Eroina, Traditrice, Figlia

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Из серии: Di Corone e di Gloria #6
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Tenne lo schiavo fermo in posizione con un piede, assicurandosi che tutti i presenti potessero vedere. Voleva che tutti assistessero al momento in cui la sua conquista aveva inizio.

“Ti do alla morte,” gridò. “Tu e tutti quelli che si oppongono a noi!”

Calò la spada piantandola nel petto del pover’uomo e trafiggendogli il cuore. Irrien non aspettò. Sollevò la lama di nuovo e per una volta la sua spada da boia effettuò il suo compiuto originale. Trapassò il collo dello schiavo. Nessuna misericordia, ma orgoglio perché la Prima Pietra non avrebbe mai tenuto una lama che non fosse così perfettamente affilata.

Sollevò la spada ancora sanguinante.

“Iniziate!”

I corni suonarono, il cielo si riempì di fuoco mentre le catapulte lanciavano e gli arcieri scoccavano frecce verso i loro avversari. Navi più piccole sgattaiolarono verso i loro bersagli.

Per un momento Irrien si trovò a pensare a questo “Akila”, l’uomo che doveva stare lì ad aspettare ciò che stava sopraggiungendo. Si chiedeva se questo potenziale avversario avesse paura in quel momento.

Avrebbe dovuto averne.

CAPITOLO TRE

Tano stava inginocchiato accanto al corpo di suo fratello e per un momento o due gli sembrò che il tempo si fosse fermato. Non sapeva cosa pensare o provare in quel momento. Non sapeva cosa fare adesso.

Si era aspettato un certo senso di trionfo una volta ucciso finalmente Lucio, o almeno un certo senso di sollievo perché era finalmente finita. Si era aspettato di avere finalmente la sensazione che la gente cui voleva bene fosse al sicuro.

Invece Tano sentiva il dolore crescere dentro di sé, le lacrime cadere per un fratello che non le aveva probabilmente mai meritate. Ma questo non importava adesso. Quello che contava era che Lucio era il suo fratellastro, ed era morto.

Era morto con il pugnale di Tano nel cuore. Tano poteva sentire il sangue di Lucio sulle sue mani, e sembrava essere troppo per essere contenuto in un solo corpo. Una piccola parte di lui si aspettava che sarebbe stato del tutto diverso, per il segno di quella pazzia che si era impossessata di Lucio, per la malvagità che sembrava riempirlo. Invece Lucio era solo un guscio vuoto e silenzioso.

Tano allora avrebbe voluto fare qualcosa per suo fratello, vederlo sepolto, o almeno cederlo a un sacerdote. Ma anche mentre ci pensava, sapeva che non poteva farlo. Le stesse parole di suo fratello significavano che questo era impossibile.

Cadipolvere stava invadendo l’Impero, e se Tano voleva essere in grado di fare qualcosa per aiutare il popolo che amava, dove andare subito.

Su alzò e recuperò la sua spada, pronto a correre verso la porta. Prese anche quella di Lucio. Di tutte le cose che suo fratello aveva tenuto con sé, gli strumenti di violenza erano sembrati quelli più vicini a lui. Tano rimase in piedi con entrambe le armi in mano, sorpreso di scoprire quanto bene stessero insieme. E fu allo stesso modo sorpreso di trovare un gruppo di clienti della locanda a bloccare la porta.

“Hai detto di essere il principe Tano,” disse un uomo dalla barba cespugliosa, intento a toccare con un dito la punta di un coltello. “È vero?”

“Le Pietre pagheranno del bel denaro per un prigioniero come te,” disse un altro.

Un terzo annuì. “E se non pagheranno loro, lo faranno gli schiavisti.”

Si lanciarono in avanti e Tano non aspettò. Attaccò a sua volta. Con la spalla andò a sbattere contro il più vicino facendolo cadere contro un tavolo. Tano stava già sfrecciando fuori, tirando un fendente contro il braccio dell’uomo con il coltello.

