato fuori dalla porta sul retro accompagnandolo attraverso la città. Dopo la sua vittoria tutta la folla dell’Impero aveva cantato il suo nome e i supervisori dell’Impero si erano sentiti minacciati dalla sua inaspettata popolarità. Avevano creato un eroe e avevano deciso di portarlo fuori dalla città verso l’arena della capitale il prima possibile, prima di ritrovarsi una rivoluzione tra le mani.

Ora Godfrey correva insieme agli altri, disperato per raggiungerlo, per raggiungere Dario prima che lasciasse la città e fosse quindi troppo tardi. La strada verso la capitale era lunga, desolata, attraversava la Desolazione ed era ben sorvegliata. Una volta lasciata la città non ci sarebbe stato modo di aiutarlo. Doveva salvarlo altrimenti i suoi sforzi non sarebbero valsi a nulla.

Godfrey sfrecciava tra le strade, respirando affannosamente, con Merek ed Ario che aiutavano Akorth e Fulton che annaspavano sotto il peso delle loro grosse pance.

“Non fermarti!” Merek incoraggiava Fulton tirandolo per un braccio. Ario dava delle gomitate ad Akorth facendolo gemere e spingendolo ogni volta che rallentava.

Godfrey sentiva il sudore che gli colava lungo il collo e si maledisse ancora una volta per aver sempre bevuto troppa birra. Ma pensò a Dario e si sforzò di continuare a far muovere le gambe doloranti, svoltando in una strada dopo l’altra fino a che emersero da un lungo arco di pietra e si trovarono nella piazza cittadina. A quel punto videro in lontananza, a forse cento metri di distanza, i cancelli della città, imponenti e alti almeno quindici metri. Mentre Godfrey guardava il cuore gli balzò in gola vedendo che le sbarre venivano spalancate.

“NO!” gridò involontariamente.

Godfrey ebbe un moto di panico vedendo il carro di Dario, trainato da cavalli e sorvegliato da soldati dell’Impero, fatto di sbarre di ferro come una sorta di gabbia su ruote, che si dirigeva verso i cancelli aperti.

Godfrey corse più velocemente, più veloce di quanto pensasse di essere capace, arrancando.

“Non ce la faremo,” disse Merek, la voce della ragione, mettendogli una mano sul braccio.

Ma Godfrey lo scosse via e corse. Sapeva che era una causa senza speranza: il carro era troppo lontano, troppo sorvegliato, troppo fortificato, ma lui continuò comunque a correre fino a non poterne più.

Rimase fermo nel mezzo del cortile con la salda mano di Merek che lo tratteneva, e si chinò con conati di vomito mettendo le mani sulle ginocchia.

“Non possiamo lasciarlo andare!” gridò.

Ario scosse la testa avvicinandoglisi.

“È già andato,” gli disse. “Salvati. Combatteremo un altro giorno.”

“Lo salveremo in qualche altro modo,” aggiunse Merek.

“Come?!” implorò Godfrey disperato.

Nessuno di loro aveva una risposta mentre stavano tutti in piedi e guardavano i cancelli di ferro che sbattevano alle spalle di Dario, come porte che si serravano sulla sua anima.

 

Poté vedere la carrozza che al di là delle sbarre, già distante nel deserto, sempre più lontana da Volusia. La nuvola di polvere si sollevò sempre più alta presto oscurando la visuale e Godfrey si sentì spezzare il cuore sentendo di aver abbandonato l’ultima persona che conosceva e la sua unica speranza di redenzione.

Il silenzio venne scosso dai guaiti frenetici di un cane selvatico e Godfrey abbassò lo sguardo vedendo Dray che sopraggiungeva dalle vie cittadine abbaiando e ringhiando come impazzito, attraversando il cortile diretto verso il suo padrone. Anche lui era disperato per il desiderio di salvare Dario e quando raggiunse i grandi cancelli di ferro saltò gettandovisi contro e mordendoli inutilmente con i denti.

Godfrey guardò con orrore mentre i soldati dell’Impero che stavano di guardia posavano i loro sguardi sul cane e lo indicavano. Uno di essi sguainò la spada e si avvicinò a Dray con la chiara intenzione di ucciderlo.