Lo udì gridare mentre la lama gli feriva l’avanbraccio, ma si stava già spostando, dando un calcio al terzo uomo e spingendolo verso un punto dove quattro uomini non avevano smesso di giocare ai dadi, neanche durante lo scontro che aveva appena avuto con Lucio. Uno di loro emise una sorta di ringhio e si girò, afferrando il malvivente.

Nel giro di pochi istanti la locanda riuscì a fare ciò che non aveva fatto quando era stato Lucio a combattere: eruppe in un caos su larga scala. Uomini che si erano accontentati di stare da parte mentre Tano e suo fratello si battevano a colpi di spada, ora tiravano pugni e sguainavano coltelli. Uno afferrò una sedia e la fece roteare verso la testa di Tano. Tano si spostò di lato e afferrò un pezzo di legno restituendo il colpo a un altro degli avventori.

Sarebbe potuto restare a combattere, ma pensò al pericolo in cui Ceres poteva trovarsi e questo lo spinse a correre. Era stato così certo di poter fermare l’invasione se solo avesse messo le mani su Lucio, e allora ci sarebbe stato più tempo per trovare la verità sulla sua origine, scoprire le prove di cui aveva bisogno e tornare a Delo. Ora non c’era tempo per niente di tutto questo.

Tano scattò verso la porta. Si abbassò e scivolò sotto le mani di un uomo che cercava di afferrarlo per fermarlo, ferendogli nel contempo la gamba con la spada. Corse fuori in strada… dritto in mezzo alla peggior polvere che avesse mai visto da quando era arrivato in quella città. Non rallentò. Infilò solo le due spade gemelle nella cintura, tirò su la sciarpa per ripararsi dalla polvere e corse in avanti più veloce che poté.

Dietro di sé Tano poteva sentire i rumori di uomini che cercavano di seguirlo, sebbene non fosse facile riuscire a vederlo con quel tempo. Tano si fece strada brancolando come un cieco, passando vicino a un mercante che stava preparando il carico sul suo carro, poi incontrando un paio di soldati che stavano imprecando mentre se ne stavano rannicchiati contro l’uscio di una casa per ripararsi dalla polvere.

“Guarda quel pazzo!” sentì che uno di essi gridava nella lingua di Cadipolvere.

“Probabilmente corre a unirsi all’invasione. Ho sentito che la Quarta Pietra Vexa ha iniziato a mandare altre navi, mentre gli altri tre stanno già complottando. La Prima Pietra ha un bel vantaggio su di loro.”

“Come sempre,” rispose il primo.

Tano era ormai abbastanza addentrato nella polvere, alla ricerca della via seguendo le vaghe forme degli edifici, cercando segnali appesi sopra alle strade, illuminati dalle lampade a olio. C’erano anche intagli nella pietra, ovviamente designati per fare in modo che la gente del posto potesse trovare la strada riconoscendo la via dalla statua di un orso piuttosto che da quella di un serpente, anche semplicemente al tatto.

Tano non conosceva a sufficienza il sistema per poterlo usare, ma lo stesso continuò a correre in mezzo alla polvere.

C’erano altri che stavano facendo lo stesso, e diverse volte Tano si fermò cercando di capire se i passi che sentiva erano quelli degli inseguitori o no. Una volta si nascose dietro al un grosso frangivento in ferro, le spade pronte alla mano, certo che gli avventori della locanda lo avessero raggiunto.

Invece gli passò accanto di corsa un gruppo di schiavi, i volti avvolti per ripararsi dalla polvere, sorreggendo una portantina dall’interno della quale proveniva la voce di un mercante che li incitava.

“Più veloci, bastardi! Più veloci, o vi farò impalare. Dobbiamo arrivare al porto prima che il bottino ci sfugga.”

Tano li guardò e seguì la portantina sulla base che coloro che la portavano probabilmente conoscevano la strada meglio di lui. Non poteva seguire troppo da vicino, perché in una città come Porto Sottovento tutti si guardavano da probabili ladri o assassini, ma lo stesso riuscì a seguirla lungo diverse strade prima che scomparisse nella polvere.

Tano rimase fermo per un secondo o due, recuperando il fiato, e velocemente come era arrivata, la tempesta di polvere si sollevò permettendogli di vedere il porto.

Ciò che vide lì rapì il suo sguardo.

Aveva pensato che prima ci fossero un sacco di navi nel porto. Ora sembrava che l’acqua fosse così colma da traboccare della loro presenza. Dava l’impressione di poter camminare di ponte in ponte fino all’orizzonte.

Molte di esse erano navi da guerra, ma molte altre erano anche barche mercantili o vascelli più piccoli. Con la flotta principale già sparita da Cadipolvere, il porto avrebbe dovuto essere vuoto, eppure a Tano sembrava che non ci fosse spazio per nessun altra barca. Sembrava che tutti a Cadipolvere fossero venuti lì, pronti a prendere un qualsiasi pezzo potessero guadagnare dall’Impero.

Tano iniziò a vedere la portata di quei numeri, e cosa questo significasse. Quello non era solo un esercito che andava a invadere, ma un intero paese. Aveva visto l’opportunità di prendere terre che gli erano state a lungo negate, e ora le avrebbero prese con la forza.

Noncuranti di ciò che questo poteva significare per chi era già lì.

“Chi sei?” chiese un soldato avvicinandoglisi. “Che flotta, quale capitano?”

Tano pensò rapidamente. La verità avrebbe significato un altro parapiglia, e ora non c’era il favorevole velo di polvere dove nascondersi. Non aveva dubbio di essere vestito e ricoperto come uno del posto, ma se qualcuno avesse potuto intuire chi veramente era, o anche solo che veniva dall’Impero, la cosa non sarebbe andata a finire bene.

Pensò brevemente a quello che facevano alle spie a Cadipolvere. Qualsiasi cosa fosse, di certo non era piacevole.

“Con che flotta sei?” chiese ancora l’uomo, questa volta con tono brusco.

“Quella della Quarta Pietra Vexa,” rispose di scatto Tano con voce ugualmente dura. Cercò di far passare la sensazione che non aveva tempo per interruzioni del genere. Non era difficile da fare in quel momento, dato che aveva tanta fretta di tornare per aiutare Ceres. “Ti prego, dimmi che non è vero che la sua flotta è già partita.”

 

L’altro uomo gli rise in faccia. “Pare che tu abbia esaurito la tua fortuna. Senti, pensavi di potertene stare a bighellonare andando a salutare la tua puttana preferita? Sprechi tempo, sprechi l’occasione.”

“Dannazione” disse Tano cercando di stare alla sua parte. “Non possono essere partite tutte. E altre navi?”

Questo trasse dall’uomo un’altra risata. “Puoi chiedere se vuoi, ma se pensi che ci siano ciurme non ancora al completo, allora non sei stato particolarmente attento. In occasioni come questa tutti vogliono un posto. Metà di loro sono a malapena in grado di combattere. Ma ti dirò una cosa, forse posso trovarti un posto in uno degli equipaggi del Vecchio Barba Biforcuta. La Terza Pietra sta facendo con calma. Ti chiederò solo la metà di quello che ci guadagni.”

“Potrebbe essere, se non trovo i tipi con cui dovrei andare,” disse Tano. Ogni secondo che passava lì era un secondo in cui non stava navigando verso Delo con l’unica ciurma lì che non avrebbe cercato di ucciderlo nel momento in cui avessero scoperto chi era.

Vide l’altro uomo scrollare le spalle. “Non otterrai offerte migliori così tardi.”

“Vedremo,” disse Tano, e partì in mezzo alle barche.

Da fuori doveva dare l’impressione di essere alla ricerca di una delle rare barche della flotta di cui aveva parlato l’uomo, anche se Tano sperava di non trovarne una. L’ultima cosa che voleva era trovarsi messo al servizio dell’esercito navale di Cadipolvere.