Godfrey non capì cosa gli stesse accadendo, ma qualcosa si mosse in lui. Era troppo, troppa ingiustizia da sopportare. Se non poteva salvare Dario, almeno doveva salvare il suo adorato cane.

Godfrey sentì se stesso gridare, sentì che si metteva a correre come fuori di sé. Con una sensazione surreale sentì che sguainava la sua spada corta e correva in avanti verso la guardia ignara. Mentre questa si voltava la pugnalò al cuore.

Il grande e grosso soldato dell’Impero guardò Godfrey incredulo, gli occhi sgranati, immobile. Poi cadde a terra morto.

Godfrey udì un grido e vide le altre due guardie dell’Impero piombargli addosso. Sollevarono minacciosamente le loro armi e lui capì che non aveva possibilità di affrontarle. Sarebbe morto lì, davanti a quei cancelli, ma almeno sarebbe morto in un gesto di nobiltà.

Un ringhio squarciò l’aria e Godfrey vide con la coda dell’occhio che Dray si voltava e balzava in avanti saltando addosso alla guardia che incombeva su Godfrey. Gli affondò le zanne nella gola e lo bloccò a terra strattonandolo fino a che l’uomo smise di muoversi.

Nello stesso istante Merek ed Ario accorsero e usarono le loro spade corte per pugnalare l’altra guardia che si trovava dietro a Godfrey, uccidendola prima che potesse fargli del male.

Rimasero tutti lì in silenzio. Godfrey guardò quella carneficina, scioccato per ciò che aveva appena fatto, scioccato di possedere quel genere di coraggio. Dray gli corse vicino e gli leccò il dorso della mano.

“Non pensavo potessi fare tanto,” disse Merek con ammirazione.

Godfrey rimase impassibile, sconvolto.

“Non sono neanche sicuro di cosa ho effettivamente fatto,” disse sopraffatto dalla confusione degli eventi. Non aveva inteso agire, l’aveva fatto e basta. Questo lo rendeva comunque coraggioso?

Akorth e Fulton guardarono da ogni parte, terrorizzati, cercando segni di soldati dell’Impero.

“Dobbiamo andarcene da qui!” gridò Akorth. “Ora!”

Godfrey sentì delle mani su di lui e si sentì trascinare via. Si voltò e corse insieme agli altri, Dray al loro fianco. Si allontanarono tutti dai cancelli correndo di nuovo verso Volusia, verso Dio solo sapeva cosa ci fosse in serbo per loro.

CAPITOLO SETTE

Dario sedeva appoggiato alle sbarre di ferro, i polsi legati alle caviglie con una lunga catena tra essi e il corpo ricoperto di ferite ed abrasioni. Si sentiva pesare tonnellate. Mentre procedevano con la carrozza che rimbalzava sulla strada impervia, guardava verso l’esterno vedendo il cielo del deserto tra le sbarre e sentendosi perduto. La sua carrozza passò attraverso un paesaggio infinito e brullo, nient’altro che desolazione a perdita d’occhio. Era come se il mondo fosse finito.

La sua carrozza era ombreggiata ma dei fasci di luce passavano tra le sbarre e lui sentiva l’opprimente calore del deserto avvolgerlo a ondate, facendolo sudare anche all’ombra e peggiorando così la sua situazione di sconforto.

Ma a Dario non importava. Tutto il corpo gli bruciava e gli doleva dalla testa ai piedi, ricoperto di ematomi, gli arti che facevano fatica a muoversi, consumati dagli infiniti giorni di combattimenti nell’arena. Incapace di dormire, chiuse gli occhi e cercò di scacciare i ricordi, ma ogni volta che ci provava vedeva i suoi amici morirgli accanto – Desmond, Raj, Luzi e Kraz – tutti in modo terribile. Tutti loro morti perché lui potesse sopravvivere.

Era il vincitore, aveva ottenuto l’impossibile, eppure questo significava pochissimo adesso per lui. Sapeva che la morte stava per arrivare: la sua ricompensa, dopotutto, era di venire spedito nella capitale dell’Impero per diventare uno spettacolo in un’arena più grande, contro avversari ben peggiori. La ricompensa per tutto ciò, per i suoi atti di valore, sarebbe stata la morte.