Ad ogni modo se fosse stato necessario l’avrebbe fatto. Se significava tornare da Ceres, se significava essere capace di aiutarla, avrebbe rischiato. Avrebbe fatto la parte di uno dei guerrieri di Cadipolvere, desideroso di raggiungerli. Se ci fosse stata lì la flotta principale, magari l’avrebbe anche designata come sua prima scelta, cercando di avvicinarsi alla Prima Pietra il più possibile per poterlo uccidere.

Ora però si era portato su questa seconda flotta, e non sarebbe arrivato che troppo tardi. Di certo non sarebbe stato in grado di dare il suo aiuto. Quindi camminò sulle passerelle tra le tante navi, osservando i guerrieri che portavano barili d’acqua fresca e casse di cibo. Tano spaccò con la spada almeno tre botti, ma nessun sabotaggio avrebbe fermato un flotta come quella.

Continuò invece a guardare. Vide uomini e donne che affilavano armi e incatenavano schiavi ai remi. Vide sacerdoti ricoperti di polvere che intonavano preghiere di buon auspicio, sacrificando animali e trasformando così la polvere ai loro piedi in fango intriso di sangue. Vide due gruppi di soldati con diverse bandiere che discutevano su quale di loro sarebbe arrivato prima al pontile.

Tano vide un sacco di cose che lo fecero arrabbiare, e molte altre che gli fecero provare paura per Delo. C’era solo una cosa che non riuscì a trovare nella confusione del pontile, ed era quella per cui era andato lì. C’erano centinaia di barche, di ogni forma, misura e modello. C’erano barche piene fino all’orlo di guerrieri dall’aspetto duro, e barche che sembravano più piccole di battelli da tempo libero, pronte per portare la gente a vedere l’invasione come anche a parteciparvi.

Ciò che non riusciva a vedere era la barca che l’aveva portato lì. Doveva tornare da Ceres, e in quel momento non aveva proprio idea di come l’avrebbe fatto.

CAPITOLO QUATTRO

Stefania corse attraverso il castello, spinta dal suono dei corni di guerra, come un cervo maschio che sfugge alla battuta di caccia. Se non riusciva a uscire adesso, non ci sarebbe stata altra fuga. Aveva fatto abbastanza per quanto riguardava Ceres.

“Lasciamo che sia Cadipolvere a finirla,” disse.

Ripercorse i suoi passi attraverso il castello, fino al punto dove ci si collegava alle gallerie sotto alla città. Sperava che Elethe avesse tenuto aperta la sua via di fuga come lei le aveva ordinato. Ora era il momento di fuggire. Se fossero state prese dalla ribellione, non sarebbe stata una buona cosa, ma essere catturate nel mezzo di una battaglia tra le Cinque Pietre di Cadipolvere sarebbe stato anche peggio.

Eccetto per…

Stefania si fermò, guardando fuori da una finestra da cui si vedeva il porto. Vide il cielo annerito da proiettili infuocati e navi incendiate mentre un nastro nero di vascelli invasori si faceva sempre più vicino. Stefania corse a un punto da dove poteva vedere oltre le mura, e vide che anche da quella parte c’erano dei fuochi.

Da qualsiasi parte fosse scappata adesso, sembrava che ci fossero nemici. Non poteva semplicemente scivolare fuori via mare, come era arrivata a Delo. Non poteva neanche rischiare di andare in aperta campagna, perché se fosse stata lei a guidare l’invasione, ci sarebbero stati dei gruppi di saccheggio da quella parte a spingere la gente verso la città. Non poteva neanche rischiare di girare apertamente per Delo, perché le forze della ribellione avrebbero tentato di catturarla.

Però dov’erano quei soldati? Stefania era passata vicino ad alcune guardie strada facendo, il suo travestimento più che sufficiente per lasciarla passare inosservata. Ma non ne aveva trovate molte. Il castello dava la sensazione di una nave fantasma, abbandonata di fronte a problemi più urgenti. Osservando, Stefania poté vedere i ribelli che si spostavano tra le strade con le armature luccicanti e armi varie. C’erano sicuramente dei buoni numeri, ma quanti erano, e dove?

L’idea le venne in mente lentamente, più come una possibilità che una realtà. Ma più ci pensava e più le appariva come l’opzione migliore. Non era tipa da tuffarsi nelle cose senza pensare. Nella cerchia della nobiltà, quello era un modo per mettersi alla mercé del potere di qualcun altro, o di trovarsi escluso, o peggio ancora.

C’erano però delle volte in cui un’azione decisiva era la risposta giusta. Quando c’era un bottino da arraffare, stare indietro poteva fartelo sfuggire di certo quanto l’eccessiva ingordigia.

Stefania si fece strada verso Elethe, che stava guardando dalle gallerie alla città come se si aspettasse che orde di nemici arrivassero in ogni istante.

“È ora di andarsene, mia signora?” disse Elethe. “Ceres è morta?”

Stefania scosse la testa. “C’è stato un cambio di piano. Vieni con me.”

La sua damigella non esitò minimamente. Seguì Stefania nonostante le preoccupazioni che dovevano di certo assillarla.

“Dove stiamo andando?” chiese Elethe.

Stefania sorrise. “Nelle prigioni. Ho deciso che mi devi cedere alla ribellione.”

Questo ottenne uno sguardo scioccato da parte della ragazza, anche se non era nulla a confronto della sua sorpresa quando Stefania le ebbe spiegato il resto del piano.

“Sei pronta?” chiese Stefania quando furono più vicine alla prigione.

“Sì, mia signora,” disse Elethe.

Stefania si mise le mani dietro alla schiena come se fossero legate, poi avanzò con quella che sperò assomigliasse a una decisa espressione di paura. Elethe stava facendo un ottimo lavoro mostrandosi come una ribelle con un nemico appena catturato.

C’erano un paio di guardie vicino alla porta principale, dietro a un tavolo con delle carte disposte, mostrando come stessero passando il tempo. Alcune cose non cambiavano mai, nonostante chi c’era in carica.

Sollevarono lo sguardo quando Stefania si avvicinò, e Stefania fu piuttosto divertita dalla sorpresa che gli vide in volto.

“Quella è… hai catturato Stefania?” chiese uno degli uomini.

“Come hai fatto?” chiese l’altro. “Dove l’hai trovata?”

Stefania udì l’incredulità, ma anche il senso di non sapere cosa fare adesso.

“Stava sgattaiolando via dalla stanza di Ceres,” rispose Elethe senza esitazioni. La sua damigella era una buona bugiarda. “Potete… devo dirlo a qualcuno, ma non sono sicura a chi.”

Era una buona mossa. Allora entrambi guardarono Elehte, cercando di decidere cosa fare. Fu allora che Stefania tirò fuori un ago con entrambe le mani e lo spinse avanti a colpire i colli delle guardie. Gli uomini si girarono, ma il veleno era ad azione rapida e i loro cuori già si stavano fermando. Ancora due respiri al massimo e collassarono.

“Prendi le chiavi,” disse Stefania indicando la cintura di una delle guardie.

Elehte obbedì, aprendo la prigione. Erano piene fin quasi ad esplodere, proprio come Stefania aveva sospettato. Non c’erano neanche altre guardie. Apparentemente tutti quelli con la capacità di combattere si trovavano entro quelle mura.

C’erano uomini e donne che erano ovviamente soldati e guardie, torturatori e semplicemente nobili leali. Stefania vide altre delle sue damigelle lì, che la guardarono come se fosse pazza. La mossa sensata era quella di non insistere sulla loro lealtà, ma di fingere di servire il nuovo regime. La cosa importante era che fossero lì.