Dario avrebbe preferito morire lì piuttosto di dover rivivere tutto di nuovo. Ma non poteva controllare neppure questo: era incatenato lì, inerme. Quanto ancora sarebbe durata quella sua tortura? Avrebbe dovuto assistere alla morte di ogni cosa che amava al mondo prima di morire lui stesso?

Dario chiuse ancora gli occhi, cercando disperatamente di eliminare i ricordi. Così facendo, gli venne alla mente un ricordo della sua prima infanzia. Stava giocando davanti alla capanna del nonno con un bastone. Stava colpendo ripetutamente un albero fino a che suo nonno gli strappò di mano il bastone.

“Non giocare con i bastoni,” lo rimproverò. “Vuoi attirare l’attenzione dell’Impero? Vuoi che pensino che siamo dei guerrieri?”

Il nonno ruppe il bastone sul proprio ginocchio e Dario si incollerì. Quello era più che un bastone: quello era il suo bastone dei poteri, l’unica arma che aveva. Quel bastone significava ogni cosa per lui.

Sì, voglio che pensino che sono un guerriero. Non voglio che mi si conosca per nient’altro che questo, aveva pensato.

Ma mentre suo nonno si girava e si allontanava velocemente non aveva avuto il coraggio di dirlo ad alta voce.

Dario aveva raccolto il bastone rotto e aveva tenuto i pezzi in mano con le lacrime che gli scendevano sulle guance. Un giorno, aveva giurato, si sarebbe vendicato su tutti loro: la sua vita, il suo villaggio, la loro situazione, l’Impero, qualsiasi cosa e ogni cosa che non era in grado di controllare.

Li avrebbe distrutti tutti. E lo avrebbero conosciuto per essere nient’altro che un guerriero.

*

Dario non sapeva quanto tempo fosse passato quando si svegliò, ma notò immediatamente che il brillante sole della mattina si era trasformato in un pomeridiano sole arancione che volgeva al tramonto. Anche l’aria era molto più fresca e le sue ferite si erano irrigidite rendendogli più difficile muoversi o addirittura spostarsi in quello scomodo carro. I cavalli lo facevano sobbalzare ininterrottamente sul suolo roccioso del deserto e la sensazione del ferro che gli sbatteva contro la testa lo faceva sentire come se gli stessero frantumando il cranio. Si strofinò gli occhi togliendosi lo sporco dalle ciglia e si chiese quanto ancora distasse la capitale. Gli sembrava di aver ormai viaggiato fino all’altra parte del mondo.

Sbatté le palpebre diverse volte e guardò fuori, aspettandosi come sempre di vedere un orizzonte vuoto, un deserto di desolazione. Ma questa volta fu sorpreso di vedere qualcosa di diverso. Si mise a sedere più eretto per la prima volta.

Il carro iniziò a rallentare, il rombo dei cavalli si acquietò un poco e le strade si fecero più lisce. Mentre scrutava il nuovo paesaggio Dario vide un panorama che mai avrebbe dimenticato: lì, ergendosi dal deserto come una sorta di civiltà perduta, si trovavano delle massicce mura cittadine, cancelli di oro luccicante, mura e parapetti gremiti di soldati. Dario capì all’istante che erano arrivati: era la capitale.

Il rumore della strada mutò, diventando un suono di legno vuoto e Dario abbassò lo sguardo vedendo che la carrozza veniva condotta al di sopra di un ponte levatoio. Passarono oltre centinaia di soldati allineati lungo il ponte, tutti sull’attenti al loro passaggio.

Un forte cigolio riempì l’aria e Dario guardò davanti a sé vedendo le porte dorate, incredibilmente alte, che si spalancavano come ad accoglierlo. Vide un luccichio al di là: era la città più magnifica che mai avesse visto e capì, senza ombra di dubbio, che quello era un posto dal quale non sarebbe potuto scappare. Come a confermare i suoi pensieri udì un lontano rombo, un rumore che riconobbe all’istante: era il fragore dell’arena, una nuova arena, un posto di uomini che chiedevano sangue, il posto che sarebbe di sicuro stato l’ultimo che avrebbe visitato. Non ne aveva paura: pregava solo Dio di morire sui proprio piedi, con la spada in mano, in un ultimo grandioso atto di valore.