“Signora Stefania?” disse una, come se non potesse credere a ciò che stava vedendo. Come se lei fosse la loro salvatrice.

Stefania sorrise. Le piaceva l’idea di persone che la vedevano come il loro eroe. Avrebbero probabilmente fatto molto di più che semplicemente obbedire, e le piaceva l’idea di girare le armi di Ceres anche contro di lei.

“Ascoltatemi,” disse loro. “Vi è stato preso un sacco. Avevate così tanto, e quei ribelli, quei contadini, hanno osato prendervelo. Io dico che è ora di riprendervelo.”

“Sei qui per farci uscire?” chiese uno degli ex soldati.

“Sono qui per fare molto di più,” disse Stefania. “Ci riprenderemo il castello.”

Non si era aspettata delle grida di esultanza. Non era così romantica da avere bisogno che un branco di sciocchi la applaudissero a ogni decisione. Ma il piccolo mormorio tra loro fu un po’ irritante.

“Avete paura?” chiese loro.

“Ci saranno i ribelli lì!” disse un nobile. Stefania lo conosceva. L’Alto Deputato Scarel era sempre stato svelto a sfidare gli altri in duello quando sapeva di poter vincere.

“Non abbastanza da tenersi quel castello,” disse Stefania. “Non ora. Qualsiasi ribelle è ora fuori sulle mura, impegnato a tenere a bada l’invasione.”

“E l’invasione?” chiese una nobildonna. Era poco meglio dell’uomo che aveva appena parlato. Stefania conosceva i segreti di ciò che aveva fatto prima di sposarsi con un benestante, segreti che di certo avrebbero fatto arrossire buona parte dei presenti.

“Oh, capisco,” disse Stefania. “Preferite aspettare in una bella e sicura prigione che tutto abbia fine. Beh, e poi? Nella migliore delle ipotesi trascorrerete il resto delle vostre vite in questo buco puzzolente, se i ribelli non decideranno di uccidervi in silenzio non appena si saranno resi conto di che prigionieri scomodi siate. Se vinceranno gli altri… pensate che stare in una cella vi proteggerà? Non sarete dei nobili qua dentro per loro, solo dei divertimenti. Brevi divertimenti.”

Fece una pausa per permettere al discorso di attecchire. Doveva farli sentire come dei codardi per averci anche solo pensato.

“O potremmo andare là fuori,” disse Stefania. “Prendiamo il castello e ci serriamo contro i nostri nemici. Uccidiamo quelli che si oppongono a noi. Ho già sistemato le cose con Ceres, quindi non sarà in grado di fermarci. Terremo questo castello fino a che la ribellione e gli invasori non si saranno uccisi a vicenda, poi ci riprenderemo Delo.”

“Ci sono ancora delle guardie,” disse un uomo. “Ci sono ancora dei combattenti qui. Non possiamo metterci contro ai combattenti e vincere.”

Stefania fece un cenno a Elethe, che iniziò ad aprire i lucchetti delle celle. “Ci sono dei modi. Prenderemo altre armi a ogni guardia che uccideremo, e poi sappiamo tutti dove si trova l’armeria. Oppure potete starvene qui a marcire. Chiuderò le porte e manderò dei torturatori più tardi. Non mi interessa quali.”

La seguirono e Stefania sapeva che l’avrebbero fatto. Non importava se lo facevano per paura o per orgoglio, o addirittura per lealtà. La cosa importante era che lo stavano facendo. La seguirono attraverso il castello, e Stefania iniziò a dare ordini, anche se fu attenta a farli suonare non proprio come tali, almeno per ora.

“Lord Hwel, le spiacerebbe prendere alcuni degli uomini più in gamba e andare a sigillare le caserme delle guardie?” disse Stefania. “Non vogliamo che i ribelli escano.”

“E gli uomini leali all’Impero?” disse il nobile.

“Lo possono provare uccidendo gli altri traditori,” rispose Stefania.

Il nobile si affrettò ad andare incontro al suo ordine. Stefania mandò una delle sue damigelle a raggrupparne delle altre, e chiese a una nobildonna di istruire quelle servitrici dicendo loro che avrebbero dovuto mostrarsi obbedienti alle richieste di Stefania.

 

Stefania si guardò attorno scrutando il gruppo che stava con lei, giudicando chi sarebbe stato utile, chi aveva segreti da potersi utilizzare, quali debolezze rendevano possibile un loro utilizzo e controllo e quali invece erano pericolosi. Mandò il nobile che era stato così propenso ad evitare il combattimento a controllare in cancelli, e una benestante vedova litigiosa nelle cucine, dove non avrebbe potuto nuocere a nessuno.

Raccoglievano gente man mano che passavano. Guardie e servitori si univano a loro sentendo le sue parole e cambiando le proprie idee di lealtà rapidamente come il vento. Le damigelle di Stefania si inginocchiarono davanti a lei, poi si alzarono a un suo gesto per essere indirizzate al compito successivo.

Di tanto in tanto trovavano dei ribelli che non volevano sottomettersi, e quelli morivano. Alcuni morivano in un rapido attacco di nobili, le loro armi spezzate, i corpi devastati dopo essere stati picchiati a morte. Altri morivano con una pugnalata alle spalle, o con una freccia avvelenata conficcata nelle carni. Le damigelle di Stefania avevano imparato per bene i loro compiti.

Quando vide la regina Atena, Stefania si trovò a chiedersi cosa avrebbe dovuto fare.

“Che succede?” chiese la regina. “Che sta succedendo qui?”

Stefania ignorò il suo blaterare.

“Tia, ho bisogno che vai a vedere come vanno le cose all’armeria. Ci servono quelle armi. Immagino che ormai l’Alto Deputato Scarel avrà trovato una battaglia.”

Continuò a camminare in direzione della sala grande.

“Stefania,” disse la regina Atena. “Chiedo di sapere cosa sta succedendo.”

Stefania scrollò le spalle. “Ho fatto quello che avrebbe dovuto fare lei. Ho liberato questa gente leale.”

Era una questione così semplice, così evidente, che non c’era bisogno di aggiungere altro. Era stata Stefania a fare il lavoro di salvare quei nobili. Era a lei che dovevano la loro libertà, e forse le loro vite.

“Anche io ero imprigionata,” disse seccamente la regina.

“Ah, certo. Se l’avessi saputo vi avrei salvata insieme agli altri nobili. Ora vogliate scusarmi. Ho un castello da conquistare.”

Stefania andò avanti frettolosamente perché il miglior modo di averla vinta su una discussione era di non dare all’avversario la possibilità di controbattere. Non fu sorpresa quando gli altri presenti continuarono a seguirla.

Nelle vicinanze Stefania udì i rumori di un combattimento. Facendo un cenno a quelli che erano con lei, si diresse verso la rampa di scale alla ricerca di un balcone. Trovò rapidamente quello che cercava. Stefania conosceva la pianta del castello meglio di chiunque altro.

Di sotto vide un combattimento che probabilmente avrebbe impressionato la maggior parte della gente. Una dozzina di uomini muscolosi, nessuno con armi o armature simili, stavano combattendo nel cortile davanti al cancello principale. Lo facevano contro almeno il doppio delle guardie, forse il triplo prima che la lotta avesse inizio, tutti guidati dall’Alto Deputato Scarel. Per di più sembrava che stessero vincendo. Stefania poté vedere i corpi sparpagliati sui ciottoli con indosso le loro armature imperiali. Il nobile che amava scegliere la battaglia, ne aveva scelta una per tutti i tempi dei tempi a quanto pareva.

“Stupido,” disse Stefania.

Stefania rimase a guardare per un momento, e se avesse visto di più nell’arena, avrebbe forse potuto scorgere una qualche selvaggia bellezza in quel combattimento. Mentre assisteva, un uomo con una grossa ascia sbatté l’impugnatura della stessa contro due uomini, poi si girò e ne colpì uno con la lama tanto forte da tagliarlo quasi a metà. Un combattente che lottava con una catena balzò sul soldato e gli avvolse l’arma attorno al collo.