CAPITOLO OTTO

Thorgrin tirò un’ultima volta la corda dorata con mani tremanti, Angel al suo fianco e il sudore che gli colava sul viso. Alla fine arrivò in cima alla parete rocciosa e mise piede a terra, prendendo fiato. Si voltò e si guardò alle spalle vedendo, decine di metri più sotto, alla base della ripida scogliera, le onde dell’oceano che si infrangevano e la loro barca sulla spiaggia che sembrava così piccola: era sorpreso di vedere quanto in alto si era arrampicato. Udiva lamenti tutt’attorno a lui e voltandosi vide Reece e Selese, Elden ed Indra, O’Connor e Mati che arrivavano tirandosi sull’altopiano dell’Isola della Luce.

Thor rimase in ginocchio, con i muscoli esausti, e guardò l’Isola della Luce davanti a sé. Il cuore gli sprofondò nel petto e provò un rinnovato senso di presagio. Prima ancora di vedere la scena orribile poté sentire l’odore delle ceneri ardenti, l’odore pesante del fumo che impregnava l’aria. Poté anche sentire il calore, i fuochi che ardevano, i danni creati da chissà quale creatura avesse devastato quel posto. L’isola era nera, bruciata, distrutta, tutto ciò che prima era stato così idilliaco, tutto ciò che era sembrato così invincibile, ora era stato tramutato in cenere.

Thorgrin si rimise in piedi e non attese tempo. Iniziò ad avventurarsi nell’isola con il cuore che gli batteva forte in petto mentre cercava ovunque Guwayne. Considerando la condizione del posto odiava pensare a cosa avrebbe potuto trovare.

“GUWAYNE!” gridò correndo tra le colline riarse e portandosi le mani alla bocca.

La voce gli tornò indietro come un’eco contro le colline, come a prenderlo in giro. Poi nient’altro che silenzio.

Giunse un ruggito solitario da qualche parte in alto e Thor sollevò lo sguardo vedendo Licople che volava in cerchio. Licople ruggì di nuovo, scese in basso e volò verso il centro dell’isola. Thor sentì improvvisamente che lo stava conducendo da suo figlio.

Si mise a correre seguito dagli altri, attraversando quella desolazione bruciacchiata e cercando ovunque.

“GUWAYNE!” gridò ancora. “RAGON!”

Mentre Thor guardava la devastazione del paesaggio annerito, provava una crescente certezza che niente potesse essere sopravvissuto in quel posto. Quelle ondeggianti colline, una volta così abbondanti di erba ed alberi erano ora ridotte a un paesaggio segnato dalla battaglia. Thor si chiedeva quale genere di creature, oltre ai draghi, potessero causare un tale disastro, e cosa più importante chi le controllasse, chi le avesse mandate lì e perché. Perché suo figlio era tanto importante che qualcuno mandasse un esercito contro di lui?

Thor guardò l’orizzonte, sperando di vedere un qualche segno, ma il suo cuore gli sprofondò in petto quando non scorse nulla. Vide invece solo fiamme e braci che riempivano le colline.

Voleva credere che Guwayne fosse in qualche modo sopravvissuto a tutto questo. Ma non vedeva come potesse averlo fatto. Se uno stregone potente come Ragon non poteva fermare le forze che erano state lì, come poteva lui salvare suo figlio?

Per la prima volta da quando si era imbarcato in quella missione, Thor iniziava a perdere la speranza.

Continuarono a correre risalendo e scendendo le colline e quando furono in cima a una particolarmente grande, improvvisamente O’Connor, che era davanti al gruppo, indicò freneticamente qualcosa.

“Lì!” gridò.

O’Connor indicava di lato, verso i resti di un antico albero che era ora abbrustolito, con i rami rinsecchiti. Guardando con maggiore attenzione Thor scorse, sdraiato accanto ad esso, un corpo immobile.

Percepì all’istante che si trattava di Ragon. E non vide vicino alcun segno di Guwayne.