Era un’esibizione coraggiosa e impressionante. Forse se ci avesse pensato, avrebbe potuto comprare una decina di combattenti in passato e trasformarli in giuste e leali guardie del corpo. L’unica difficoltà sarebbe stata la mancanza di delicatezza. Stefania rabbrividì mentre uno schizzo di sangue arrivò quasi al bordo del balcone.

“Non sono magnifici?” chiese una delle nobildonne.

Stefania la guardò con tutto il disprezzo che riuscì a mostrare. “Io penso che siano dei cretini.” Schiccò le dita verso Elethe. “Elethe, pugnali e archi. Adesso.”

La damigella annuì e Stefania guardò mentre lei e alcune delle altre sguainavano armi da lancio e frecce. Alcune delle guardie con loro avevano archi corti presi dall’armeria. Uno aveva una balestra da nave, più facile da far funzionare se appoggiata a un ponte che a un balcone. Esitarono.

“La nostra gente è là sotto,” disse uno dei nobili.

Stefania gli strappò l’arco di mano. “E morirebbero comunque, lottando così miseramente contro i combattenti. Almeno in questo modo ci danno una possibilità di vincere.”

Vincere era tutto. Forse un giorno questa gente lo avrebbe capito. Forse era meglio che non lo capissero. Stefania non voleva essere costretta a ucciderli.

Per ora si accontentò di preparare l’arco meglio che poteva, con la sua pancia gonfia. Scoccando colpi verso il basso a quel modo, quasi non contava che non riuscisse a tirare indietro del tutto la corda dell’arco. Di certo non contava che non si prendesse il tempo per la mira. Con la massa di gente che lottava là sotto, di certo avrebbe comunque colpito qualcosa.

E ancora di più, era abbastanza da servire come segnale.

Le frecce piovevano verso il basso, Stefania ne vide una conficcarsi nel braccio di un combattente che ringhiò come un animale ferito prima che altre tre gli si piantassero nel petto. Anche i pugnali volavano giù tagliando e sfiorando, conficcandosi e uccidendo. I dardi avevano veleno che probabilmente non aveva tempo di agire prima che i bersagli venissero trafitti dalle frecce.

Stefania vide soldati imperiali cadere insieme ai combattenti. L’Alto Deputato Scarel guardò verso i suoi occhi accusatori mentre stringeva un colpo di balestra che lo aveva trafitto allo stomaco. Gli uomini continuavano a cadere sotto alle lame dei combattenti, o trovavano degli spazi nelle loro difese, anche se il loro momento di gloria veniva subito interrotto da una freccia.

A Stefania non importava. Solo quando l’ultimo combattente cadde lei alzò una mano perché l’assalto cessasse.

“Così tanti…” disse una delle nobildonne, ma Stefania le girò attorno.

“Non essere sciocca. Abbiamo arrestato il supporto di Ceres e abbiamo conquistato il castello. Non c’è nient’altro che conti.”

“E Ceres?” chiese una delle guardie presenti. “È morta?”

Stefania socchiuse gli occhi davanti a quella domanda, perché era una cosa di quel piano che ancora la irritava.

“Non ancora.”

Dovevano tenere il castello fino a che l’invasione non fosse finita o i ribelli non avessero in qualche modo trovato un modo di respingerla. A quel punto avrebbero potuto avere bisogno di Ceres come merce di scambio, o addirittura anche solo come dono in modo che le Cinque Pietre di Cadipolvere potessero mostrare la loro vittoria. Averla lì avrebbe forse addirittura attirato Tano, permettendo a Stefania di prendersi la sua vendetta tutta insieme.

Per ora significava che Ceres non poteva morire, ma poteva pur sempre soffrire.

E lei avrebbe fatto in modo che accadesse.

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