 

Thor, pieno di timore, corse in avanti e quando lo raggiunse collassò in ginocchio al suo fianco guardando ovunque alla ricerca di Guwayne. Sperava di trovarlo magari nascosto tra gli abiti di Ragon o da qualche parte accanto a lui o lì vicino, forse nella spaccatura di una roccia.

Ma il cuore gli crollò dentro vedendo che non era da nessuna parte.

Thor allungò le mani e lentamente fece ruotare Ragon, gli abiti anneriti dal fuoco, pregando che non fosse rimasto ucciso. Lo girò sottosopra e provò un barlume di speranza vedendo che muoveva gli occhi. Gli afferrò le spalle, ancora calde al tatto, egli tirò indietro il cappuccio inorridito vedendogli il volto ustionato e sfigurato dalle fiamme.

Ragon iniziò ad ansimare e tossire e Thor vide che stava lottando per rimanere in vita. Si sentiva devastato vedendolo così, quell’uomo meraviglioso che era stato così gentile con tutti loro, ora ridotto in quello stato per difendere quell’isola, per difendere Guwayne. Thor non poteva fare a meno di sentirsi responsabile.

“Ragon,” disse con voce strozzata in gola. “Perdonami.”

“Sono io che ti chiedo perdono,” disse Ragon con voce roca, a malapena capace di pronunciare le parole. Tossì a lungo, poi continuò: “Guwayne…” inizio, ma subito si interruppe.

Il cuore di Thor gli sbatteva con violenza nel petto, non voleva sentire le sue parole e temeva il peggio. Come avrebbe mai potuto rivedere Guwayne?

“Raccontami,” gli chiese Thor stringendogli le spalle. “Il bambino è vivo?”

Ragon ansimò a lungo, cercando di prendere fiato e Thor fece cenno a O’Connor che gli porse subito un fiasco d’acqua. Thor versò l’acqua sulle labbra di Ragon che bevve tossendo mentre deglutiva.

Alla fine Ragon scosse la testa.

“Peggio,” disse con voce poco più forte di un sussurro. “La morte sarebbe stata una grazia per lui.”

Ragon fece silenzio e Thor lo scosse con veemenza, desideroso di sentirlo parlare.

“Lo hanno portato via,” continuò infine Ragon. “Me lo hanno strappato dalle braccia. Tutti qui, solo per lui.”

Il cuore di Thor sprofondò al pensiero del suo prezioso bambino portato via da quelle malvagie creature.

“Ma chi?” chiese. “Chi c’è dietro a tutto questo? Chi è più potente di te da poter fare questo? Pensavo che il tuo potere, come quello di Argon, fosse impenetrabile per ogni creatura di questo mondo.”

Ragon annuì.

“Per tutte le creature di questo mondo, sì,” disse. “Ma queste non erano creature di questo mondo. Erano creature dell’inferno, venivano da un posto ancora più oscuro: la Terra del Sangue.”

“La Terra del Sangue?” chiese Thor stupito. “Sono andato all’inferno e sono tornato indietro,” aggiunse. “Quale posto più essere più oscuro?”

Ragon scosse la testa.

“La Terra del Sangue è più di un luogo. È uno stato esistenziale. Un male più oscuro e più potente di quanto tu possa immaginare. È il regno del Signore del Sangue ed è diventato più oscuro e più potente di generazione in generazione. È in corso una guerra tra regni. Un antico conflitto tra male e luce. Entrambi vogliono il controllo. E temo che Guwayne sia la chiave: chiunque lo abbia con sé può vincere, può avere il dominio sul mondo. Per sempre. È ciò che Argon non ti ha mai detto. Ciò che non poteva ancora dirti. Non eri pronto. Era ciò per cui ti stavo allenando: la guerra più grande che mai potessi immaginare.”

Thor rimase a bocca aperta cercando di capire.

“Non capisco,” disse. “Non hanno preso Guwayne per ucciderlo?”

Ragon scosse la testa.

“Ben peggio. Lo hanno preso per tenerselo, per crescerlo come un bimbo demone, ciò di cui hanno bisogno per far avverare la profezia e distruggere tutto il bene nell’universo.”

A Thor girava la testa e batteva forte il cuore mentre cercava di comprendere tutto.

“Allora devo riportarlo indietro,” disse con la fredda sensazione di risoluzione che gli scorreva nelle vene, soprattutto sentendo Licople che volava sopra la sua testa ruggendo e bramando come lui vendetta.

Ragon allungò una mano e strinse il polso di Thor con una forza sorprendente per un uomo sul punto di morire. Guardò Thor negli occhi con un’intensità che lo spaventò.

“Non puoi,” gli disse con fermezza. “La Terra del Sangue è troppo potente per ogni essere umano. Il prezzo da pagare per accedervi è troppo alto. Anche con tutti i tuoi poteri, ascolta la mia parola: moriresti di certo se ci andassi. Tutti voi morireste. Non sei ancora abbastanza forte. Non recupereresti tuo figlio e tutto verrebbe distrutto.”

Ma il cuore di Thor si stava facendo duro nella decisione.

“Ho affrontato il buio più grande, il potere più forte al mondo,” disse. “Incluso quello del mio stesso padre. Non mi sono mai tirato indietro per paura. Affronterò questo signore oscuro, qualsiasi siano i suoi poteri. Entrerò nella Terra del Sangue a ogni costo. Si tratta di mio figlio. Lo salverò, oppure morirò facendolo.”

Ragon scosse la testa tossendo.

“Non sei pronto,” gli disse con voce calante. “Non sei pronto… hai bisogno… del potere… Hai bisogno… del…dell’anello,” gli disse. Poi si mise a tossire spuntando sangue.

Thor lo fissò con il disperato desiderio di sapere cosa intendesse dire prima che morisse.

“Quale anello?” gli chiese. “La nostra terra?”

Seguì un lungo silenzio, il rantolo di Ragon l’unico rumore nell’aria, fino a che aprì gli occhi appena un poco.

“Il… sacro anello.”

Thor afferrò Ragon per le spalle, voleva che gli rispondesse. Ma improvvisamente sentì che il suo corpo si irrigidiva tra le sue mani. Gli occhi rimasero immobili, si udì un orribile sussulto di morte e un attimo dopo smise di respirare e rimase fermo del tutto.

Morto.

Thor provò un’ondata di agonia pervaderlo.

“NO!” gridò gettando la testa indietro e guardando il cielo. Fu scosso dai singhiozzi mentre abbracciava Ragon, quell’uomo generoso che aveva dato la sua vita per sorvegliare suo figlio. Si sentiva sopraffatto dal dolore e dal senso di colpa. Lentamente e con fermezza sentì crescere in sé la risoluzione.

Guardò il cielo e capì cosa doveva fare.

“LICOPLE!” gridò, lo strillo angoscioso di un padre disperato, infuriato, con niente rimasto da perdere.

Licople udì il suo grido, quindi ruggì dall’alto dei cieli con una furia pari a quella di Thor e scese volando in cerchio, sempre più in basso, fino ad atterrare a pochi passi da lui.

Senza esitare Thor corse da lei, le balzò sulla schiena e si tenne stretto al collo. Si sentiva energizzato ritrovandosi finalmente di nuovo in groppa a un drago.

“Aspetta!” gridò O’Connor correndo verso di lui insieme agli altri. “Dove stai andando?”

Thor li guardò con la morte negli occhi.

“Alla Terra del Sangue,” rispose sentendosi più certo che mai. “Salverò mio figlio. A qualunque costo.”

“Ti distruggeranno,” disse Reece facendosi avanti preoccupato e parlando con voce greve.

“Allora morirò con onore,” rispose Thor.

Guardò poi in alto, verso l’orizzonte, e vide la scia lasciata dai gargoyle che scompariva nel cielo. Capì dove doveva andare.

“Allora non andrai da solo,” gridò Reece. “Ti seguiremo con la nave e ci troveremo laggiù.”

Thorgrin annuì e strinse Licople. Improvvisamente provò la familiare sensazione di loro due sollevati in aria.

“No, Thorgrin!” gridò una voce angosciata dietro di lui.

Sapeva che si trattava della voce di Angel e provò una fitta di senso di colpa volando via da lei.

Ma non poteva guardarsi alle spalle. Suo figlio si trovava davanti a lui e lui l’avrebbe trovato. E li avrebbe uccisi tutti.

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